Della politica delle emozioni (o della politicità della medicina)

4 / 11 / 2020

Siamo nuovamente immersi un tempo scandito dagli annunci dei DPCM. Dal 7 settembre, il Presidente Conte ne ha firmati quattro, e il quinto è stato varato mentre scriviamo. Di pari passo, ondate di emotività sconvolgono l’opinione pubblica (che poi siamo noi e i nostri affetti): ondeggiamo tra nuovi contagi, posti in terapia intensiva in via di saturazione, notizie di amici e parenti contagiati e preoccupazione per le attività lavorative, la scuola dei figli, i soldi che mancano, siamo stati catapultati dal parziale sollievo estivo a un misto di paura, rabbia, terrore, risentimento e negazione (intesa come vero e proprio meccanismo psicologico di salvaguardia).

È il capolavoro della politica neoliberale: completamente assoggettata alle logiche di mercato, non ha più capacità di progetto o direzione la società, ma naviga a vista alla ricerca del consenso. Così si spiega la processualità incoerente con cui stiamo affrontando il ritorno (annunciato) della pandemia. D’altronde lo ha spiegato con algida freddezza teutonica la stessa Angela Merkel qualche giorno fa: “la gente deve vedere i posti pieni in terapia intensiva per poter chiudere tutto”.

Già, ma come siamo arrivati alla necessità di chiudere tutto? Facciamo un passo indietro.

Sanità

Questo grafico è decisamente molto più esplicativo di qualsiasi ragionamento. Considerando che con una media spannometrica i contagi si palesano due settimane dopo, le responsabilità dell’aumento esponenziale della curva (esponenziale significa che l’aumento non è lineare, ma aumenta della potenza di un numero noto) è chiara. Non dei giovani irresponsabili (in realtà parecchio responsabili, a giudicare dall’aderenza pressoché totale all’osservanza delle norme individuali) che bevono l’aperitivo, spesso all’aperto, bensì molto più banalmente dai luoghi in cui ci si accalca al chiuso per il tempo più svariato: la scuola e i trasporti, tra gli altri. Per un banale motivo: l’infettività, la capacità infettante, dipende sì dalla carica virale (quanto “virus” un individuo produce, cambia da persona a persona), ma anche da quanto si sta insieme e a che distanza. Non serviva essere virologi per capire che senza adeguati (massicci) investimenti in questi campi sarebbe successo quello che sta succedendo ora (considerando anche che per quanto riguarda i lavoratori, purtroppo da qualche decennio la tendenza è quella di usare la propria vettura).

Bisogna però smarcarsi subito anche da un altro terreno: se i giovani, “portatori sani” (ammesso e non concesso che sia vero), si contagiano a scuola e portano a casa il virus ai nonni, perché non serrare gli anziani dentro casa (vedi dichiarazioni dal vago sapore camiciobrunastro di un presidente di regione)? Semplicemente perché, oltre al netto rifiuto di dividere le vite tra produttive e improduttive (ma apprezziamo la chiarezza con cui parlano finalmente i responsabili del funzionamento di questo sistema, da Toti a Bonomi) è impossibile perseguire questa via: molti anziani vivono con la famiglia, per assistenza ma anche perché in questo paese il welfare familiare è una delle spine dorsali della tenuta sociale della famiglia.

Quello che è palese è che sono mancati degli investimenti lungimiranti e strutturali: contro la logica della serrata (o addirittura della sacrificabilità!) di alcune fasce della popolazione, andava investito pesantemente in medicina di prossimità e di comunità; nei tamponi per tutti e fatti capillarmente. A Padova, per esempio, adesso si aspettano 5 ore in media per essere sottoposti al test; praticamente una prova di resistenza. Che efficacia ha uno screening di massa con questi tempi? Quanta gente torna a casa perché non può aspettare, deve lavorare o deve badare ai figli? In Lombardia sono stati banditi concorsi per 583 medici, ma ne sono stati assunti solo 32, e meno della metà di loro si occupa di Covid. In Sicilia, 700 posti banditi e 17 assunzioni. Nel Lazio, 362 posti banditi e 0 assunzioni: andava fatto un serio piano di assunzioni di professionisti ospedalieri che non è stato immaginato sperando di passà a nuttata.

E ancora: il ministro Lorenzin nell’ambito della spending review del governo Monti, affermava che le Terapie Intensive dovevano essere sempre all’80-90% della saturazione. La presunta efficienza neoliberale che si scontra con la pandemia. Per non parlare dei trasporti: perché non sostenere i tour operator aumentando le corse affittando bus privati e nel frattempo acquistandone di nuovi? Non nominiamo le scuole, dove la formula “riapriamo così com’è con una spruzzata di DAD” sapevamo fin dall’inizio che sarebbe finita in tragedia.

Questo il quadro. È quindi evidente che il dispositivo “Comitato Tecnico-Scientifico” serve a dare una legittimità a una politica delegittimata nei fatti dall’incapacità di prendere decisioni, se non sull’onda dell’emotività, pro o contro il lockdown, del momento. L’epidemiologia, la branca medica che si occupa dello studio dell’evoluzione delle malattie nelle popolazioni, è una scienza prettamente politica (se mai ne esistessero di impolitiche): il campo è così complesso, gli indici e le variabili così tanti, che le decisioni prese sono sempre scelte politiche. E quindi in quanto tale criticabili.

Da una parte è evidente che la linea del governo è tutta schiacciata sul piano delle responsabilità individuali (che qui non neghiamo, anzi: anche contro la piaga del negazionismo, andava potenziata l’informazione attraverso i medici di base) Dall’altra, a fronte di investimenti mai nemmeno pensati in larga scala, si gioca su aperture e chiusure, ballando sul filo dell’ultimo posto in Terapia Intensiva. E già si parla di triage da zone di guerra, che prevede che il letto e l’assistenza medica vadano assegnati sulla base di un semplice criterio: il numero di anni di vita che una persona ha ancora di fronte.

Sanità

Passando dalla diagnosi alla terapia, restando in campo medico, siamo evidentemente di fronte a una contraddizione che abbiamo messo a focus, come movimenti, da tempo: il conflitto tra capitale e natura, o, detto più propriamente per questo campo, del conflitto tra il capitale e la vita. Essere anticapitalisti, oggi, è dichiararsi per la vita.

È necessario sciogliere la contraddizione ed evitare di cadere nel tranello di dover scegliere tra chi è produttivo e chi no. In fondo si tratta dello stesso tranello che il capitale ha messo di fronte agli operai di Porto Marghera, quando lottavano contro il PVC, o la città di Taranto con l’ILVA.

Non solo siamo in una delle società della storia umana con il divario più vertiginoso di concentrazione della ricchezza, ma durante i lockdown nazionali le maggiori companies si sono arricchite in una maniera spropositata.

La risposta la stanno indicando le piazze di questi giorni: reddito per tutti, in questa società non manca il pane; c’è chi ha i granai pieni e se li vuole tenere. E soldi per gli investimenti in salute, scuola, trasporti e tutto quello che serve per costruire una vita di relazione in sicurezza.