È più facile fermare il sole che il capitalismo

Il quarto numero di Jacobin Italia pt. 1

31 / 10 / 2019

Pubblichiamo un'intervista a Lorenzo Zamponi, ricercatore presso COSMOS - Center for Social Movements Studies della Scuola Normale Superiore di Pisa. L'intervista è a cura di Anna Clara Basilicò.

Jacobin Italia nasce un anno fa come rivista sorella di JacobinMag, nata negli Stati Uniti nel 2010. L’obiettivo era di mettere in comune, anche tra persone con background militanti diversi, la battaglia delle idee per provare a fronteggiare direttamente il pensiero dominante e per stare nel dibattito pubblico in maniera radicalmente alternativa. In quest’ottica, l’obiettivo di Jacobin Italia è quello di provare a ribaltare molte delle narrative mainstream, a raccontare i temi che occupano anche il dibattito pubblico in maniera differente. 

Uno degli articoli che cito più spesso quando racconto di Jacobin è un pezzo comparso alcuni anni fa sulla rivista inglese che intitolava “Inventing the weekend” su come i lavoratori ottennero il fine settimana. L’idea che se esiste il fine settimana come momento di riposo dal lavoro è perché una battaglia collettiva l’ha reso possibile è banale, scontata. Eppure al momento il pensiero dominante ci racconta l’opposto: ci dice che ogni nostra liberazione sul piano individuale, ogni progresso, ogni piccola emancipazione può venire solo dalla competizione, dalla guerra di tutti contro tutti. Ma non è vero: non c’è liberazione individuale che non passi attraverso l’organizzazione collettiva. Durante la prima riunione di redazione, quando si trattò di decidere i temi da trattare nei numeri cartacei, scegliemmo di dedicare un numero alla crisi climatica perché ci accorgemmo che, sebbene presente all’interno della comunicazione mainstream, la questione climatica veniva raccontato da moltissime prospettive diverse tranne che da questa. L’accento non era mai sulla collettività, ma sempre sull’individuo, sul singolo. Il nostro obiettivo era quindi di portare l’azione collettiva al centro del dibattito sull’ecologia e sulle lotte ambientali. Il tutto accadeva prima del 15 marzo: tutto il ciclo di mobilitazioni che ha attraversato il pianeta in questi mesi ci ha aiutato enormemente a scrivere questo numero, dandoci la possibilità di ragionare non su astrazioni, ma direttamente sui soggetti protagonisti. L’editoriale si intitola «Non è colpa vostra» proprio per questo: volevamo sovvertire quello che ci viene raccontato tutti i giorni, che i piccoli gesti della nostra vita quotidiana sono la vera responsabilità da assumersi per salvare il pianeta, che l’essere umano in sé è una piaga per l’ambiente, per ribadire come il problema sia il modo in cui produciamo, distribuiamo e consumiamo le merci.

Lorenzo, insieme a Salvatore Cannavò, nell’articolo a quattro mani «Ogni maledetto venerdì» avete riportato alcuni dati sulla composizione delle piazze del 15 marzo. Una partecipazione moltitudinaria, con piazze sorprendenti, che ha lasciato di stucco. Dopo il primo sciopero globale in Italia è nata l’esigenza di organizzare questa spinta straordinaria: credi che Fridays For Future possa ragionevolmente essere definito come un movimento? Cos’è che lo caratterizza in particolare?

Se uno guarda alla definizione da manuale, un movimento sociale si ha quando c’è un conflitto contro un avversario chiaramente identificato, e qui ci siamo e non ci siamo; quando la mobilitazione avviene non attraverso una singola organizzazione ma attraverso un denso network informale di persone, e su questo ci siamo; quando c’è un’identità collettiva, e anche su questo direi che ci siamo. 

Da un punto di vista meramente scolastico direi quindi che sì, Fridays For Future è un movimento sociale. In realtà, tuttavia, credo che il parametro cui far riferimento per rispondere davvero a questa domanda, o almeno per ragionarci, sia la durata temporale. Quello che distingue una campagna – che riesce a politicizzare un certo tema ma che mobilita per un lasso di tempo determinato – da un movimento, che si fa attore collettivo per un lungo periodo, è una questione di prospettive a lungo termine, per cui credo sia difficile ancora avere un’idea chiara in proposito.

Si possono però fare alcune osservazioni: le dinamiche degli scioperi climatici hanno radicalmente innovato il panorama dei movimenti ambientalisti. Noi siamo in un Paese in cui c’è una tradizione di movimenti per l’ambiente, anche se molto spesso la si racconta diversamente, incentrando la storia dell’ecologismo sull’attivismo dei Paesi dell’Europa centro-settentrionale. In Italia, la questione nell’ultimo quindicennio si è declinatra sulla scorta delle battaglie territoriali, contro grandi opere o infrastrutture specifiche, con una frammentazione e un radicamento territoriale enorme. 

Per diversi anni ho lavorato in Veneto come giornalista: in questa regione, la gran parte dei temi politici presenti nelle aree extra-urbane sono temi territoriali e ambientali. La maggior parte delle questioni su cui si danno organizzazione e mobilitazioni ha a che fare con i rifiuti, con la costruzione di autostrade, con scavi etc: cose che la politica, intesa come rappresentanza, non ha saputo riconoscere, dando seguito alla favola dell'ambientalismo come particolarità d'oltralpe. 

Non è un caso se il primo partito a impugnare queste questioni sia stato il Movimento5Stelle. Certo, ciò non toglie che durante l’esperienza di governo gialloverde questa attenzione sia stata completamente disattesa, ma il consenso elettorale dimostra anche che il potenziale politico era eccezionale.

L’evoluzione degli ultimi mesi è di radicale innovazione rispetto a quanto già visto, sia per le dimensioni che per l’estraneità della lotta di Fridays For Foture a una vertenza specifica. In questo senso FFF non è un movimento di reazione, perché pone la propria vertenza come un universale: il futuro. È una questione molto ambiziosa e molto ampia, che lancia una sfida diversa. 

L'immaginario legato al futuro è qualcosa che da un lato caratterizza l'identità generazionale: a parlare è quella generazione che ha più futuro davanti. D’altro canto, questa percezione dell’urgenza – che passa anche dalla scelta di sostituire la locuzione "cambiamento climatico" con "emergenza climatica" o "crisi climatica", dal simbolo di una clessidra, dall'evocazione dell’estinzione – è una retorica cui non siamo molto abituati a sinistra. Normalmente siamo abituati a vivere un mondo in cui l'emergenza viene utilizzata contro di noi: nei mesi del governo Monti al mantra dell’urgenza corrispose il peggior pacchetto di austerity mai visto. L'emergenza è qualcosa che viene normalmente utilizzata per depotenziare il conflitto: vedere l'emergenza, invece, come qualcosa in grado di costruirlo, questo conflitto, è un elemento che pone nuovi problemi e si configura come qualcosa di estremamente interessante. 

All’inizio di ottobre a Napoli si è tenuta la seconda assemblea nazionale di FFF: il report di questo incontro esprime, per la seconda volta, una radicalità davvero sostanziale. Dall’anticapitalismo all’intersezionalità, le rivendicazioni di FFF toccano davvero nodi cruciali. Credi che questa radicalità sia effettivamente rappresentata dalle/nelle piazze?

Fridays For Future si sa configurando come movimento con una composizione ampia, innovativa e trasversale: come chiunque sia stato in un movimento ampio, innovativo e trasversale sa, questa configurazione può essere abbastanza scomoda, abbastanza complessa, perché non implica semplicemente il misurarsi con chi la pensa diversamente da te, ma anche il misurarsi anche con chi non la pensa affatto; con chi non ha solo un punto di vista diverso dal tuo, ma un grado di consapevolezza, un portato biografico completamente differente; con chi ha un'altra abitudine alle pratiche della politica e così via. Questa è un'implicazione che se da un lato può apparire, come dicevo, un po' scomoda, dall'altro mostra il potenziale enorme che Fridays For Future ha. 

Per l'articolo che abbiamo scritto io e Salvatore abbiamo raccolto le voci di diversi/e attivisti/e e le abbiamo sommate ad alcuni dati presi da un progetto di ricerca cui sto partecipando sulla composizione delle piazze il 15 marzo. Credo ce ne siano alcuni particolarmente interessanti. La composizione generazionale è scontata, quindi su questa non mi dilungherei. A non essere scontata è invece, come emerso in tutte e 15 le piazze analizzate, la composizione di genere. C'è trasversalmente una maggioranza femminile in tutte le piazze italiane, il che si configura evidentemente come un dato politico. 

Un secondo dato a mio parere rilevante è poi l’enorme sfiducia dimostrata nei confronti delle istituzioni politiche, testimoniata trasversalmente in tutte le manifestazioni italiane. A questo però fa fronte il fatto che, di fronte alla domanda «Perché siete venuti in piazza oggi?» la risposta più frequente è «Per fare in modo che il governo prenda provvedimenti». Sfiducia e richiamo alle istituzioni sembrano andare di pari passo, mostrando a mio parere un’interessante tensione nel rapporto politico: non c’è fiducia, non c’è delega, eppure la voglia di influire e di influenzare è fortissima. 

Il terzo dato che vorrei sottolineare riguarda le risposte alle domande «Possiamo contare sui governi e sullo Stato per risolvere la crisi climatica?» e «Possiamo contare sull’impresa e sul mercato per risolvere la crisi climatica?». In entrambi i casi, i pareri favorevoli rappresentano percentuali davvero basse, nel secondo caso di gran lunga inferiori al 20%. Non credo sia irrilevante questa sovrapposizione: Stato e mercato sono i due meccanismi di regolazione sociale che il Novecento ci ha abituati a conoscere, riconoscerli ambedue come inefficaci, quando non responsabili, di fronte all’emergenza climatica è dato estremamente indicativo. 

Allo stesso tempo, una percentuale estremamente alta, che supera l’80% del campione, si è espressa in accordo con la frase «Credo che la via primaria per affrontare la questione climatica sia il cambiamento individuale degli stili di vita». Questo dato ci dà due informazioni: da un lato, che la consapevolezza con cui si guarda alle cause del collasso ambientale non è ancora matura, perché questa è un’affermazione scorretta. D’altro canto, occorre però tenere presente che si tratta di una risposta data all’interno di una piazza, di una manifestazione di massa. L’accordo con questa affermazione non indica quindi un’identificazione con l’azione individuale in contrapposizione alla partecipazione politica, alla mobilitazione sociale o all'azione collettiva. Questi ragazzi e queste ragazze hanno partecipato a un momento collettivo portando addirittura la volontà e la disponibilità a cambiare il proprio stile di vita individuale. 

Lo dico perché voglio sottolineare l’apporto positivo: non sono convinto che se ognuno di noi rinuncerà alla bottiglietta di plastica allora salveremo il mondo, ma sono convinto che non succederà se non lo facciamo, e che nell'epoca dell'individualizzazione in cui viviamo non ci sono percorso e ricostruzione dell'azione collettiva che non passino anche dalla disponibilità di mostrare questa azione collettiva all'interno delle nostre scelte individuali.

Vorrei concludere con una riflessione che forse sta un po' alla base di questo numero. Qualche mese fa ho letto un articolo su una rivista americana su uno dei tanti esperimenti di geoingegneria proposti per arginare il surriscaldamento globale. Questo, nello specifico, riferiva della possibilità di liberare nell'atmosfera uno strato di polveri abbastanza denso da fermare i raggi del sole e produrre in qualche modo un abbassamento della temperatura. La prima cosa che ho pensato quando l'ho letto è stata: «ci viene più facile pensare di fermare il sole che di fermare il capitalismo». Ma questo pensiero è figlio del mondo in cui viviamo, del pensiero dominante: il dato di mobilitazione suggerisce altro, e con questo numero abbiamo proprio voluto raccontare la straordinaria disponibilità alla mobilitazione. 

Citavi tra i risultati della tua ricerca l'alto tasso di sfiducia nei confronti delle istituzioni, cui fa tuttavia fronte una forte richiesta che le stesse istituzioni prendano provvedimenti per far fronte alla crisi ambientale e climatica. Pressioni di questo tipo sono state raccolte, in forme diverse, da diversi soggetti istituzionali in molti Paesi. A partire dal Green New Deal di Alexandria Ocasio Cortez si sono moltiplicati, anche in Europa, i tentativi di replicare provvedimenti di questo tipo. Si tratta però di un meccanismo che implica un corto circuito: il Green New Deal è una proposta politica che viene disposta da un soggetto della governance, che viene imposta dall'alto su larga scala. Istanze come quelle di Fridays For Future, che chiedono un radicale sovvertimento dello status quo e del sistema, come possono essere attuate dal sistema stesso? 

Quando stavamo pianificando questo numero, una delle preoccupazioni principali riguardava il rischio di raccogliere un numero troppo pessimista, apocalittico. Perché è vero che siamo nell'epoca dell'emergenza, della paura, ma siamo anche cresciuti in una cultura in cui l'unica cosa che mobilita è la speranza: se non si costruisce un orizzonte futuro ciò che resta produce solo ansia e depressione. Questo è uno dei motivi per cui abbiamo scelto di aprire il numero con l'articolo su Fridays For Future e di chiuderlo con quello sul Green New Deal, per vedere le due opzioni in campo contro tutto quello che raccontiamo nel resto del numero. Le due opzioni, dal basso e dall’alto, rispetto alla crisi climatica. 

Io credo che il Green New Deal sia importante per diversi aspetti: prima di tutto perché smonta il meccanismo dell'individualizzazione della colpa e comincia a dire che c'è bisogno di un gigantesco sforzo di trasformazione produttiva. Sforzo con pochissimi precedenti nella storia. Il tutto, facendo i conti con il fatto che come specie e come civiltà dovremmo essere arrivati al punto di avere le capacità intellettuali, organizzative e produttive di rispondere alla sfida della nostra stessa estinzione. 

Negli Stati Uniti si dice spesso che per rispondere alla crisi climatica serve uno sforzo paragonabile a quello che c'è voluto per vincere la seconda guerra mondiale, in termini di massicci investimenti e trasformazione della società. Naturalmente, la cosa implica un principio di regolazione garantito dall’autorità statale, il che rappresenta un problema sotto diversi punti di vista. Da un lato, ovviamente, perché si presenta come espressione di un principio gerarchico, dall’altro però perché gli Stati tutto questo potere, tutta questa autorità nell'economia non ce l'hanno. È anche vero che ne hanno più di quanto raccontino: il neoliberismo non è l'epoca in cui il potere dello Stato sparisce, ma quella in cui il potere dello stato si auto-limita per mettersi al servizio del mercato. Per questo io ritengo che porre il tema del Green New Deal come sede di riforme radicali per la trasformazione produttiva e per la conversione ecologica dell'economia sia fondamentale, anche solo per trovare un modo di relazione con la politica che la ponga in termini di serietà.

Ovviamente parlare di Green New Deal significa parlare di tutto e di niente. Le schede presenti nel numero di Jacobin, stese sulla scorta della proposta di Sanders al Congresso, esprimono una dimensione e una radicalità che poco ha a che spartire con tutti quei provvedimenti che vengono definiti Green New Deal in salsa europea, senza nemmeno voler menzionare il Decreto clima italiano. Con tutti i limiti del caso, i provvedimenti della versione americana non mancano di un caratteri “minaccioso” per le sorti del capitalismo come lo conosciamo e pongono una serie di questioni interessanti non solo sul consumo, ma anche sui sistemi produttivi. Toccano argomenti non scontati, o almeno non comuni: una parte del testo è dedicata ad esempio all’edilizia e al ruolo che il riscaldamento domestico ricopre nella quota di emissioni. Ovviamente sono proposte socialdemocratiche e riformiste, che evidentemente a molti non possono bastare. Bernie Sanders non propone di nazionalizzare i mezzi di produzione, farla finita con le classi sociali e in prospettiva di abbattere lo Stato. Dopodiché, credo che se almeno riuscissimo ad arrivare a un Green New Deal come quello statunitense sarebbe già un grosso successo. Non un punto di arrivo ovviamente: dopo quello la battaglia per un radicale cambio del sistema dovrebbe assolutamente continuare, ma partirebbe da una posizione più avvantaggiata.

Vorrei aggiungere due ultime postille: tra i contributi di queso numero compare «La catastrofe è già in corso», di Daniel Tanuro. È un pezzo in cui si parla anche di “ecosocialismo”, che non significa semplicemente travestire il socialismo da ecologia, ma sostiene l’impossibilità di affrontare – e risolvere – la questione climatica senza un controllo collettivo dell’economia.

A questo va aggiunta una considerazione sull’uso che della categoria “emergenza” viene fatta: occorre ricordare che il mondo cui parliamo è completamente immerso nel realismo capitalista. La retorica dell’emergenza va assolutamente risignificata e rivendicata, ma dobbiamo sempre ricordare che una volta data, questa è impugnabile anche da soggetti diversi da noi. Abbiamo visto cos’è successo in Francia con il tentativo macroniano di scaricare sul piano individuale la responsabilità del consumo di combustibili fossili: non credo che rimarrà un tentativo isolato. E, ripeto, noi parliamo con una generazione che sta sviluppando sicuramente una coscienza molto critica, ma che è nata e cresciuta in un contesto in cui lo spazio di possibilità coincideva non solo con il capitalismo, ma con l’interpretazione più restrittivamente neolibertista del capitalismo stesso, che tutt’ora dice che dobbiamo investire nella sostenibilità del capitalismo green.