Donne al lavoro!

7 / 2 / 2011

Il rifiuto del lavoro come principio base che regola l'esistenza è stato il tratto distintivo di una generazione, la prima che ha avuto accesso alla formazione universitaria massificata. Questo elemento primario, sussunto in pieno con le lotte delle donne, ha fecondato progetti di vita che hanno stravolto la morfologia culturale e politica di un'Italia schiacciata tra la retorica del lavoro con il ricatto dei sacrifici e l'operaismo puro e duro. Il lavoro è cambiato ma l'opzione di rallentare i ritmi e scardinare la macchina della produttività come valore e unico orizzonte resta attuale. Anzi la forza creatrice del lavoro è riconoscibile in ogni attività umana perché lavorare non è vendere la propria vita in cambio di un salario, la fatica e la velocità imposte, ma è la dimensione sociale e la prospettiva in cui questo lavoro si realizza.

Quando si parla di trasformazione del lavoro è immediata la percezione della mutazione più evidente, quella che viene chiamata 'femminilizzazione', cioé l'obbligo alla vendita promozionale di se stessi e la costante disponibilità a lavorare. La curva della qualità tra lavoro e vita delle ultime due generazioni mette in luce le condizioni di auto-sfruttamento a cui ci sottoponiamo ed evidenzia il costo esistenziale dell'impatto con il 'darwinismo sociale' del mercato del lavoro: le donne a pari lavoro guadagnano meno degli uomini e rappresentano la maggioranza nei lavori occasionali o temporanei detti intermittenti, nel part-time e nei lavori pagati poco e male.

Sul versante produttivo, il capitalismo avanzato si preoccupa della 'rappresentanza' e dell'a 'parità' dal punto di vista strutturale, l'accumulazione non si presenta come discriminatoria, dove il lavoro può generare profitti e valore poco importa chi lavora e dunque donne, individui originari o appartenenti a gruppi considerati minoritari per origine, sesso o altre differenze da 'proteggere' hanno il diritto ad accedere a "posti di responsabilità". Questo modello non è appannaggio esclusivo di una cultura conservatrice e mercantile, molte sono le occasioni in cui le aspirazioni al cambiamento o anche solo intenzioni di uguaglianza sociale sono deluse da donne, 'neri', omossessuali o altre figure considerate atipiche del paesaggio politico ed economico che hanno contribuito con riforme "innovative" al progredire e all'aumento della discriminazione economica e sociale.

"Paradossalmente, la retorica del femminismo ha raggiunto il suo apice nel momento stesso in cui le condizioni di vita reali delle donne sono peggiorate, questa retorica è stata utilizzata per favorire politiche che hanno un effetto negativo prima di tutto sulle donne ." constata L. German in Material Girls: Women, Men and Work (London, 2007) memore del primo ministro donna del Regno Unito, Margaret Thatcher. Questo esempio serve anche a vedere l'altra stampella che regge il malinteso della rispettabilità rappresentativa: la manipolazione dell'esclusione sulla base dell'origine etnica o di genere rivelano la corruttibilità delle poltiche identitarie. In generale, non c'è automatismo tra l'accesso delle donne o delle minoranze a posizioni di potere e il miglioramento delle condizioni di vita di queste categorie, fino ad oggi. Exit le 'success story' o quelle che si presentano come tali, resta l'esproprio e l'abuso del termine "femminismo" nella realtà dello sfr uttamento.

Femminismo e ideologia del lavoro

Una lezione di opportunismo ci viene magistralmente impartita dal trattamento inflitto in nome del "rispetto delle donne" ai 'nemici interni', le devianti che non rispettano i valori specificatamente "occidentali". Contemporaneamente, gli stessi attori politici tagliano i fondi al 'planning-familiare' , restringono l'accesso all'educazione e ai consultori, condannano l'aborto e contrastano la pratica contraccettiva.

Se i talebani cattolici parlano di emancipazione delle donne per andare in guerra forse il tempo è scaduto.... Insomma oggi non esiste il femminismo, ne' buono 'di sinistra' ne cattivo 'di destra'. La guerra ai terroristi che "strappano le unghie alle donne che si mettono lo smalto" come diceva l'ex-first lady Laura Bush si basa sul principio che tutte le donne e in particolare quelle musulmane, sono vittime e che di conseguenza hanno bisogno di qualcuno di 'sicuro' che le salvi dal loro terribile destino, anche se - purtroppo - i metodi per riuscirci sono brutali e devastanti. Ci spiegano, a noi e alle donne afghane, che è necessario per il loro bene.... che i diritti delle donne diventino strumento di propaganda dell'occupante per giustificare l'invasione.

Questa schematica escursione sulla parità e l'emancipazione al tempo della guerra per dire che il femminismo contemporaneo serve quasi a tutto tranne alla lotta contro la discriminazione e per l'eguaglianza dei diritti. Dal marketing alle mutilazioni, dalla pornografia 'scelta' agli uomini prosciolti dall'accusa di violenza sessuale, dal bagno schiuma che 'valorizza' l'amor-proprio fino ai bombardamenti, diventa improprio se non difficile parlare di un 'femminismo'.

I diritti umani, e delle donne in particolare, servono oggi per radicalizzare il discorso contro l'slam e alla fine evitare di affrontare questioni che riguardano più da vicino la convivenza e la segregazione sociale che la religione (www.gemic.eu). In questa logica, la musulmana fervente diventa l'antitesi della femminista vociferante. Le contraddizioni della legge francese che vieta alle donne l'uso del 'velo' sono l'esempio: il 'foulard' come segno del potere maschile (del padre e del fratello maggiore) sulle ragazze e sulle donne deve essere vietato quindi tutte quelle che si ostinano a portarlo saranno escluse. Queste donne sono oppresse quindi saranno punite. Oppure, queste donne scelgono liberamente di portare il velo perciò saranno punite. E perché vietarlo? Perché si tratta di un'esibizione di segno religioso. Queste donne ostentano la loro fede, vanno punite. Comunque.

Nel 2004, il Parlamento francese aveva votato una legge che vietava l'ostentazione di segni religiosi nelle scuole pubbliche. Con il sostegno di responsabili delle istituzioni scolastiche e degli insegnanti, la legge assumeva la protezione delle giovani allieve, spesso minorenni, dalle pressioni familiari che spingono a portare il velo. Quelle che intendevano o erano obbligate a portarlo finivano per frequentare gli istituti privati di tipo religioso oppure restavano a casa ed interrompevano gli studi. Questa è tutt'oggi l'alternativa per le studentesse.

Il nuovo divieto è di natura diversa. La legge sul burqa ha come oggetto le donne adulte e la sua radicalità non offre alcuna alternativa.

Secondo un punto di vista che si definisce laico, qualsiasi donna con addosso un velo è oppressa. Se la donna in questione si giustifica argomentando una libera scelta contraddice lo stesso punto di vista che esige una libertà di scelta. Una doppia logica che non tiene conto di un fatto: il velo vent'anni fa era molto raro, oggi pare onnipresente. Imbarazzante assistere al furore femminista contro alcune giovani donne velate, ascoltare le sdegnate che esortavano l'ex- presidente della Repubblica Chirac ad infierire con la Legge (convalidata dal Consiglio costituzionale il 7 ottobre 2010) mentre il corpo delle donne è universalmente venduto, umiliato e offeso.

Ma allora, una donna può esporre il proprio corpo solo se deve vendersi?

La legge che vieta il velo alle donne è una legge ideologica che ordina di esporre il proprio corpo e che autorizza esclusivamente " la circolazione del corpo femminile in quanto merce" (A. Badiou nell'articolo "La Legge sul velo, la paura" apparso su Le Monde il 22 febbraio 2004).

Far circolare il corpo femminile (anche maschile) nell'ambito di una strategia di utilizzo e consumo, ecco che la questione del velo rivela la contraddizione, suscita confusione, collera e tanta ossessione a legiferare.

Esiste un continuum tra la donna che porta il velo e la porno-star emancipata attraverso l'ideologia contemporanea del lavoro perché l'economia del lavoro si gioca sul piano della circolazione dei corpi. Uscire da questa serie di ambiguità declinate al femminile forse aiuta, anche se solo parzialmente, ad interpretare senza falsi moralismi i meccanismi che persistono ad opprimerci attraverso il lavoro e la cultura del lavoro.

Donne, Diritti, Dignità e Democrazia

"D come Donna, Diritti, Dignità" dicevano i cartelli portati dalle "metalmeccaniche" della Fiom in piazza a Torino e, contemporaneamente, altre donne in Tunisia e in Egitto arboravano le scritte "Donne per la Democrazia".

Ai tempi del 'capitale umano' la partecipazione della forza lavoro femminile all'economia merita una rinnovata riflessione. Certo le donne hanno sempre lavorato, allevato figli, preso cura del focolare, coltivato l'orto, etc. e lavorato in casa, i 'colletti rosa' esistono. Lavoro non riconosciuto e non ricompensato. Solo quando le donne hanno cominciato a lavorare in massa "fuori dal cerchio domestico" come scriveva Marx, si è trasformato il rapporto tra uomo e donna che a sua volta ha modificato la composizione familiare. L'attitudine alla 'flessibilità' odierna rende implicito il fatto che le donne non hanno alcun ruolo naturale e che nessun tipo di lavoro è loro precluso, e il mercato del lavoro, almeno in apparenza, sembra più propizio alle donne che agli uomini. É un dato reso comune che le ragazze ottengono risultati migliori negli studi, dalla scuola all'università, lavorano prima, durante e dopo la maternità, anzi sono incitate a riprendere il la voro nonostante ci sia un numero inadeguato e spesso del tutto insufficente di posti negli asili nido.

Altro dato è la forte presenza sul mercato del lavoro delle giovani donne 'single', le donne celibi costituiscono un fattore essenziale per la prosperità delle agenzie di lavoro ad interim i cui benefici aumentano con il numero di contratti temporanei.

Cristina Morini in "Per amore e per forza" (2010) spiega bene come i 'tratti' associati alle 'donne' (loquacità, cura, empatia e altre qualità ritenute innate) siano diventati strumenti di auto-valorizzazione, considerarsi buoni comunicatori è il profilo 'ideale' per lavorare in un call-center oppure ottenere una delle tante mansioni proposte da contratti a termine nel mercato del lavoro detto 'creativo'.

Questo aspetto esistenziale del lavoro, un legame quasi intimo, produce una cultura 'attitudinale', spinge ad inserirsi e riconoscersi nell'universo della 'performance' lavorativa, dove è d'obbligo "sviluppare nuove competenze" in eterno e "acquisire nuove esperienze" per ottenere anche un primo impiego. Un circolo vizioso che sfrutta il carattere pragmatico e ragionevole attribuito alle donne per trasformare il lavoro in "sviluppo personale". Inversamente, il part-time, venduto come una 'liberazione', forma ottimizzata di 'flessibilità', si traduce nell'isolamento, non conoscere i propri colleghi, non avere relazioni con i propri compagni e compagne di lavoro è un grande, enorme vantaggio per l'impresa e per l'agenzia interinale: con l'atomizzazione forzata del lavoro, organizzarsi diventa strutturalmente impossibile. Questo aspetto viene presentato come una scelta e una libertà, in realtà non lo è per milioni e milioni di donne e di uomini.

Quando poi una donna si ritrova ad affrontare una maternità deve anche far fronte a forme di discriminazione sfacciate o celate a seconda del livello remunerativo: una stragrande maggioranza dei datori di lavoro censurano la maternità e dichiarano o ammettono che non assumono donne se hanno elementi per pensare che possano eventualmente rimanere incinte. Significa che le imprese non si preoccupano di sapere se i diritti sono tutelati oppure non considerano i padri disponibili all'impegno familiare.

In Europa, le donne che lavorano a tempo pieno guadagnano, in media, a pari ruolo, 17% in meno di un uomo, se lavorano part-time 37% in meno. La donna è desiderabile se è a buon mercato e se non resta incinta.

In "The Feminization of Labour in Cognitive Capitalism" (2007), C. Morini, la "femminizzazione del lavoro non definisce solo l'aspetto oggettivo di incremento quantitativo della presenza femminile nella popolazione attiva mondiale; designa sempre più spesso il carattere qualitativo e costitutivo di questo processo."; questa femminizzazione non è compiuta, il mondo del lavoro trova ancora ostacoli, oltre ai bambini che nascono c'è l'età e ci sono le donne sans-papiers, le badanti e le 'domestiche' assunte da altre donne che lavorano. La politica della 'prima a partire e ultima ad arrivare' caratterizza il flusso e riflusso del mercato del lavoro da almeno cento anni, ancora oggi il discorso del lavoro 'emancipatore' riposa sulla costante negazione della 'classe' e dell'età. ll capitalismo non è mai stato il migliore amico della donna.

Donne e uomini percepiscono l'esigenza di rispettare l'onnipresente imperativo ad essere "capace di adattarsi" passando il proprio tempo a fare "networking" e comportarsi come un Curriculum Vitae ambulante.

Da un lato l'economia del lavoro non fa caso all'identità di chi lavora purché il lavoro venga svolto efficacemente, dall'altro seleziona rispetto al genere se questo permette di ridurre i costi e generare profitti: " Il lavoro è un mezzo per emanciparsi dall' oppressione maschile, ma solo entro i limiti definiti dall'organizzazione gerarchica del lavoro. Con la generalizzazione del precariato, diventato un elemento strutturale del capitalismo contemporaneo, 'il lavoro diventa donna', cioé la frammentazione dei servizi forniti e la complessità dell' entrata/ uscita che hanno caratterizzato il mercato del lavoro in epoche diverse, sono diventate paradigma generale, indipendentemente dal genere. In questo senso si può dire che la donna oggi è la figura della precarietà sociale: nel capitalismo cognitivo, precarietà, mobilità, e frammentazione sono elementi costitutivi del lavoro di tutti, a prescindere dal genere." (C. Morini).

Ogni lavoro, compreso quello degli uomini, è diventato un lavoro di donna.

La femminizzazione del lavoro è anche la femminizzazione della ricerca di lavoro.

Oltre a passare il tempo a 'relazionare' e a farsi pubblicità è a partire dal "corpo" che la logica del lavoro codifica il nostro comportamento, questo vale sia per il/la disoccupata che cerca una formazione che per il/la manager di un'azienda che deve destreggiarsi tra un contratto e l'altro. Come esige anche il modello di contratto "alla marchionne" in Fiat, è richiesta la prova del sapersi vendere dove tutto ha importanza e per essere 'competitivi' è indispensabile 'capitalizzare' sul proprio percorso personale, le proprie 'capacità' a lavorare 'meglio' e 'di più' dimostrando di essere 'motivati' e che nulla potrà impedire o distrarre dall'immersione completa nel mondo dell'impresa in cui si postula l'impiego.

Prima di tutto annullando o restringendo quasi del tutto la separazione tra tempo 'libero' e tempo 'di lavoro'. Questo ingranaggio scatta nel momento in cui viene 'per contratto' negato il diritto a non spiattellare, o esibire su un banco come una merce, la propria vita personale. Il mondo del lavoro incoraggia il 'tête-à-tête', questa formale intimità: siamo costantemente presenti e raggiungibili, rappresentiamo 'limpresa' dunque chi comunica tramite social network evita commenti in rapporto con il proprio lavoro, sempre più difficile per chi 'pratica' Facebook che amalgama amici e colleghi. La vita personale è linfa dell'economia. Nessuna differenza o disgiunzione possibile tra lavoro, vita sociale, personale e fisica, la confusione, il compenetrarsi è quasi totale. Questa colonizzazione dell'esistenza attraverso il dominio pervasivo del lavoro sorpassa l'oggettivazione dell'identità e del corpo femminile così come l'abbiamo pensata.

Il lavoro che non è sexy

La sintesi che esprime il paradigma tra mondo del lavoro e cultura compulsiva al consumo è l'industria della pornografia. Il sesso è un lavoro, anche il suo linguaggio è incorporato al lavoro ma qui non si tratta di sottolineare l'aspetto moralmente degradante, piuttosto di riconoscere che la pornografia per come entra nella quotidianità è prima di tutto una gigantesca industria che si distingue culturalmente da altre industrie con un incremento costante e in crescita ad impatto economico e sociale globalmente significativo.

Il Web 2.0 ha moltiplicato in modo esponenziale i diversi canali che assicurano la diffusione di supporti media specializzati, si tratta principalmente di fotografie, video e letteratura con un'ampia collezione di archivi cinematografici che coprono un secolo (A. Dworkin in Feminism and Pornography, Oxford University Press, 2000).

Circa 300 mila sono i siti consacrati alla distribuzione di prodotti vari con 200 film che escono ogni settimana per un giro di affari che supera l'industria cinematografica hollywoodiana e le 'majors' sommate insieme.

Chi racconta o scrive che la pornografia afferma prima di tutto la libertà di espressione intenzionalmente occulta la specificità della sua storia e con essa le condizioni economiche e sociali in cui essa esiste e sopravvive: lo sfruttamento delle donne ( e degli uomini) nell'industria porno è altrettanto brutale di qualsiasi altro sfruttamento in questa società. L'unica differenza è che si tratta di una delle rare industrie dove gli uomini guadagnano in generale meno delle donne.

Belle di giorno e di notte

Il lavoro notturno, considerato come eccezione, si è banalizzato.

In Francia riguarda oltre il 15% del lavoro dipendente e la penibilità degli orari è riemersa nel dibattito pubblico che ha contrastato la riforma delle pensioni. Nonostante siano milioni i lavoratori e le lavoratrici impiegati nei turni di notte, raramente le condizioni del lavoro di notte figurano nelle priorità dell'agenda sindacale. Ai 3,6 milioni si aggiungono circa 370 mila lavoratori e lavoratrici non salariati. Questo sensibile aumento è tutto femminile, una donna su dieci lavora di notte. Questo risulta a seguito dell'applicazione della legge del 2001 che ha determinato la fine del divieto del lavoro notturno per le donne nella produzione industriale. Questa convenzione che risale al XIX secolo è stata stralciata dai parlamentari perché in contraddizione con le regole europee fondate sul principio della non-discriminazione tra uomini e donne. Questa riconosciuta parità va nello stesso senso della crescita dei profitti, lo stesso Consiglio econom ico, sociale e ambientale europeo (CESE) sottolinea che la diffusione degli orari notturni si deve a ben altri fattori che l'emancipazione femminile e riconosce che "L'intensificazione del lavoro in generale", "l'evoluzione tecnologica nel settore della comunicazione", "le strategie commerciali che inseriscono il cliente al centro dell'attività produttiva", nonché "il forte incremento dell'esternalizzazione dei servizi (di pulizie, informatici, etc.) hanno giocato un ruolo fondamentale per il mercato". Inoltre, in certi settori dell'industria, le imprese cercano di aumentare la durata di uso dei sistemi di produzione sia meccanizzati che digitalizzati, cioé di farli funzionare sfruttandoli al 100% privilegiando esigenze di tipo tecnico rispetto a quelle di chi lavora. Questa evoluzione pone dei problemi di salute pubblica perché un dato è certo: i turni prolungati, e in particolare quelli notturni, non solo provocano gravi incidenti ma hanno provati effetti n efasti sull'equilibrio fisico e psichico delle persone al lavoro.

La constatazione del forte scompenso subito tra vita personale e vita professionale, in special modo per le donne che compensano attività lavorativa e familiare accelerando i ritmi di lavoro e di sfruttamento ( Gender, Welfare State and the Market. Towards a New Division of Labour, Routledge, London-New York 2005) ha spinto il CESE a chiedere una revisione del testo di legge europea del 2001. L'esigenza è di riformulare il carattere di "eccezione" del lavoro notturno ma senza giustificarlo con "la necessità di assicurare la continuità dell'attività economica" come dice la formula adottata, questo concetto che non è inquadrato e chiaramente definito nel codice del lavoro lascia spazio ad interpretazioni estensive, il rischio di modificare per non cambiare resta attuale.

Ora le donne che, in Francia, sono scese in piazza contro la riforma delle pensioni si scontrano con un cultura restauratrice che le vede come oneste cittadine-lavoratrici oppure giovani studentesse ribelli, 'casseuses', o ancora immigrate/musulmane fanatiche. Ma non basta, devono anche fare i conti con l'inquietante evocazione di un femminismo repubblicano e universalista, un femminismo bellicoso e di Stato, indifferente alla sorte delle donne e dei minori immigrati, che agisce contro le donne, che appoggia le guerre e mette al bando le donne che indossano il velo.

L'esclusione nelle scuole e università delle allieve con il foulard segnala l'impotenza politica ridotta all'esercizio del potere, l'intolleranza consensuale per sacrificare altre donne in nome di un'autorità.