Estorsione: un'accusa lunga 100 anni

5 / 8 / 2022

Chiunque conosca la storia dell’ascesa del fascismo non può che sentire un brivido correre lungo la schiena alla notizia che 8 organizzatori sindacali aderenti a USB e SI Cobas si trovano agli arresti domiciliari perché accusati di «estorsione» a causa delle lotte a cui hanno preso parte.

L’accusa è esattamente la stessa formulata nel 1921/1922 da una magistratura fiancheggiatrice dello squadrismo per spazzare via le organizzazioni sindacali dei lavoratori agricoli in Val Padana. La stessa con cui la propaganda fascista giustificava il terrorismo antiproletario.

Il fascismo come «movimento reazionario di massa» (per usare la definizione togliattiana) nacque infatti nelle campagne della Val Padana con uno scopo preciso: annichilire le leghe bracciantili e mezzadrili, forme di autentica autorganizzazione di classe che nell’estate del 1920 avevano ottenuto grandi vittorie sindacali in un contesto che ha molto da dire al nostro presente.

I braccianti erano lavoratori a giornata, fortemente soggetti alla stagionalità del lavoro agricolo, i più precari tra i precari diremmo oggi. I mezzadri erano invece dei «compartecipanti», vale a dire che i proprietari affidavano loro un podere con campi e animali attraverso un contratto annuale, lasciandogli metà del raccolto in cambio del lavoro della famiglia mezzadrile (bambini compresi ovviamente). Cosa che portava a dinamiche di auto-sfruttamento assai simili a quelle che vediamo oggi in alcune categorie il cui reddito viene connesso alla “produttività”.

A partire dalla fine del XIX secolo le organizzazioni socialiste e sindacaliste-rivoluzionarie iniziarono ad organizzare i braccianti con l’obiettivo di raggiungere due obiettivi immediati: il «collocamento di classe», ovvero l’obbligo per i datori di lavoro di assumere i lavoratori solo rivolgendosi alle strutture sindacali (in modo da evitare concorrenze al ribasso rispetto al salario negoziato tra le parti); e «l’imponibile di mano d’opera», vale a dire l’obbligo per i datori di lavoro di assumere un numero fisso di braccianti per ogni ettaro di terra posseduta, in modo da lavorare meno e lavorare tutti e tutte.

Nel clima infuocato del Biennio rosso, nel 1919/1920 questi obiettivi vennero raggiunti in quasi tutta la Val Padana. Inoltre alle lotte dei braccianti si saldarono quelle dei mezzadri, che riuscirono a conquistare una spartizione del raccolto più favorevole (si veda ad esempio l'accordo Paglia-Calda nel bolognese nell'estate 1920). Non più 50 e 50 tra proprietario e mezzadri, ma 40 e 60 circa .

Come era stato possibile? Attraverso il ricorso ad una forma totale di conflittualità di classe: il boicottaggio. Il proprietario che veniva boicottato non solo non avrebbe trovato manodopera per i propri campi, ma avrebbe dovuto affrontare le forze congiunte di una o più comunità resistenti. La cooperativa del paese o anche il commerciante privato si sarebbero rifiutati di vendergli qualunque cosa, il barbiere non gli avrebbe tagliato i capelli, l’oste non lo avrebbe servito, nessun birrocciaio avrebbe trasportato per lui alcunché. Ovviamente lo stesso sarebbe capitato anche ad un crumiro che avesse tradito la propria gente (anche se quelli di solito venivano fatti rinsavire assai più rapidamente a sganassoni).

Se un proprietario violava un accordo, in precedenza sottoscritto come singolo o da parte delle organizzazioni padronali, veniva boicottato sinché non versava una multa fissata dall’organizzazione sindacale (se non era contro-potere questo!). Il ricavato era solitamente devoluto agli orfani e alle orfane, ai mutilati di guerra o ai disoccupati. Ecco a cosa si sarebbe aggrappata la “giustizia” dello stato borghese per accusare gli organizzatori sindacali di «estorsione».

Intendiamoci, abusi dello strumento del boicottaggio ci furono, eccome. A volte venne usato per colpire non il padronato ma singoli mezzadri o piccoli affittuari o proprietari, che si trovava più sbrigativo sottomettere al potere delle organizzazioni di classe anziché convincerli ad appoggiarle. Altre volte venne usato in maniera ideologica contro lavoratrici o lavoratori “colpevoli” di andare in chiesa (del resto i cattolici dove erano più forti boicottavano i socialisti). Inoltre il ripetere in maniera meccanica lo slogan della «socializzazione della terra» (cioè della sua messa in comune affidandola a cooperative) fini per spaventare chi un pezzo di terra da lavorare in proprio lo aveva o sognava di averlo.

Si poteva parlare di errori politici, di intolleranza e in qualche caso di «attentato alla libertà del lavoro», ma parlare di «estorsione» era semplicemente falso. Ma mentire non è mai stato un problema per i padroni e i loro lacchè. E qui bisogna ricordare che la lotta si svolgeva nelle tenute agricole dov'erano investiti i soldi delle principali banche e gruppi agro-alimentari italiani. Furono i loro soldi a pagare gli squadristi, a fornire camion e armi per le spedizioni punitive, mentre la stampa esaltava o minimizzava il terrorismo antiproletario e le “forze dell’ordine” lo appoggiavano apertamente, anzi di fatto lo rendevano possibile, reprimendo chi osava resistere.

Fin da subito tutto fu giustificato tirando in ballo i boicottaggi e le multe. Già nel gennaio 1921 Giacomo Matteotti rispose a queste insinuazioni in parlamento.

«Gli stessi boicottaggi, le stesse multe (delle quali specialmente si è fatto in questi giorni un can can, riproducendo delle lettere sui giornali che credono di troncare la questione) non vogliono dir nulla. Per i nostri patti agricoli un padrone ha l’obbligo di impiegare tanti contadini. Spesso contravviene e li respinge; allora la lega giustamente domanda che sia pagato ugualmente, sotto forma di multa, ciò che il padrone non ha pagato ai contadini per il loro lavoro. È logico, è l’esecuzione di un contratto. La multa è la conseguenza della mancata esecuzione di un contratto privato stabilito tra le due parti con l’assistenza dei prefetti. E voi, organizzatori dell’ordine, voi costituzionali, vi rifiutate di pagare e per non pagare organizzate la violenza privata dentro lo stato!

E i boicottaggi? Anche questi possono essere stati qualche volta male usati, ma non sempre; non mi si fraintenda. Un padrone non osserva i patti, non impiega il numero dovuto di contadini. Che cosa delibera allora la lega? Non vi darò più mano d’opera. Quest’è, di solito, il boicottaggio, giusto ed entro l’orbita della legge».

Parole che ci tengo a riportare perché è doveroso ricordare come il compagno Matteotti fosse si un riformista, ma ben diverso da quelli a cui siamo abituati oggi. Nel senso che credeva nella graduale affermazione dell’auto-organizzazione proletaria, senza “scorciatoie” dittatoriali e stataliste. La sua difesa parlamentare degli strumenti del contro-potere di classe sta lì a dimostrarlo.

Matteotti colse fin da subito cos'era il fascismo e come fosse lo strumento del capitale per colpire conquiste ed organizzazioni della classe lavoratrice:

«La classe che detiene il privilegio politico, la classe che detiene il privilegio economico, la classe che ha con sé la magistratura, la polizia, il governo, l'esercito, ritiene sia giunto il momento il momento in cui essa, per difendere il suo privilegio, esce dalla legalità e si arma contro il proletariato».

E infatti la magistratura si mosse al seguito degli squadristi per dare sanzione legale alla persecuzione. Iniziarono così a fioccare le condanne volte a colpire i capilega, ovvero gli organizzatori sindacali di braccianti e mezzadri, o almeno quelli che non erano già stati assassinati dagli squadristi nella più completa impunità, perché colpire la proprietà borghese era un delitto, ammazzare proletari sovversivi no.

Nel gennaio 1921 la Corte di Cassazione stabilì che il lavoro agricolo non era atto di industria o commercio, bensì attività a carattere prevalentemente individuale. Pertanto i delitti volti ad impedirlo o ad ostacolarlo non erano più puniti come attentato alla libertà del lavoro (articoli 165 e 166 del Codice Penale), bensì come violenza privata (articolo 154), per la quale erano previste sanzioni assai più severe. Le pene, aggravate dalla natura dei fatti e dal numero di persone coinvolte nel delitto, andavano dai due ai cinque anni di carcere e non potevano essere inferiori ai tre anni, «qualora i rei avessero raggiunto il loro intento delittuoso».

L’indirizzo repressivo della magistratura trovò modo di esplicarsi anche riguardo al tema dei boicottaggi e delle multe. Nel 1921 alcune sentenze della Corte d’appello di Bologna iniziarono a far rientrare queste pratiche nella fattispecie dell’estorsione, punita in base all’articolo 409 del Codice Penale. Esso prevedeva dai 2 ai 10 anni di carcere per

«chiunque, incutendo in qualsiasi modo timore di gravi danni alla persona, agli onori o agli averi, o simulando l’ordine di un’autorità, costringe alcuno a mandare, depositare o mettere a disposizione del colpevole danaro, cose o atti che importino qualsiasi effetto giuridico».

Commentando una sentenza della cassazione del 20 maggio 1921 la «Rivista Penale» scrisse che nelle campagne italiane si svolgevano «inaudite prepotenze della teppa anarcoide a fondo e con finalità rivoluzionarie di tipo moscovita». Molti magistrati la pensavano esattamente come gli squadristi e agivano di conseguenza.

Ci fu però, in ambito giuridico, chi provò a contrastare l'utilizzo della legge come puro strumento atto tutelare il privilegio di classe. Il 20 dicembre 1921 un giovane militante del Partito Repubblicano Italiano, Giuseppe Ferrandi si laureò con 110 e lode presso la facoltà di giurisprudenza dell'Alma Mater studiorum di Bologna, con una tesi intitolata «Il reato di estorsione». Relatore della tesi era il professor Alessandro Stoppato, titolare dell’insegnamento di «Diritto e procedura penale», capofila della «scuola classica» e deputato della destra liberale, circa dieci anni prima relatore anche della tesi di laurea di Giacomo Matteotti. Insomma un onesto liberale che sostenne il suo allievo deciso a a presentarsi all'esame di laurea con una tesi che sparava alzo zero contro le recenti sentenze che avevano portato alla condanna degli organizzatori sindacali. Dopo aver esaminato criticamente due sentenze emesse dalla Corte d'appello di Bologna, Ferrandi giungeva infatti a queste conclusioni:

«Pertanto come conclusione di queste pagine, noi possiamo affermare che i fatti dei capilega non presentano gli estremi del delitto di estorsione.

Non lo presentano, perché in tutti i casi che noi abbiamo considerati e in tutti quelli che potremmo considerare, esula completamente l’estremo necessario se non essenziale del reato di estorsione e cioè l’animo del lucro.

Non li presentano ancora, perché l’oggetto della pretesa estorsione, la somma fatta pagare ai proprietari, ai coloni ha tutti i caratteri – a seconda dei casi – di una penalità o di un risarcimento; ed alle volte di una penalità e di un risarcimento insieme.

Inoltre, nella consumazione dei fatti pei quali si è proceduto contro i capilega, ebbe a verificarsi sovente il libero, volontario concorso di colui che restò vittima della pretesa estorsione; fatto questo che esclude l’altro estremo di tale reato, la mancanza cioè del consenso del soggetto passivo.

Per ultimo i fatti dei capilega non sono estorsioni in quanto manca in essi l’elemento della minaccia, così com’è voluto dall’art. 409.

Infatti è quasi sempre impossibile dimostrare il nesso preciso, diretto di mezzo a fine intercedente tra il boicottaggio e l’esazione della multa»

Secondo Ferrandi «Le azioni dei capilega sono fatti sui generis non considerati nel codice penale», inoltre i condannati avevano semplicemente eseguito quanto deciso dalle assemblee delle organizzazioni sindacali, attuando una forma di lotta nota e pubblicamente rivendicata, pertanto se essi erano colpevoli di estorsione, tutti gli iscritti alla lega erano passibili del reato di incitamento a delinquere, mentre i membri dei comitati della lega creati appositamente per applicare multe e boicottaggi potevano essere accusati di associazione a delinquere. Una considerazione che mostrava quanto denunciare e condannare gli organizzatori sindacali fosse una pura rappresaglia, malamente travestita da sanzione legale.

Il giovane avvocato concluse il suo elaborato affermando che il conflitto sociale andava risolto attraverso la mediazione politica, non con l’intervento repressivo della magistratura; con l’elaborazione di leggi nuove che eliminassero le cause della violenza e non con la forzatura di quelle già esistenti per punire come delitti comuni quelli che sono atti politici.

La tesi si chiudeva con queste parole:

«Dimostrato infatti l’errore di quanti vollero punirli come estorsione, dimostrata poscia l’assenza nel Codice di una figura criminosa che li rappresenti, a quest’ultima conclusione siam giunti; e questa conclusione noi sosteniamo come logica e savia, sia dal punto di vista giuridico, sia dal punto di vista sociale.

Dal punto di vista giuridico: poiché non vi è un delitto senza la legge.

Dal punto di vista sociale: poiché la natura eminentemente politica di questi fatti invoca quei soli rimedi che di essa natura sappiano tener conto, e possano perciò, meglio del Codice, nell’interesse di tutti, efficacemente dirigersi alla vera fonte del male».

Ferrandi avrebbe assunto di lì a poco la difesa di alcuni degli organizzatori sindacali perseguitati. Il 28 gennaio 1922 una sentenza della corte d’appello di Bologna assolse alcuni militanti della lega socialista di Casalecchio di Reno (Bologna) dall’accusa di estorsione per aver riscosso le multe ai danni dei mezzadri boicottati.  Ma nei mesi successivi una sentenza della Corte di Cassazione annullò questa sentenza affermando

«che sussiste il delitto di estorsione realizzato mediante boicottaggio allorché si attenta all’altrui integrità patrimoniale, mentre se si incide sull’altrui libertà individuale si ha soltanto violenza privata; se poi si attenta insieme alla libertà individuale ed all’integrità patrimoniale si ha il concorso materiale di estorsione e violenza privata».

Nel 1923, commentando una sentenza di cassazione del maggio 1922 la «Rivista penale» giudicava questo indirizzo ormai consolidato. Di lì a poco il regime fascista avrebbe risolto il problema alla radice mettendo fuorilegge sciopero e sindacati liberi.

Ferrandi sarebbe stato in seguito vittima di un'aggressione fascista e di una lunga persecuzione che lo avrebbe spinto a trasferirsi in Trentino. Lì nel 1943 aderirà al Comitato di Liberazione Nazionale, sarà tra gli estensori del Manifesto del Movimento socialista trentino. Catturato dalle SS il 28 giugno 1944 sarà torturato e incarcerato presso il Comando di Corpo d'armata di Bolzano. Tra un interrogatorio e l'altro riuscì a incrociare Giannantonio Manci, il compagno che aveva guidato il CLN di Trento e il Movimento socialista trentino. «Ora e sempre… Internazionale futura umanità» gli disse Manci poco prima di lanciarsi da una finestra per non parlare sotto tortura. Il vecchio motto mazziniano del risorgimento accanto ad un verso dell'inno del movimento operaio internazionale. Una frase che compendiava il percorso politico di entrambe. Ferrandi sopravviverà alla detenzione, nel dopoguerra assumerà la difesa degli ex-partigiani perseguitati ancora una volta dalla magistratura fascista riciclatasi all'interno delle nuove istituzioni repubblicane, aderirà al Partito Socialista Italiano e nel 1948 sarà l'unico deputato eletto nelle liste del Fronte Popolare in Trentino. Morì nel 1955.

La sua tesi, accanto al discorso parlamentare di Matteotti, rimane un documento storico importante per comprendere come il fascismo non sia nato da semplice violenza ideologica extralegale, ma dalla volontà delle classi possidenti di mobilitare tutti i propri mezzi, legali ed extralegali, per difendere i propri privilegi parassitari. E per la stessa strada può sempre tornare…

Fonti: Un testo fondamentale sul tema è sempre Sciopero, potere politico e magistratura 1870/1922 di Guido Neppi Modona  (Bari: Laterza, 1969). La tesi di Ferrandi è conservata presso Archivio Storico dell’Università di Bologna, Fascicoli degli studenti,  Fascicolo 7013: Giuseppe Ferrandi. Il reato di estorsione. Tesi di laurea. Università di Bologna, facoltà di giurisprudenza. Anno accademico 1921-1922.

Il citato discorso di Matteotti è quello del 31 gennaio 1921, consultabile nel volume 1 dei suoi Discorsi parlamentari (p.330), che si può leggere per intero (assieme agli altri scritti e discorsi di Matteotti) sul sito della casa-museo a lui dedicata.

Per una contestualizzazione storica consiglio il testo Bologna 1920, le origini del fascismo. A cura di Luciano Casali. (Bologna: Cappelli 1982).