FridaysForFuture: ora servono radici profonde

Comportamenti individuali e lotte politiche devono trovare immaginari collettivi nuovi per costruire l’alternativa

18 / 3 / 2019

FridaysForFuture è stato, in Italia, un indiscusso successo. Un milione di giovani ha attraversato le strade e le piazze di tante città, da nord a sud, denunciando l’assenza di una politica coerente capace di affrontare la crisi climatica. Giovani e giovanissimi, queste ragazze e questi ragazzi hanno dimostrato che c’è almeno una generazione che ha compreso i rischi prodotti dalle sempre più invadenti interferenze umane negli equilibri del nostro Pianeta. È, guarda caso, la generazione che più ha da perdere dallo scenario catastrofico verso il quale l’umanità si è messa in marcia: una prospettiva foriera di disastri naturali, carestie, migrazioni di massa, probabili guerre, distruzione.

È stata una prova di consapevolezza importante, non scontata, e tuttavia ancora precaria. Perché, se è vero che tante e tanti hanno colorato i cortei, è altrettanto chiaro che questa partecipazione ha bisogno di radicarsi in azioni sociali e politiche dotate di continuità.

Come in altre battaglie, ma forse in maniera più evidente, nel rivendicare la giustizia climatica si uniscono una dimensione individuale e una politica. E la prima funge inevitabilmente da cartina di tornasole per la coerenza della seconda. La lotta al cambiamento climatico, infatti, passa inevitabilmente per le grandi scelte politiche, ma si innerva anche nei comportamenti quotidiani: usare la bici invece di un mezzo a motore; non bere acqua in bottiglie di plastica; rifiutare prodotti con troppi imballaggi; fare consumo critico; ragionare su cosa si mette nel proprio piatto. Sono, questi, soltanto alcuni degli aspetti della nostra vita quotidiana sui quali possiamo fare una piccola, ma significativa, differenza. Dettagli sui quali i movimenti giovanili dovranno dimostrare di saper costruire una diversità capace di mettere gran parte dei genitori e dei nonni di fronte alla responsabilità dei propri comportamenti tanto cinici quanto irresponsabili.

E, poi, c’è la dimensione politica, che in questo caso investe non un aspetto specifico, ma l’intero orizzonte del nostro modo collettivo di vivere il Pianeta. È evidente, infatti, che per affrontare il cambiamento climatico non bastano misure settoriali, legate per esempio alla tutela dell’ambiente e della biodiversità; quel che il cambiamento climatico mette sul tavolo degli imputati è il nostro stile di vita, il sistema socio-economico su cui si fonda e le relazioni sociali e internazionali che, a partire da esso, abbiamo costruito. Insomma, il cambiamento climatico ripropone con forza il tema del cambio radicale di sistema, incapace di adattarsi perché incompatibile con la terra che viviamo.

Sarebbero tanti i nodi da elencare che la crisi climatica ha fatto venire al pettine. Tuttavia, ve ne sono due che, in questo momento, potrebbe essere più urgente affrontare: sono la contraddizione ambiente/lavoro e quella tra cambiamento e sistema democratico.

Quando parliamo di emergenza climatica, non possiamo infatti dimenticarci che milioni di persone contribuiscono, con il proprio lavoro quotidiano, a inquinare il nostro Pianeta. Ciò non significa che possiamo andare da coloro che lavorano in un petrolchimico dicendogli “Licenziati, il tuo lavoro non è sostenibile per il Pianeta”, perché quello stesso lavoro è, il più delle volte, ciò che garantisce la sostenibilità familiare di quelle persone.  Cambiare il sistema significa anche offrire un’alternativa vera e credibile a queste lavoratrici e questi lavoratori, trovando con loro le forme per aprire lotte finalizzate alla conversione ecologica dei sistemi produttivi in cui operano. Il tema della dignità occupazionale e del valore sociale del lavoro, che molti sindacati sembrano aver dimenticato, va riproposto con forza, perché quando un impiego contribuisce a produrre morte, non è lavoro, ma soltanto una forma diversa di sfruttamento.

Il nodo della democrazia, poi, ha evidentemente a che fare con il modo in cui si prendono le decisioni collettive. L’Italia ha sperimentato, dal 2005, una grande stagione di mobilitazioni territoriali, caratterizzata da piccoli e grandi comitati e movimenti che si sono opposti alla devastazione ambientale. Eppure, va preso atto che, a eccezione dell’esperienza valsusina che dopo tanti anni ancora tiene aperta la battaglia contro il Tav, tutte queste mobilitazioni si sono inesorabilmente scontrate con la capacità del sistema economico-istituzionale di garantire al profitto l’immutabilità delle scelte contestate. Il caso più eclatante è quello del referendum sull’acqua dove, a fronte di un’entusiasmante vittoria, questa vitale risorsa non è comunque diventata un bene comune. Porre il problema dei limiti democratici del sistema istituzionale che viviamo è, dunque, vitale per coloro che si battono per la giustizia climatica, e ci pone di fronte alla necessità di immaginare, sperimentare e costruire nuove forme di democrazia, ripensando spazi, luoghi e confini degli ambiti partecipativi.

Essere conflittuali è, anche oggi, un punto di partenza imprescindibile. Denunciare le grandi opere, lo scempio ambientale, le aziende che inquinano per profitto, le politiche energetiche e agricole e quelle urbanistiche: sono, queste e altre, tutte azioni indispensabili per mettere all’indice gli errori e gli orrori e far crescere la consapevolezza collettiva. Ma, se davvero vogliamo fermare questo treno lanciato verso il deragliamento, chiedere al macchinista di fare qualcosa non basta; è urgente tirare il freno d’emergenza con tutta la forza che abbiamo e scendere dal convoglio. C’è un mondo nuovo e diverso da costruire, e per farlo dovremo necessariamente uscire da questo mondo che ci siamo abituati ad abitare. A partire dalla nostra vita quotidiana e da due nodi con i quali contribuiamo alla definizione delle nostre comunità: il modo in cui decidiamo e quello in cui produciamo.