Fascismi e comando imperiale

Per nuove forme, linguaggi e immaginari della lotta antifascista

3 / 3 / 2018

Stiamo sempre più notando come, nella post-democrazia attuale, vi sia una sorta di inflazione linguistica dei concetti di popolo, rappresentanza, nazione. Il proliferare di liste elettorali, in vista delle prossime elezioni politiche italiane, la pletora di sigle che si richiamano ai principi fondamentali della democrazia rappresentativa e allo Stato di diritto lo stanno a testimoniare.

Ma questo aspetto è anche la più evidente manifestazione della dissoluzione progressiva e irreversibile delle categorie del politico a fondamento della modernità: il linguaggio non è sovrastruttura, non è solo espressione della realtà, ma la produce esso stesso. Oggi il linguaggio politico è come «quelle ruote che girano a vuoto» di cui parlava Wittgenstein, un linguaggio privo di fondamento, in cui concetti, categorie, programmi si confondono in un’assoluta indifferenza e in mera autorappresentazione linguistica.

Come succede nell’immagine del simulacro, sulla quale val la pena di soffermarci. A parte i lavori di Baudrillard, di Guy Debord e Lyotard sulla società post-moderna e dello spettacolo - sempre interessanti poiché possono costituire un arricchimento del marxismo critico e innovativo - ci limitiamo a sottolineare lo stesso significato di simulacro come finzione, contraffazione, mera parvenza priva di verità; una rappresentazione vuota che sostituisce la realtà, la copre e la mistifica. Il simulacro rievoca anche lo spettro e sappiamo quanto questa tematica shakespeariana affascinasse lo stesso Marx: lo spettro in Amleto non è solo apparizione fantasmatica e irreale, ma è dotato di una realtà sua propria, una iper-realtà che produce effetti pratici, mette in moto una catena di eventi e produce significati tragici.

Nella democrazia autoritaria post-fordista gli elementi strutturali che sono stati a fondamento della costruzione dello Stato moderno tra XVIII e XX secolo - il popolo, la rappresentanza, la nazione, lo Stato di diritto - sono privati di ogni fondamento politico-giuridico rispetto alla trasformazione della forma del comando del capitalismo globale. Una forma imperiale ancora in via di costituzione, ma che esautora progressivamente e dissolve ogni sovranità dello Stato-nazione, cosi come rende vuoti e inservibili gli strumenti della democrazia rappresentativa, nel quadro statual-nazionale. È come se si continuasse a giocare una partita con schemi vecchi, quando le regole del gioco sono completamente mutate.

La relativa autonomia del politico nel vecchio rapporto Stato-società civile è stata completamente esautorata, proprio perché si dissolvono i termini della relazione: la società civile non esiste più e viene totalmente assorbita nei meccanismi del comando imperiale; il potere legislativo viene assorbito in quello esecutivo; lo Stato di diritto si trasforma in diritto differenziale, ovvero in una molteplicità di dispositivi di controllo sulle popolazioni secondo criteri di inclusione/esclusione variabili, allo scopo di suddividere, stratificare, gerarchizzare, discriminare la moltitudine sociale per linee etniche, razziali, di classe, di genere. Questi dispositivi muovono all’alto verso il basso, ma anche all’interno stesso delle classi subordinate e dominate, più simili alle tecniche del dominio coloniale cosi ben descritte da Frantz Fanon, in cui l’elemento della subordinazione deve essere interiorizzato, produrre una soggettività asservita a tutti i livelli, psicologico, comportamentale, ideologico. Una sorta di «servitù volontaria», cosi come anticipato da Etienne de la Boetie nel suo trattato del 1549 contro la tirannia dell’uno, ossia la riduzione della molteplicità sociale a un unico principio detentore della sovranità, non necessariamente solo il tiranno, ma anche un’oligarchia dominante. Ma anche - aggiungiamo noi - la stessa «volontà generale» di rousseauiana memoria, ossia l’astrazione della volontà popolare nella democrazia rappresentativa, il diritto eguale che occulta e rimuove le diseguaglianze reali.

Non ripetiamo la critica di Marx su questi temi – ben presente nella Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico, nella Questione Ebraica, nell’Ideologia tedesca -, ma ci limitiamo a sottolineare come in Marx si operi una vera e propria decostruzione del concetto di popolo, fondamento giuridico dello Stato nazionale e arma ideologica di centrale importanza nell’ascesa della borghesia come classe dominante. Marx usa tale concetto negli articoli giovanili sulla Gazzetta Renana, ma ben presto se ne allontana, cominciando ad usare il concetto di proletariato come parte del popolo, dove si concentrano le contraddizioni del modo di produzione capitalistico. Man mano assumerà quello di classe operaia, non astrattamente, ma in base a un’analisi materialista delle lotte, dei lavoratori inglesi, delle rivolte operaie dei Canuts e in Slesia, ma anche dei «contadini dei furti di legna» in Germania.

Quello che ci interessa rilevare qui è un’indicazione di metodo decostruzionista in Marx, ovvero la disarticolazione dei concetti unitari nelle differenze, antagonismi, conflitti, separazioni che ne costituiscono la trama: il proletariato non è il popolo, semmai una frazione di esso, che può assumere un ruolo centrale nel processo rivoluzionario nella misura in cui, nelle lotte, si neghi come forza lavoro e affermi la propria autonomia contro il lavoro salariato e il dispotismo del comando di capitale. In sostanza, le classi si definiscono e rivelano la loro fisionomia nella materialità della lotta, dei rapporti di forza, della relazione tra dominio e resistenza, nella loro soggettivazione di parte; non a priori, come nello scientismo sociologico positivista e determinista, come sostiene E. P. Thompson in un testo importante, The making of the english working class.

Anche oggi, nel ritorno di simulacri di popolo, Stato, nazione dobbiamo aver ben presente la lezione marxiana, perlomeno quella più innovativa e attuale: essa è salutare e terapeutica rispetto al ritorno degli spettri, che continuano a proiettare le loro ombre sul presente, provocando effetti di distorsione spazio-temporale. Questi fanno rivolgere lo sguardo al passato, invece che al futuro, creando uno strano e paradossale cortocircuito della storia e della memoria. La riedizione linguistico-simbolica dello stato sovrano, del neo-populismo e neo-nazionalismo sono funzionali alla forma imperiale del potere capitalistico. Da una parte il superamento di barriere e confini, l'eliminazione di ogni ostacolo alla formazione del mercato mondiale - come già Marx ed Engels ne Il Manifesto del Partito Comunista - dall'altra rideterminare, secondo nuove gerarchie e stratificazioni, la riproduzione della vita sociale nel suo complesso, ridisegnando sempre nuovi confini e barriere, un dentro e un fuori, un’inclusione ed esclusione continuamente ridefiniti.

L’essenza del razzismo istituzionale sta proprio in questo, nel diritto differenziale come dispositivo di controllo e costituisce anche la base di sviluppo contemporanea del razzismo neofascista. L’antifascismo, dunque, va coniugato in forma nuova, dentro questa attualizzazione, completamente separato dalla iconografia ufficiale dell’antifascismo di maniera. Esso va declinato in maniera non come la ripetizione del «sempre uguale», ma come lotta immediatamente anticapitalista, analizzando i vari fascismi che si annidano e si intrecciano nella trasformazione post-fordista della fabbrica sociale: quello di genere, dello sfruttamento della forza lavoro, ambientale, razziale, discriminatorio, le leggi di eccezione contro le dangerous classes.

Non c’è più da difendere la Repubblica democratica nata dalla Resistenza e la sua costituzione lavorista; non ha senso riempire spazi vuoti e spettrali, semmai costruire nuovi spazi di libertà per una nuova comunità rivoluzionaria. Le potenti fiammate antifasciste delle giornate di febbraio, che hanno attraversato l’intera penisola, hanno visto protagonisti moltissimi giovani, ai quali poco importa una memoria vuota e rituale. Un’eccedenza su cui riflettere, perché individua una disponibilità a lottare per nuove forme di vita, che passano da nuovi simboli, linguaggi e immaginari.