Estrattivismo, fase suprema del capitalismo. La lotta dei Mapuche contro Benetton e la riappropriazione del “Comune”

21 / 1 / 2020

Ci sembra opportuno richiamare l’opera di Lenin sull’imperialismo, dove egli descrive i meccanismi del capitalismo finanziario come fonte di profitto per il colonialismo imperialista e come conseguenza i diversi fenomeni speculativi, finanziari, di borsa, dei terreni, immobiliari. Certo, il tempo è passato da allora, ma l’analisi di Lenin sulla nuova fase dello sviluppo capitalistico, la guerra imperialista, il monopolio dei grandi trusts oligopolistici, le lotte di liberazione nazionale dei popoli sottomessi e colonizzati è ancora un punto di riferimento imprescindibile. Naturalmente, è necessario ri-adeguare e ri-attualizzare in forma nuova gli spunti leniniani: cos’è cambiato?

Il declino dello Stato nazione e le trasformazioni del comando del capitale globalizzato

In primo luogo, dai tempi di Lenin a oggi, passando per la costituzione lavorista dello Stato welfaristico e Keynesiano in epoca fordista (fu, è bene ricordarlo, da una parte il frutto delle lotte operaie; dall’altra la risposta del grande capitale alla rivoluzione d’ottobre e allo “spettro” del comunismo) vi è stato un progressivo e inesorabile declino dello stato-nazione, nella sua sovranità e nei suoi istituti rappresentativi. Ciò non significa la sua scomparsa, ma un mutamento di forma e di funzioni, piegate alla volontà di un nuovo, inedito “potere imperiale” globalizzato e trans nazionale. Non tanto una figura unica o un Leviatano assolutista, ma piuttosto un intreccio di poteri finanziari e multinazionali, sostenuta dall’ideologia neoliberista, dal dominio totale del mercato e da un enorme apparato normativistico, giuridico, militare e poliziesco. Gli Stati nazionali diventano un mero ingranaggio della macchina di comando, subordinati su scala gerarchica alla divisione internazionale del lavoro, al potere finanziario e all’assolutismo del mercato. Un concetto mistificato di “sviluppo”, una vera e propria maschera dietro la quale si nasconde la logica del profitto e sempre di più quella della rendita finanziaria, in particolare sul valore d’uso della terra e dei beni comuni, non solo naturali, ma sociali, frutto della cooperazione sociale e del “lavoro vivo”.

Ciò ridisegna la questione dell’imperialismo, non più competizione tra stati nazionali per accaparrarsi la maggior quota possibile di mercato mondiale e sfruttamento di risorse, anche con la guerra tra potenze: oggi la sussunzione reale è pienamente compiuta nei processi di globalizzazione, non c’è più un “dentro” e un “fuori”, uno spazio esterno alle metropoli capitalistiche da occupare. L’intera vita, il “vivente” nel suo complesso e la sua riproduzione viene messo a valore, lo sfruttamento illimitato è sempre più intensivo - più che estensivo - e si dispiega in ogni anfratto del mondo della vita - dalla produzione umana fino ai beni comuni naturali come la terra, l’acqua, l’aria -, ovunque sia possibile estrarre profitto e rendita. Si tratta di processi completamente interiorizzati in un’unica totalità, che si articolano con differenti modalità dalle metropoli alle periferie, da nord a sud, ma che hanno un’unica matrice. Il sistema di dominio del capitale globalizzato assume le caratteristiche di un neo-colonialismo interno, in cui la continua rapina di risorse umane e naturali produce espulsione e sottomissione di intere popolazioni e comunità, “sacrificabili” alla logica dello sviluppo.

È necessario vedere questi fenomeni da un duplice punto di vista: a fronte di un mostruoso biopotere si esprimono sempre più forme di resistenza biopolitica in tutte le parti del mondo; molteplici, variegate, differenti, ma che hanno tutte un denominatore e un orizzonte comune: la difesa della propria terra e delle proprie comunità dell’estrattivismo. Ma non si tratta solo di difesa e resistenza, non si tratta solo di essere “dentro” e “contro”, ma anche di prefigurare e praticare un “fuori”, una linea di fuga, la costruzione di alternative al capitalismo. Ciò indicano le lotte delle popolazioni indigene in difesa della “Madre Terra” contro le multinazionali e gli stati neocoloniali corrotti: la riappropriazione e costruzione del comune, la riaffermazione del senso collettivo e della forza delle comunità, del loro desiderio di autonomia e libertà. Così la lotta dei Mapuche contro Benetton, la riappropriazione della loro terra e della fattoria acquistano un valore straordinario che si riverbera in tutte le infinite pieghe del dominio capitalista. Gli Zapatisti, ad esempio, hanno perfettamente colto i caratteri della nuova forma della guerra e dicono: «La guerra mondiale oggi non è tra stati, ma contro le popolazioni». Quanto di vero in questo enunciato! Oggi la guerra non è, come si diceva una volta, la continuazione della politica con altri mezzi, ma la forma stessa della politica, un dispositivo “globale” e strutturale per governare uno stato di eccezione permanente, dove l’obiettivo principale è il controllo sulle popolazioni, nonché soffocare sul nascere e preventivamente ogni rivolta, ogni ribellione, ogni resistenza e contropotere all’ordine costituito.

La lotte e la resistenza acquistano immediatamente il carattere di movimento di liberazione non per la costruzione di un nuovo Stato o per rivendicare una nuova nazionalità, ma per l’indipendenza, l’autonomia, l’autogoverno, la democrazia diretta. «Non vogliamo il riconoscimento della nostra identità, ma vogliamo diventare ciò che vogliamo!».

Il fallimento del “socialismo post-coloniale” ed il modello estrattivista di sviluppo “neo-coloniale”

Ma cosa si intende per estrattivismo? Si tratta di un concetto sintetico, che racchiude molteplici articolazioni e significati. L’estrattivismo è una forma di accumulazione fatta dal capitale finanziario, che domina attualmente nel pianeta, attraverso l’appropriazione della natura e dei beni comuni. È l’accumulazione per spossessamento, dove intere popolazioni sono ostacoli che devono essere rimossi per lasciar spazio alle miniere, alle trivellazioni, alle monocolture, alle grandi opere infrastrutturali. Ma c’è anche un estrattivismo urbano, che si manifesta ad esempio tramite la gentrificazione e che sta avvenendo in tutto il mondo, o attraverso la privatizzazione del welfare, dei servizi, della formazione, dei trasporti, ossia di quella infrastrutturazione dell’essere sociale e della sua riproduzione.

Per questo non ci troviamo di fronte solo a un modello economico, ma una vera e propria “società dell’estrattivismo”, che costruisce una propria ideologia, una propria visione del mondo, il cui fondamento consiste nel mito dello sviluppo, la creazione di nuovi posti di lavoro, la promessa di un avvenire migliore. Sono tutte vuote mistificazioni, ma hanno una loro presa stringente rispetto alla precarizzazione assoluta del lavoro, alla mancanza di reddito, all’impoverimento relativo e assoluto delle popolazioni. Si tratta di un vero e proprio dispositivo di comando della governance neoliberista, in cui assistiamo a uno strano connubio e convergenza tra due tradizioni: quella liberista e quella socialdemocratica, con lo sviluppo illimitato delle forze produttive, l’esaltazione del “lavoro” piegato ai meccanismi del mercato, della competizione e della concorrenza.

Per quanto le lotte storiche contro l’imperialismo e il colonialismo siano state un punto di riferimento fondamentale per il movimento rivoluzionario internazionalista e la formazione della soggettività di classe, i loro esiti sono adesso estremamente ambigui e contradditori.

Le trappole della “modernizzazione” social-liberista

Le lotte anticoloniali e antimperialiste state fondamentali per la formazione di una coscienza di classe, internazionalista e rivoluzionaria, anche all’interno delle metropoli capitalistiche. Per Lenin, infatti, questo processo non significava un fatto in sé - come molti marxisti-leninisti pensano secondo un dogmatismo sclerotizzato, deterministico e positivista -, ma un passaggio storicamente determinato per la rivoluzione proletaria mondiale. Ciò non si verificò, ma questo non significa che le suggestioni leniniane non siano state improntate a un autentico spirito rivoluzionario, il quale agisce sempre, ieri come oggi, su un campo di “possibilità” aperte da una fase storica, dalle crisi del capitalismo e dalla lotta di classe. Ma il concetto stesso di potenzialità nella sua attualizzazione comporta un divenire non lineare e non sempre essa si determina negli obiettivi e finalità previste. Dalla potenza all’atto il processo può assumere diverse declinazioni, strade diverse, sentieri interrotti e deviazioni, fino a concretizzarsi - a volte - in configurazioni del tutto opposte a quelle progettate inizialmente. Basti pensare alla tragedia del “socialismo reale” che trasfigurò il problema della transizione a una società comunista in un mostruoso apparato burocratico di comando e oppressione sotto l’egida del capitalismo di stato. Non dunque l’abolizione del capitalismo e delle sue basi di sfruttamento e di dominio, non una vera alternativa, ma piuttosto una riaffermazione dei processi di accumulazione del capitale stesso.

Questo successe anche per gli stati sorti dalle lotte contro il colonialismo, pur in forme differenziate e tra molteplici contraddizioni. Ma il modello del socialismo nazionale di stato, lo “Stato di tutto il popolo”, si affermò e con esso il mantra dello sviluppo e della modernizzazione capitalistica come necessità storica, uno stadio ineludibile, secondo la teoria deterministica e positivista degli “stadi di sviluppo” del marxismo volgarizzato e  statalista. Una necessità in nome proprio dell’indipendenza economica: raggiungere livelli di ricchezza, di sviluppo e di modernità che potessero “competere” con il capitalismo imperialista ponendosi sullo stesso piano.

Al di là delle intenzioni, al di là della buona fede o anche, più spesso, della corruzione delle élite nei paesi post-coloniali, proprio questa ideologia dello sviluppo e della modernizzazione apre la strada alle politiche neoliberiste di nuova colonizzazione, allo strapotere delle multinazionali, ai diktat del capitale. Una trappola mortale, che ha riassorbito le potenzialità di trasformazione radicale, di costruzione e sperimentazione di modelli sociali ed economici alternativi al capitalismo, che pure si erano manifestate con forza nei movimenti di liberazione.

L’America Latina è un esempio paradigmatico di questi processi: dagli anni Trenta agli anni Settanta del Novecento, essa ha vissuto la lunga stagione del “desarrollismo”, specifica variante della figura storica che viene definita come “Stato dello sviluppo”, sotto l’impulso della Banca Mondiale e del FMI.

La crisi del debito costringe molti paesi latinoamericani – coerentemente con quanto accadeva in altre aree del “Terzo Mondo” – a una radicale ristrutturazione e disarticolazione delle proprie economie per adempiere ai programmi di aggiustamento strutturale del FMI e della Banca mondiale. Il sogno della crescita si converte così in un vero e proprio incubo e, in luogo del regno dell’abbondanza immaginato dai teorici e dai politici degli anni Cinquanta e Sessanta, il discorso e la strategia dello sviluppo lasciano spazio a una realtà di segno opposto: miseria e sottosviluppo di massa, sfruttamento e oppressione.

L’illusione del desarrollismo è stata quella di pensare la possibilità di uno sviluppo capitalistico autonomo su scala nazionale senza fare davvero i conti con il fatto che il capitalismo moderno nasce come sistema costitutivamente globale, caratterizzato fin dalla sua prima espansione da un vincolo profondo con il colonialismo. Il “peccato originale” del colonialismo si è riprodotto lungo l’intero arco storico della modernità latinoamericana, e conseguentemente, la crescita ha continuato a generare dipendenza, l’accumulazione di ricchezza a produrre accumulazione di povertà. La stessa economia “estrattivista”, che riproduce i processi di una nuova accumulazione originaria su scala globale, ha le sue lontane origini nella dominazione coloniale .

Antimodernità come altra modernità

Il fallimento del modello sviluppista ha fatto emergere l’America Latina come vero e proprio laboratorio politico di straordinaria importanza per quanto riguarda le lotte, i movimenti, le forme di resistenza al capitalismo imperiale ed estrattivista, contro le politiche neoliberali di privatizzazione del welfare e dei beni comuni. Oltre alle grandi mobilitazioni moltitudinarie che hanno riempito le strade e le piazze delle grandi metropoli latino-americane e le forme di autorganizzazione popolare e comunitaria, è necessario mettere in rilievo la resistenza delle comunità indigene - Maya, Quetchua, Mapuche, Yanomami e molte altre ancora - contro l’espropriazione delle terre, la deforestazione, le attività minerarie ed estrattive, le migrazioni forzate, le monoculture intensive. Una resistenza attraverso i secoli, irriducibile e fino in fondo biopolitica, in nome dell’ambiente vitale, della propria terra, della propria libertà e autonomia.

Questa resistenza oggi acquista un valore estremamente attuale, un “presente globale” contro le multinazionali - Benetton, Eni, Chevron-Texaco etc - e contro l’intreccio di poteri imperiali e finanziari che le sostengono, per un altro mondo possibile. Non è un caso che contro le lotte indigene si sia scatenata una feroce repressione: centinaia di attivisti uccisi, minacce e violenze quotidiane da parte delle forze armate regolari e paramilitari, da milizie private e cercatori d’oro, da imprese minerarie o di estrazione di petrolio e gas naturale, da trafficanti di droga e dalla mafia del legname, come emerge da un rapporto in occasione della Giornata Internazionale dei Popoli Indigeni, tenutasi il 9 agosto 2018.

Basti pensare che solo in Guatemala nel 2017 sono stati uccisi ben 496 leader contadini: un vero e proprio genocidio, quella “guerra mondiale contro le popolazioni” di cui parlano gli zapatisti. “La resistenza del popolo della terra” ed il “Buen vivir” di cui parlano i Mapuche, la vita piena che ricerca il benessere collettivo in profonda armonia con la natura e tutto il vivente, sono preziose indicazioni per noi tutti, la critica più radicale alla forma merce e alla proprietà privata, la priorità del “Comune” sulla modernizzazione capitalistica, con la sua scia di distruzione, morte e guerra.

Le lotte di resistenza delle comunità indigene va ben oltre la mera resistenza: prefigura la possibilità di costruire altre forme di vita fuori e oltre il capitalismo; non sono premoderne, ma profondamente innervate nella modernità, in un’altra idea di modernità. Lotte che creano una separazione, una faglia, una via di fuga. Il concetto di moderno si è affermato sotto il dominio del capitale, del suo sviluppo e continua riproduzione, sostenuto dall’ideologia del progresso illimitato, di cui artefice è la civiltà europea, bianca, patriarcale. Un concetto che è stato originato dalla separazione tra uomo e natura, e dalla inferiorizzazione delle popolazioni “altre” e delle loro culture, con il razzismo che è diventato dispositivo di comando e sottomissione.

Si tratta dunque non di un processo necessario e naturale, ma di una costruzione storica, politica e ideologica delle classi dominanti. Il prodotto storicamente determinato del “discorso del capitalista”, in cui è la stessa concezione dello sviluppo a produrre il sottosviluppo e non il contrario. Non si tratta qui, ovviamente, di un’ingenua apologia dell’indigenismo, una sua idealizzazione romantica come la nostalgia per qualcosa che noi abbiamo perduto.  Non è questo e non deve essere questo, perché sarebbe un atteggiamento che nasconde comunque il punto di vista dell’uomo bianco, occidentale ed eurocentrico. È invece necessario cogliere gli stimoli, le indicazioni, le suggestioni, l’importanza del laboratorio latinoamericano contemporaneo. Una sorta di “anti-modernità”, irrompendo nello spazio politico, si è incontrata con un insieme di movimenti sorti dalla crisi dell’assetto storicamente assunto dalla “modernità” in America Latina. Tanto nelle lotte in difesa delle risorse naturali quanto nella resistenza alle politiche neo-liberali si è così faticosamente affermata l’allusione a un orizzonte comune da costruire, a una altermodernità per usare le categorie di Hardt e Negri.

D’altra parte, lo stesso Marx nell’ultima fase del suo pensiero ha cercato di cambiare alcune impostazioni deterministiche e meccanicistiche pur presenti nella sua opera, studiando in maniera approfondita i lavori dell’antropologo Lewis H. Morgan sulle tribù e comunità indigene. Da qui muta radicalmente il sui approccio al problema della costruzione del comunismo, individuando la possibilità che questa non dovesse passare necessariamente dallo stadio dello sviluppo capitalistico e che potesse anzi realizzarsi fuori e oltre le sue leggi ed i suoi dispositivi. Celebre è la sua lettera a Vera Zasulic, rivoluzionaria russa, sulle potenzialità del Mir, la “comune” agraria contadina e le possibilità di costruire su questa base un modello alternativo e diverso dal capitalismo verso una società comunista. Un Marx poco conosciuto, che non ha fatto in tempo a elaborare più compitamente questa intuizione, ma dal quale forse è necessario ripartire.