Giovedì 12 marzo presso la Sala degli
Anziani il convegno promosso da "Padova città a perta" ha
fornito un quadro approfondito e preciso delle azioni giudiziarie
messe in campo per colpire i movimenit sociali.
Le ampie
relazioni dei diversi ospiti hanno messo a tema l'urgenza di
un'analisi sulle forme di attacco che negli ultimi anni colpiscono
sempre più spesso le varie espressioni di dissenso e conflitto
sociale. Questo attacco si esplica nelle forme direttamente
repressive attuate dalla polizia nelle occasioni di piazza, ma è
alimentato a valle da un uso feroce degli strumenti e delle procedure
del diritto penale. La specificità padovana mostra una preoccupante
ed anacronistica recrudescenza repressiva tesa a chiudere ogni spazio
di conflitto possibile.
L'uso
disinvolto di misure restrittive della libertà personale quali
arresti domiciliari, obblighi di dimora e di firma, e dei fogli di
via che colpiscono gli attivisti che più si espongono nelle lotte
per una società equa è il segnale di un atteggiamento culturale
pericoloso, fatto di chisura e negazione di ogni dialettica:
sussistono insomma gli elementi che configurano un autoritarismo in
fieri, così distante dalla pretesa democratica dello stato di
diritto che dovrebbe essere garantito dal dettato costituzionale.
Il
tentativo di leggere, attraverso le dinamiche giuridiche, lo stato di
salute della democrazia nel nostro Paese regala subito un quadro a
dir poco inquietante: le pratiche di dissenso dovrebero essere
comprese e tollerate da un sistema democratico maturo, anche laddove
le espressioni assumono i tratti più radicali ed al di fuori della
legalità sancita dai codici. Le cronache giudiziarie raccontano
l'esatto opposto, e la disamina di provvedimenti e castelli
accusatori conduce alla conclusione che l'intolleranza verso ogni
forma ed ogni attore del dissenso è segno di una democrazia malata,
o meglio parziale.
Una più approfondita riflessione sul
diritto penale ne disvela l'origine e la funzione di strumento di
controllo dispiegato verso le aree deboli della società. Questa
specifica natura del diritto penale si manifesta priva di ogni
copertura proprio quando gli strumenti giuridici e di polizia che
fornisce vengono forzati applicandoli nel senso del controllo dei
conflitti politici e sociali. D'altra parte il diritto sembra
rispondere ad un senso di razionalità e misura, ma seppur affondi in
questi concetti le sue radici storiche i meccanismi di attuazione
restano comunque atti prevaricatori e di controllo. Le azioni
giudiziarie intraprese verso l'azione politica manifesta da un lato
la vera identità del codice penale, dall'altra rende necesario
riportare il diritto alle sue le funzioni storiche e
strutturali.
L'interazione tra la sfera del diritto e quella
del dissenso politico lascia disorientati. Quali ragioni impongono la
repressione della naturalezza della dialettica poltica in seno alla
società? Quali beni supremi sono messi in pericolo dalle condotte
conflittuali? Le azioni legali adottate contro i movimenti sono il
segnale di uno spostamento del bene da tutelare verso pre-poteri
politici esterni alle dinamiche di trasformazione sociale: ciò che
si vuole proteggere quindi non è più la tutela di un bene per la
comunità, bensì una modalità ben detrminata, predefinita ed
immutabile dello svolgersi della vita pubblica. Non più la libertà
del confronto democratico ma l'affermazione di una volontà altra che
snatura la dimensione della partecipazione alla vita
pubblica.
Entrando un poco nello specifico delle norme dei
codici, non si può non notare come l'attuale corpus legislativo sia
frutto di una stratificazione di legislazioni emergenziali:
provvedimenti che nel corso di decenni sono stati adottati per
fronteggiare situazioni contingenti e che hanno fornito alle autorità
di polizia strumenti applicabili in forma sempre più slegata dalla
magistratura. L'uso della legislazione d'emergenza ha in Italia una
purtroppo lunga tradizione, e questo non fa che peggiorare un codice
penale concepito sotto il regime fascista e mai riformato.
Dal
punto di vista del riconoscimento ed attribuzione delle
responsabilità, si può riconoscere uno slittamento dal piano
singolare a quello collettivo, nel senso che si adopera sempre di più
il riconduciamento di un singolo all'interno di una collettività, la
quale quest'ultima ne diventa aggravante; infatti dentro dimensioni
collettive, dove sussiste una dialettica sociale intensa, i canoni di
lettura in chiave singolare dei comportamenti sono insufficienti ed
inadeguati, ed allora si cerca di colmare il vuoto estendendo i
criteri di valutazione identificati per le condotte collettive.
La lente di lettura della responsabilità individuale non può e non deve essere applicata ad un corpo collettivo e plurale, ed anzi bisogna riconoscere che ogni estensione del criterio di responsabilità singolare si fa strumentale e capziosa perchè ha l'effetto di giudicare ed eventualmente condannare le trasformazioni stesse della società, mettendo alla sbarra gli stessi ideali che ne stanno alla base, ancor più se contrastanti con le processualità economiche e politiche dominanti.
Il
condannare,infine, atto estremo del processo penale, dovrebbe
assolvere ad una funzione rieducativa: ma allora condannare le
mozioni trasformative della società significa voler rieducare,
ricondizionare la società tutta, esprimendo una forza di direzione
esterna. Ancora una volta le azioni giudiziarie esprimono la faccia
violenta del diritto penale, facendolo agire come strumento di
supremazia politica sulla società ed in particolare sulle sue
componenti più deboli.
Spostando la lettura da un'angolazione
più sociologica, la narrazione pubblica dei movimenti esclusivamente
attraverso le azioni intraprese a livello giudiziario costituisce una
ulteriore forma di repressione, agita questa volta sul piano
simbolico. Parlare alla società criminalizzando ogni forma di
conflitto e ricostruendo non solo gli avvenimenti ma anche le
motivazioni ottiene lo scopo di suscitare sentimenti negativi e di
rigetto nell'opinione pubblica verso ogni processo di cambiamento; al
contempo si genera una linea di pensiero diffuso che è politicamente
contraria ad ogni conlitto. Per di più la stampa in Italia è ben
lungi dall'essere considerabile come una voce libera. Il mestiere del
cronista è sempre più soggetto ad ingerenze che sfociano nella
minaccia aperta. La scelta delle forme e delle fonti della narrazione
da proporre al pubblico è quindi fortemente condizionata; e chi si
dedica al giornalismo d'inchiesta subisce la stessa sorte di chi
scende in piazza. L'azione giudiziaria sta assumendo una connotazione
funzionale alla dissuasione sul singolo giornalista, che si vede
deferito all'ordine e deve fronteggiare richieste talvolta ingenti di
risarcimento economico avanzate per via amministrativa e non più
solo per le vie legali classiche. Anche sotto questo aspetto dunque i
provvedimenti posti in essere in forza del diritto sanciscono un
rapporto sbilanciato tra chi fa inchiesta e chi ne è l'oggetto.
In
conclusione, la ricchezza e profondità dei contributi ci spingono da
una parte a voler approfondire la riflessione teorica sul diritto
come scienza, e dall'altra a riconoscere l'urgenza di una presa di
coscienza e di parola quanto più larga possibile a sostegno dei
protagonisti delle lotte sociali. Ci lasciamo dopo una lunga serata
con un appuntamento aperto ad ulteriori momenti di confronto e senza
dubbio più sicuri nell'affermare che #lalibertànonsimisura.