Deindustrializzazione nociva: esplorare il nesso tra precarietà e crisi ecologica

10 / 6 / 2022

L’anno scorso, i leader di 197 paesi si sono riuniti al vertice Cop26 di Glasgow per discutere la lotta contro il cambiamento climatico, naturalmente all’interno dei parametri del capitalismo. E a proposito di quest’ultimo, a meno di quaranta chilometri da Glasgow – a Grangemouth – si trova il polo petrolchimico della multinazionale Ineos, di proprietà di Jim Ratcliffe. Con un patrimonio di sedici miliardi di dollari, il sedicente “alchimista” è uno degli uomini più ricchi del Regno Unito e non teme le polemiche. Il suo ardente patriottismo non gli ha impedito di trasferire la sua residenza fiscale a Monaco, come le sue strombazzate origini working class non l’hanno trattenuto dall’umiliare i sindacati in una vertenza del 2013 proprio a Grangemouth. Chissà se i politici e i tecnici della Cop26 – tutti presi dallo sforzo per “sprigionare i trilioni della finanza privata” – sapevano che Ineos è anche il più grande emettitore di anidride carbonica della Scozia e che Ratcliffe è il capofila del lobbying per autorizzare il fracking nel Regno Unito.

A dire delle grandi aziende inquinanti, vale la pena di accettare le profonde disuguaglianze sociali e l’irreversibile degrado ambientale di cui Ineos è emblema in cambio dei posti di lavoro. Più precisamente posti di lavoro industriali, come esplicitato dallo stesso Ratcliffe con le sue promesse di “riportare le fabbriche” nel Regno Unito dopo la Brexit (anche se alla fine ha deciso di produrre le sue automobili in Francia). La grande industria è infatti – nell’immaginario collettivo – una fonte archetipica sia di posti di lavoro relativamente sicuri, sia di inquinamento e rischi per la salute. Ne risulta il cosiddetto “dilemma ambiente-lavoro”, l’idea che per guadagnare qualcosa in termini di buoni posti di lavoro sia necessario perdere qualcos’altro in quanto a salute e ambiente. Tale narrazione del dilemma ambiente-lavoro come un gioco a somma zero è stata criticata come eccessivamente pessimista dalla prospettiva della “transizione giusta”, che propone invece un gioco a somma positiva in cui l’industria viene trasformata per garantire al contempo la sostenibilità ecologica e la qualità dell’impiego (anche se la profondità del cambiamento politico necessario affinché ciò avvenga è spesso sottovalutata). Da un altro punto di vista, però, la narrazione del gioco a somma zero è invece troppo ottimista, perché ignora la realtà della “deindustrializzazione nociva”: il gioco a somma negativa in cui la perdita di posti di lavoro nelle fabbriche e il degrado ambientale avanzano di pari passo.

Il concetto di nocività si riferisce ai danni provocati dalla produzione alla vita, sia umana sia non umana. Oltre all’inquinamento e agli incidenti, la nocività riguarda anche i rischi per la salute mentale e fisica generati da crescenti disuguaglianze, precarietà, atomizzazione e altri fenomeni sociali legati alle modalità in cui la produzione è organizzata. Definisco invece la deindustrializzazione nociva come la deindustrializzazione del lavoro in aree dove industrie significativamente nocive sono ancora in funzione. Infatti, gli aumenti della produttività rendono possibile la coesistenza di deindustrializzazione del lavoro e mantenimento – e anche crescita – dei livelli di output manifatturiero.

Deindustrializzazione nociva, globale e locale

La misura della deindustrializzazione del lavoro è data dall’andamento del tasso d’occupazione nel settore manufatturiero sull’occupazione totale in una determinata area geografica. Si tratta quindi di un concetto scalabile: può essere applicato ai territori circostanti alle zone industriali ma anche ai livelli nazionale o globale. Da un punto di vista planetario, l’intersezione tra deindustrializzazione del lavoro e nocività cumulativa – ovvero la deindustrializzazione nociva globale – si può misurare comparando le statistiche sull’occupazione nel manufatturiero e quelle sulle emissioni di anidride carbonica. Queste ultime sono evidentemente un indicatore semplicistico, giacché è possibile immaginare una situazione di deindustrializzazione nociva in cui le emissioni nette di anidride carbonica vengono portate a zero, ma la crisi ecologica persiste a causa di altre forme di nocività. Ma anche con questo avvertimento è possibile fare alcune osservazioni interessanti.

Le stime dell’Ilostat sul tasso globale d’occupazione nel manifatturiero sono disponibili solo a partire dal 1991. Secondo questi dati, la percentuale in questione è lentamente declinata dal 16.4% nel 1991 al 13% nel 2020. Nello stesso periodo, le emissioni totali di anidride carbonica – che, oltre alle emissioni causate direttamente dalla produzione industriale, rivelano anche l’impatto dei prodotti industriali quando usati dai consumatori o da altri settori – sono aumentate da 23 a 36 miliardi di tonnellate annuali secondo il Global Carbon Project. Inoltre, tra il 1991 e il 2018, le emissioni generate dalla produzione industriale sono passate da 4,4 a 7,6 miliardi di tonnellate annuali secondo il Climate Analysis Indicators Tool.

Dagli albori del capitalismo, il tasso globale d’occupazione nel manifatturiero e le emissioni annuali di anidride carbonica sono per lungo tempo aumentati a braccetto. Tuttavia, i numeri ci indicano che – a un certo punto della seconda metà del XX secolo – c’è stata una separazione tra le due serie storiche: il tasso globale d’occupazione nel manifatturiero ha cominciato a scendere, mentre le emissioni di anidride carbonica hanno continuato a salire nonostante le migliorie tecniche della performance ambientale dell’industria, soprattutto a causa del lento ma inesorabile aumento di output globale in tale periodo.

Questa tendenza globale si manifesta in modo estremamente variegato nei diversi paesi, che hanno avuto processi di industrializzazione molto disomogenei dal punto di vista temporale, quantitativo e qualitativo. In una potenza industriale precoce come gli Stati Uniti, la deindustrializzazione del lavoro è cominciata già negli anni ’50. In un paese “ritardatario” come l’Italia, l’abbiamo vista a partire dagli anni ’80. L’impiego in Cina, la grande potenza industriale più giovane, ha probabilmente iniziato a deindustrializzarsi nel decennio scorso. Dove invece i tentativi di industrializzazione non sono mai davvero riusciti, per esempio in Marocco, il tasso d’occupazione nel manifatturiero ha cominciato a calare prima ancora che il paese potesse considerarsi industrializzato: la deindustrializzazione è stata “importata” insieme ai prodotti manufatturieri a basso costo.

Al livello locale, la deindustrializzazione nociva ha eroso i patti sociali del secondo dopoguerra tra industrie e territori nelle zone in cui compromessi di questo tipo esistevano. Grangemouth è un esempio drammatico di deindustrializzazione nociva al livello locale. Nella capitale petrolchimica della Scozia, la ripida caduta nella quantità e qualità di posti di lavoro industriali accessibili agli abitanti della zona – accompagnata da un declino della redistribuzione fiscale – si è dispiegata all’ombra dei fumi ininterrotti delle ciminiere. Secondo il censimento scozzese, nel 1961 il tasso d’occupazione nel manufatturiero a Grangemouth si assestava al 55%, e l’industria chimica costituiva un impressionante 44,5% dell’occupazione locale. Cinquant’anni più tardi, il tasso d’occupazione nel manufatturiero era ridotto al 13%, meno di un quarto. La combinazione di automazione, requisiti di qualifiche più alte (e relative assunzioni a lungo raggio) ed esternalizzazioni a una forza lavoro in appalto parzialmente nomade ha prodotto l’attuale situazione di deindustrializzazione nociva locale, in cui i residenti di Grangemouth non ricevono più grandi benefici dalla presenza dell’industria, in termini di posti di lavoro e servizi pubblici, ma sono ancora esposti alla sua nocività socio-ambientale.

Deindustrializzazione del lavoro e nocività cumulativa

Si sente spesso dire che le minacce all’occupazione sono dovute ai prodigi automatizzanti delle nuove tecnologie digitali. Tuttavia, Aaron Benanav ha mostrato in maniera convincente che lo sviluppo tecnologico determinato dalla logica del profitto (e quindi non l’unico possibile) ha portato negli ultimi decenni alla deindustrializzazione globale del lavoro e a un aumento della sottoccupazione a causa non di aumenti di produttività eccezionalmente alti, ma di una crescita dell’output eccezionalmente bassa. In altre parole, la crescita economica globale è stata così lenta che anche modesti aumenti della produttività sono stati più rapidi e hanno dunque avuto un impatto sull’impiego. Benanav dimostra che la lentezza della crescita economica è dovuta alla sovracapacità industriale esistente nel mondo, e qui si ferma la sua catena causale. Tuttavia, come hanno notato Alexis Moraitis e Jack Copley, l’automazione capitalista e la stagnazione economica sono interrelate, perché la corsa alla produzione di più beni in meno tempo finisce per abbassare i prezzi ed esercitare quindi una pressione sui tassi di profitto. Alla lunga, l’automazione minaccia i margini di profitto, indebolisce gli investimenti e porta così alla stagnazione economica che conosciamo oggi.

In tale contesto di stagnazione, l’erosione dei posti di lavoro colpiti dal cambiamento tecnologico avanza più rapidamente della creazione di nuovi posti di lavoro a simili condizioni contrattuali e salari relativi. Ma siccome la maggior parte delle persone deve comunque lavorare per vivere, il risultato non è la disoccupazione di massa ma un declino della proporzione di posti di lavoro sicuri e la crescita della precarietà in paesi e settori dove esistevano determinate garanzie per certi segmenti della forza lavoro. Inoltre, come mostra Phoebe Moore, la digitalizzazione ha permesso un nuovo balzo in avanti nella sorveglianza delle lavoratrici e dei lavoratori.

Il cambiamento tecnologico nella grande industria ha anche trasformato la composizione tecnica della sua forza lavoro, in particolare per quanto riguarda le qualifiche. Infatti, il sapere codificato necessario per operare sistemi altamente automatizzati viene acquisito attraverso l’istruzione formale piuttosto che tramite meccanismi informali di apprendimento sul lavoro o nelle comunità operaie. Di conseguenza, meno residenti dei territori vicini alle grandi fabbriche riescono a fare breccia nella loro forza lavoro core, perché la minore quantità di posti di lavoro è distribuita non sulla base della comodità geografica o di meccanismi locali di trasmissione del sapere, ma sulla base di graduatorie più deterritorializzate e determinate dalla performance in istituti di istruzione formalizzata. Il relativo sradicamento della forza lavoro operaia dalle comunità residenti attorno alle grandi industrie diminuisce gli incentivi degli abitanti a tollerare la nocività industriale e – in concomitanza con una generalizzata crescita della coscienza ambientale – aumenta le probabilità di attriti tra fabbriche e territorio.

Non a caso, la grande industria è sempre più spesso contestata per il rilascio di gas serra e inquinanti persistenti – per quanto riguarda il livello globale – e il rischio industriale e le emissioni tossiche – impattanti sul livello locale. Negli ultimi decenni, gli standard ambientali e sanitari della grande industria sono nel complesso migliorati grazie all’aumento delle regolamentazioni. Tuttavia, questi aggiustamenti tecnici sono resi insufficienti dalla natura cumulativa del degrado ambientale. È l’accumulazione progressiva della nocività che ha portato all’attuale crisi ecologica planetaria, con i suoi noti corollari di riscaldamento globale, perdita di biodiversità, impoverimento del suolo, acidificazione degli oceani, ecc. Quando i gas serra si ammassano nell’atmosfera, le diossine si accumulano nelle catene alimentari, la deforestazione e la desertificazione avanzano e la plastica si diffonde negli oceani, i graduali miglioramenti della performance ambientale della grande industria si rivelano un’arma spuntata per affrontare la crisi ecologica. Ciò contribuisce a spiegare l’apparente paradosso per cui la sensibilità ambientale è più diffusa oggi rispetto a quando l’industria era di fatto più inquinante.

Il capitalismo verde non è la risposta

Le inquietudini dei residenti rispetto alle grandi installazioni industriali nei loro territori sono spesso liquidate come egoiste e contrarie all’interesse generale. È tuttavia comprensibile preoccuparsi per lo scenario tratteggiato dalla deindustrializzazione nociva – fatto di profonde disuguaglianze, precarietà lavorativa, degrado ambientale cumulativo ed erosione dei legami comunitari. Anche perché, se l’accoppiamento di automazione e stagnazione continua a sospingere la deindustrializzazione del lavoro – una possibilità perfettamente realistica al livello globale – la deindustrializzazione nociva si accentuerà ulteriormente. Nel contesto dell’attuale crisi ecologica, le critiche territoriali nei confronti di fabbriche altamente inquinanti sono più in linea con l’“interesse generale” – sempre un significante aperto e conflittuale – della loro difesa, soprattutto se si pongono il problema di una ricomposizione con gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici impiegati in tali industrie.

Anche se molti vorrebbero tornare a una romanticizzata “età dell’oro” del capitalismo industriale, tale ipotesi è al contempo impossibile e indesiderabile, perché la crescita di output necessaria per reindustrializzare il lavoro agli attuali livelli tecnologici sarebbe incompatibile con la sostenibilità della riproduzione della vita sul pianeta. Tuttavia, l’alternativa capitalista alla nostalgia per i fumi delle ciminiere – ovvero la strategia degli incentivi “verdi” all’investimento privato che ha egemonizzato i circoli istituzionali come la Cop26 – difficilmente risolverà i nostri problemi.

Il nocciolo della questione è che l’economia capitalista è mossa dal profitto: gli investimenti vengono fatti solo se ci si aspetta un guadagno sulla somma di partenza. La crescita infinita del Pil è quindi necessaria alla creazione e al mantenimento dei posti di lavoro, a prescindere dalle sue conseguenze ambientali. Inoltre, la profittabilità di un’azienda non è data solo dall’efficienza, ma anche dall’abilità nel produrre cose che i consumatori compreranno. Ma il consumo via mercato ha una propria logica strutturale, diversa per esempio dalla pianificazione democratica. Le scelte di mercato sono intrinsecamente individualiste e di breve termine, mentre la pianificazione democratica è collettiva e potenzialmente lungimirante. In ultima analisi, il profitto rende lo sviluppo capitalista quantitativamente illimitato mentre il mercato lo fa qualitativamente cieco al degrado ambientale.

Per mantenere l’economia capitalista in movimento, è necessario proteggere i margini di profitto tagliando i costi, e anche limitate regolamentazioni contro la precarietà lavorativa e il degrado ambientale costano. Infatti, i costi non sono scesi abbastanza in fretta e di conseguenza la stagnazione e la deindustrializzazione del lavoro continuano, generando un circolo vizioso di precarietà e degrado ambientale nel tentativo di rivitalizzare gli investimenti. La precarietà lavorativa e l’accumulazione di nocività, lungi dall’essere incompatibili, sono entrambe sintomi dell’imperativo capitalista a tagliare i costi per produrre sempre più merci.

Come l’estrazione di idrocarburi in un pianeta dove le migliori riserve sono già state esaurite e l’atmosfera è colma di anidride carbonica può avvenire solo tramite pratiche ancora più dannose come il fracking, l’estrazione di profitti in una società in cui ci vuole così poco tempo per produrre enormi quantità di ricchezza può avvenire solo al costo di ulteriori precarizzazioni e devastazioni ambientali. Piuttosto che gli incentivi all’investimento privato, una speranza sono le mobilitazioni di massa per la redistribuzione della ricchezza (anche con riparazioni al Sud Globale), la diminuzione dell’orario lavorativo (che ridurrebbe anche la necessità di nuovi posti di lavoro) e una radicale trasformazione della produzione verso la demercificazione, necessaria per una reale sostenibilità (guidata da investimenti pubblici e sociali). La redistribuzione globale della ricchezza è necessaria per rendere il lavorare meno – e meglio – socialmente sostenibile, come misure transizionali “oltre la fine del mondo”.

** Questo contributo è stato realizzato con l’appoggio della borsa di ricerca ECF-2020-004 della Leverhulme Trust.

Immagine di copertina: il polo petrolchimico di Grangemouth, nella Scozia Centrale.

*Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Il Manifesto il 28 maggio 2022.