E tu dove vai a ballare?

Viaggio nella Puglia Migliore, dove la mafia schiavizza i lavoratori.

10 / 8 / 2011

Nella masseria Boncuri di Nardò al confine tra le province di Taranto e Lecce che “ospita” circa 400 lavoratori migranti stagionali la misura è oramai colma ed è alta l’indignazione dei braccianti invisibili provenienti dal Ghana, dal Sudan, dal Camerun, dalla Costa d’Avorio, dal Mali.

Molti di loro, soprattutto sudanesi ed ivoriani, hanno anche il permesso per motivi umanitari, alcuni di loro in scadenza. La cittadina salentina oggi, cosi come le campagne siciliane e quelle del foggiano ieri, rappresenta uno spaccato allucinante che fotografa le condizioni da girone dantesco in cui vivono persone fuggite da fame, guerre, persecuzioni e disperazione dalle terre di origine cullando il sogno di migliorare le penose condizioni in cui vivevano e che in Italia invece, a fronte di un economia che va avanti grazie al loro lavoro, sono ridotti, di contro, ad un’umanità calpestata.

Vivono e lavorano in condizioni di semischiavitù con salari da fame, in continuo viaggio tra una regione e l’altra del Mezzogiorno, nel ritmo scandito dai tempi di maturazione della frutta. A luglio ed agosto sono qui nel cuore del Salento per raccogliere angurie e pomodori, tra qualche mese saranno a Rosarno per la raccolta delle arance, o tra le serre del salernitano. Le loro sono storie comuni: lo sbarco a Lampedusa, i trasferimenti nei Ctp, gli impieghi nelle campagne alla mercè di caporali intenti a regolare e controllare non solo il lavoro ma anche la vita di quelli che sono i nuovi schiavi.

La più grande rivoluzione antropologica del Mezzogiorno rurale negli ultimi vent’anni ci parla di nuovi braccianti che non sono più le donne e gli uomini dei paesi dell’interno che, privi di qualsiasi altra prospettiva, partivano d’estate ogni mattina coi pulmini verso le aree costiere, ma sono giovani maschi appena giunti in Italia, disposti a svolgere qualsiasi mansione pur di guadagnare un po’ di soldi per poi cercare un impiego più stabile in altri settori e in altre regioni europee.
E di nuovi caporali che non sono i semplici intermediari che ci eravamo abituati a vedere nelle pianure meridionali al tempo di raccogliere i prodotti dalle piante, ma sono diventati - col tacito accordo dei proprietari dei terreni - gli asettici gestori di un “campo di lavoro”, dove i diritti minimi e ogni forma di ragionevolezza sono soppressi, e i corpi delle persone sono ridotte a “nuda vita” da afferrare, manipolare, violentare, sopprimere. I caporali, gente senz’anima che rappresenta l’anello di congiunzione tra manovalanza ed imprenditoria locale.

A tutto questo i circa quattrocento braccianti migranti di Nardò hanno risposto incrociando le braccia, ribellandosi a chi li costringe a lavorare per 25 euro al giorno (di cui cinque di tangente al capolare): chiedendo dignità, reclamando diritti calpestati ed inesistenti, salari dignitosi, sicurezza nei campi.

A chiederli, in un italiano quasi perfetto, nella partecipata assemblea di sabato alla masseria Boncuri e che ha viste coinvolte le reti antirazziste di Bari, Lecce e Taranto, era Ivan, il loro portavoce, camerunense residente a Torino, venuto a Nardò a raccogliere i pomodori per pagarsi gli studi al Politecnico e ritrovatosi leader di una protesta che per ora è riuscita ad ottenere un tavolo tecnico lunedì 8 agosto in cui le istituzioni si sono impegnate a superare il caporalato attraverso l' uso delle liste di prenotazione, a sottrarre inoltre ai caporali il trasporto dei lavoratori sui campi grazie a servizi navetta grantiti da fondi regionali e provinciali e 15 mila euro di investimenti nella masseria Boncuri che garantiranno il servizio di acqua calda e nuove docce.

Quello che è successo nel Salento negli ultimi mesi con la denuncia dello sfruttamento dei migranti impegnati nei parchi del fotovoltaico prima e dei campi di angurie e pomodori poi ha portato all'attenzione della Dda di Lecce un fenomeno, quello del nuovo caporalato, per cui il procuratore Motta ha ipotizzato la contestazione del reato di riduzione in schiavitù.

Ciò che colpisce, a dispetto di chi come “Finis Terrae” e “Brigate di solidarietà attiva” si occupano da anni di garantire un’accoglienza che sia degna agli stagionali, è il grave ritardo da parte delle istituzioni, nella terra di Giuseppe Di Vittorio, eroe delle lotte sindacali e bracciantili, storico segretario della Cgil, nella Puglia progressista di Nichi Vendola, di identificare quella del migrante come una condizione che possa aprire il confronto, le relazioni, le contaminazioni con quella che è la nostra storia, la nostra cultura, la nostra identità, la nostra gente, che intanto non deve dimenticare chi è partito dalle nostre terre cinquant’anni fa con valigie di cartone e che ora parte con la laurea in tasca. In questo senso è alla Puglia migliore, dalle campagne del “Tavoliere”, dove la gente lavora, viene sfruttata, umiliata, spesso muore, per meno di 20 euro al giorno, quel triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di Foggia, alla campagna salentina, “dove a ballare sono i migranti nei campi di pomodoro e dove la mafia schiavizza i lavoratori e se ti ribelli sei fuori”, che spetta il compito di superare l’emergenza e l’improvvisazione nell’affrontare i grandi processi e flussi che l’era globale contiene se si vuole provare a trovare il benessere e la felicità.


* attivista C.S. Clororosso-Taranto