Fondi post-alluvione, Darsena Europa, patti territoriali: Enrico Rossi vicerè di Livorno senza aver preso un voto

18 / 9 / 2017

Un editoriale di Senza Soste dopo l’alluvione di Livorno, in cui emergono chiaramente ruoli di potere ed interessi economici della governance dell’emergenza. Le mani del governatore Enrico Rossi sulla città labronica si esplicano soprattutto con la nomina di un commissario post-alluvione: la logica e la metodologia dello stato d’eccezione perdurano.  

Il viceré. Sono davvero molto lontani i tempi in cui Napoleone III, per proclamarsi imperatore, dovette comunque passare attraverso un plebiscito. A Enrico Rossi, che al momento giusto si è rifatto la legge elettorale regionale per non passare la prova del secondo turno, per incoronarsi viceré di Livorno bastano solo una serie di nomine. Certo, tra imperatore di Francia e viceré di Livorno la differenza, in termini di potere sovrano, è abissale. E anche il senso della sovranità: per il nipote di Bonaparte si trattava di potere pieno sulla nazione, per Enrico Rossi sul dispositivo di concessione degli appalti. E oggi, tra grandi opere, patti straordinari per la crisi, emergenza alluvione, Rossi può guardare la sua riserva di potere livornese costruita procedendo di stato di eccezione in stato di eccezione. Ora, con l’arrivo della nomina a commissario per la ricostruzione post-diluvio nella nostra città, il governatore della Toscana può mettere a sistema le prerogative ottenute in area livornese. Prerogative che, come brevemente vedremo, lo pongono al centro non  di un potere ausiliario alle autonomie locali ma come, appunto, viceré sovrano che forma caminetti di imprenditori, in modo decisionista quanto incerto sulle direttrici economiche, e con la stampa collocata in funzione decorativa.

I fallimenti. Allora andiamo a vedere cosa significa la messa a sistema del potere livornese di Enrico Rossi. Prima di tutto diamo un’occhiata a quanto accaduto con i patti che riguardano le aree di crisi complessa (Livorno e Piombino). Un complesso dispositivo di decisione -dove Rossi facendo sponda con i comuni PD finisce per ottenere maggior potere decisione di quanto stabilito sulla carta- che produce diverse decine di milioni di investimento e decine (!) di posti di lavoro. Nel complesso un fallimento clamoroso se guardiamo all’acquisizione di Piombino da parte di Aferpi– e a una logica di piani economici costruiti altrove. Già perchè, come abbiamo visto  e in ossequio alle leggi di questi anni, i piani economici con Rossi si fanno altrove, copiaincolla di Invitalia senza una vera analisi dei territori. Perché per i Rossi l’importante è la decisione tra addetti ai lavori della politica e dell’impresa. E che ci siano, o meno, contesti economici reali, o innovativi, in tutto questo è un’altra faccenda. La vicenda Piombino dimostra piuttosto che il centro di questo mondo, decisionista e accentratore, di fare politica è quello far partire una fase dove si distribuiscono un minimo di risorse, in rapporto alle esigenze del territorio, e si coltiva un consenso inevitabilmente destinato a svanire una volta che il progetto, sul quale si è costruita l’emergenza, rivela essere parecchio incompleto. I commentatori politici americani chiamano questo modo di fare politica, e di rapportarsi con l’impresa, “fare villaggio Potemkin”. Si tratta della celeberrima vicenda della costruzione di villaggi di cartapesta, con attori che impersonavano contadini felici, costruiti lungo il fiume Dnepr dal principe Potemkin per impressionare la regina Caterina sul suo  operato in zona.  In qualche modo gli accordi di aree di crisi complessa di Enrico Rossi sono i villaggi Potemkin del centrosinistra toscano di oggi, fanno circolare qualche finanziamento, ingaggiano attori (i media) che recitano la narrazione dello sviluppo che riparte, e sono solo una risoluzione di facciata. Non solo per le crisi dell’acciaio, o per le poche decine di posti di lavoro che portano a Livorno, ma anche per la concezione del sistema bancario che comportano. Concezione che, l’ha ammesso anche la stampa locale, ha portato la Regione a suggerire bandi per la darsena Europa “non bancabili”, parole del Tirreno, e quindi inutili e poi ritirati. Ma il bello dei villaggi Potemkin, in ogni epoca, è che consolidano un potere anche se l’operazione è scenografica. Dopo quindi l’empasse delle aree di crisi complessa, il ritiro dei bandi sulla Darsena Europa, lo stesso Rossi oggi torna con un potere rinnovato, sempre centralistico: nuovo bando per la Darsena e adesso i poteri di commissario post-alluvione.

I poteri del commissario. Quest’ultima carica significa poter disporre appalti per imprenditori, saltando procedure (e vedremo presto quali) grazie ai poteri di emergenza e presentarsi ai tavoli politici livornesi come IL potere sulla futura Darsena, nonostante i recenti fallimenti nella stessa materia, il potere dei patti di crisi complessa (nonostante la montagna abbia partorito il topolino) e, last but not least, come presidente della Regione.  Un potere concentrato che, senza problemi, passa sopra le autonomie locali come un camioncino su un’aiuola. Oltre al problema politico, quello di svuotare i territori della propria autonomia (per non dire autodeterminazione), c’è poi anche quello economico. Le economie di emergenza, specie nel nostro paese, non hanno mai prodotto niente di buono. Un potere commissariale, con facoltà di spesa e di decisione autonoma, in zone di crisi non ha mai fatto decollare le zone colpite. Il caso Campania post-terremoto e quello de l’Aquila dovrebbero raccontare qualcosa (per non parlare di Amatrice). Era necessario un commissario post-diluvio? Visto che non si tratta, fortunatamente, di un disastro da centinaia di morti, no. Ma qui i problemi sono due. Il primo è che la dimensione municipale della politica livornese è ai minimi termini qualitativi. Per cui, tutta questa fiducia nel fatto che il territorio, oggi, sia in grado di operare per il proprio benessere non bisogna averla a priori. Casomai, bisogna operare, per uscire da questo stato di cose, per una presa di coscienza dell’attuale stato della politica livornese. Che conta molto molto poco su piani industriali, porto e gestione del suolo (l’emergenza alluvione è questo, oltre agli appalti). Quindi, detto senza peli sulla lingua, non quasi conta in casa propria e bisogna ammetterlo per superare questa situazione. Allo stesso tempo, ormai da diversi anni (si ricordino i poteri concessi a Bertolaso), ogni emergenza è occasione per creare un potere centrale che ha ampia discrezionalità sugli appalti. Un potere centrale che governa un territorio in modo forte senza essere stato eletto. E molto spesso, dal terremoto dell’Irpinia ad Amatrice, in modo economicamente penalizzante per i territori stessi. E’ bene quindi aver chiaro tutto questo: il metodo Rossi è decisionista per gli appalti, ossessivo nel marketing politico, inefficace per le politiche di sviluppo del territorio. Certo, incredibile poi che Rossi, nei suoi libri, parli di socialismo. Ma è un’operazione nostalgia che serve per un  po’ di propaganda a quella parte di elettorato nostalgico utile a portare quella minima quota di voti necessaria per tenere in piedi il tutto.

Di Napoleone III gli avversari politici, notoriamente, dicevano «è un tacchino che si crede un’aquila». La definizione calza benissimo anche per Enrico Rossi -che dai disastri storici sulla sanità al caso Piombino alla mitica pioggia di milioni che la Bei avrebbe attivato su Livorno- di mosse da tacchino politico ne ha fatte tante. Ma per la stampa di centrosinistra, abile ad obbedir tacendo, e per sé stesso, Enrico Rossi rimane un’aquila. Certo, ognuno ha diritto a valutare sé stesso come preferisce. Ma il problema di cotanto animale politico è che lascia sempre dietro di sé un sacco di riunioni da comitato d’affari e un sacco di macerie. Che Livorno l’abbia bene in testa mentre la stampa locale gli fa da ufficio stampa accompagnandone le gesta. Del resto per un viceré, autonominatosi come tale, una stampa clinica e critica sarebbe stata davvero una violazione della dovuta etichetta.

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