Genova e le altre: il territorio come male comune non va ricostruito com’era e dov’era

Note in margine al disastro

13 / 11 / 2011

  1. 1. A Genova, a Napoli, all’Isola d’Elba è disastro. Acqua e acque sommano tra loro la potenza di ciò che precipita dal cielo con la resistenza della forza del mare che ricaccia indietro quella massa liquida proveniente da fossi e torrenti che nel tempo sono stati mutati e resi incapaci di contenere l’acqua che avrebbero dovuto imbrigliare. Così i media mettono insieme le loro figurine, alluvione dopo alluvione. Quello del 2001, Sarno, Firenze sott’acqua e i suoi “angeli del fango”. Chi scrive ha partecipato, proprio nell’occasione di Firenze, alla salvaguardia del patrimonio artistico. A Firenze prima e, poi, all’Archivio di Stato a Roma dove, centinaia di noi ragazzi senza sentirsi “ la meglio gioventù” passavano pomeriggi su pomeriggi prima a scavare fango, poi ad asciugare pagine e pagine di manoscritti che avevano invaso gli algidi stanzoni monumentali dell’Eur.

Prima c’era stato il Polesine e ci familiarizzammo con la parola “profughi” che , scoprimmo proprio allora, poteva riguardare chi lo diventava anche senza un evento bellico. Si poteva , come accadeva in quei primi anni 50, essere cacciati dai territori resi inabitabili non da una guerra, ma dallo straripare di un elemento naturale: da quello stesso fiume inteso, da sempre, come “risorsa” intorno cui scandire le stagioni della vita.

Due esperienze che ci tornano ora in mente. Dalla prima: abbiamo appreso a far nostre, a trasformare in comportamenti e azioni quelle parole che cercavamo di capire nella musica più che nei libri. A trovare comuni forme di solidarietà in una società tutta impegnata a spingerci alimentando il mito dei giovani verso la individualità più sfrenata. Dalla seconda: a guardare con attenzione ai fenomeni naturali. A quello che c’era appena fuori dalle nostre case e a quello che era scomparso con la loro costruzione.

La donna che a Genova filma con l’Iphone in diretta dalla propria finestra il deflagrare della “bomba d’acqua” facendosi al tempo stesso megafono per chi malauguratamente è stato sorpreso lì sotto sulla strada trasformata in fiume, ha portato nelle nostre stanze insieme alle forme di quella devastazione una precisa domanda. Diretta a tutti noi.

Di chi è la strada, la sua organizzazione, le sue forme di arredo, i segni che, quali altrettanti alfabeti, individuano, ci fanno riconoscere o allontanarci dai singoli luoghi anche minuti che fanno parte del nostro paesaggio quotidiano? Ancora: chi possiede quell’angolo, quell’incrocio a cui siamo abituati a gettare un occhio; quell’albero che ci chiediamo giorno dopo giorno come abbia fatto a farsi un po’ più grande tra automobili e gas.? Tutto questo di chi è, a chi appartiene?

Sappiamo che il terreno, il sedime dove abbiamo costruito e continuiamo a costruire le nostre città ha sempre un proprietario pubblico o, sempre più spesso, privato. Sappiamo, ancora, che la legislazione che abbiamo fin qui conosciuto pur con tutte le continue eccezioni e stravolgimenti delle regole, ha tentato di mediare il rapporto tra interesse pubblico e privato basato sul riconoscimento del diritto alla casa legato dalla Costituzione in modo indissolubile al diritto all’abitare in un territorio da tutelare nelle sue forme ambientali e storiche. Sappiamo che, anche a seguito della stagione delle lotte sociali della fine degli anni 60, siamo riusciti (a volte), grazie all’indirizzo pubblico del territorio, alla salvaguardia e all’inserimento nel tessuto delle città e dei territori di servizi di spazi di socialità e spazi di cultura.

  1. 2. Solo che a ben vedere, anno dopo anno, i due interessi: il privato e il pubblico hanno finito con il coincidere. Entrambi indirizzati come erano (come sono) a costruire rendita per mezzo dello sfruttamento dei suoli.

Questo raccontano le immagini di Genova e quelle, di pochi giorni prima, delle Cinque Terre. Non dissimili certo da quelle di Messina o del Sarno; da quelle di quell’elenco lunghissimo indietro negli anni.

Ci dicono che molti si sono arricchiti sfruttando il territorio. Che amministrazioni pubbliche e proprietari privati hanno considerato il territorio un bene da sfruttare a loro vantaggio, senza alcun rispetto per la natura e chi il territorio abita.

Mentre alcuni accumulavano vantaggi dallo sfruttamento, c’era chi (i più) ne restava vittima. Di fronte ai molti che hanno condiviso la sofferenza dovuta a frane e esondazioni; davanti alle molte morti, ai tantissimi che hanno perso tutto quello che avevano, potremmo dire che per tutti loro il territorio è stato “un male comune”.

Quando gli Amministratori parlano - lo ha fatto la Sindaca di Genova e lo ha fatto in modo ridicolo Alemanno di fronte al modesto rovescio di pioggia sufficiente a mandare a bagno Roma qualche settimana scorsa – di “eventi imprevedibili” fanno molto di più che cercare di allontanare da sé le proprie responsabilità. Parlano della natura come di un nemico. Di un mostro, che non si può conoscere; pronto ad opporsi, proponendo disastri, allo sviluppo. Dicono che la natura, perché di questo si parla, è altro dalla città. Da tenere fuori, da cancellare, da irrigimentare, da cercare di limitare. Quando questa è presente nelle città sotto la forma del reticolo idrografico, di fiume, torrente, fosso, pensano a domarlo con nuove regole e nuove varianti per rendere possibile il costruire persino in aderenza a quelle sponde. Lì dove fino a pochi anni fa anche le parole dell’urbanistica sembravano avere un significato preciso chiamandole fasce di “rispetto”. Dagli amministratori la disciplina idraulica (quella che regola la portata di fiumi e fossi e li sorveglia) è stata dimenticata prima ancora di quella urbanistica tanto che nessuno si è lamentato che nella finanziaria 2012 sono “spariti” 500 milioni che sarebbero dovuti servire almeno ad una modesta prevenzione idrogeologica. Così al posto delle fasce fluviali, che dovrebbero accompagnare ogni corso d’acqua, spuntano muraglioni di case che prendono da quella criminale ubicazione ulteriori elementi di valorizzazione immobiliare. Case al posto di elementi di riqualificazione vegetazionale naturale che potrebbero favorire, con il ripristino di aree agricole, l’invenzione di possibili inediti sviluppi rurali all’interno della città. Si è scelto, al contrario, di rendere impermeabile ogni metro del territorio fino al punto che nella maggior parte dei centri abitati sembra, ora, impossibile attuare un processo di una nuova permeabilizzazione diffusa.

Era imprevedibile ma “io, anche se mi sento responsabile, non mi dimetto” assicura la Sindaca di Genova. E’ colpa del “debito lasciato dai comunisti” dice Alemanno, ma non fa neppure, come i suoi predecessori, la piccola manutenzione; per esempio, per creare quei piccoli dossi che con pochi euro servirebbero a non trasformare ogni sottopasso romano, nei giorni di pioggia, in fiumi da guadare. Non lo fanno perché non possono cambiare il loro lungo lavoro. Proprio ora che sono quasi riusciti a far si che il territorio come bene per pochi diventi un male comune per gli abitanti di tanti luoghi. Lo stato del nostro paese è in condizioni penose; avrebbe bisogno di un grande restauro territoriale. Come detto i fondi ,finanziaria dopo finanziaria, sono diventati ridicoli. Ma se anche ci fossero gli stanziamenti per i lavori necessari chi dovrebbe gestirli? Abbiamo visto come le tante emergenze si sono trasformate in grandi affari. Basterebbe l’Aquila.

  1. 3. Esiste, come ricorda sul Manifesto dell’8 novembre Piero Bevilacqua, una questione territoriale. Non la si vuole riconoscere. Così come non si è voluto riconoscere la crisi. Le timide ammissioni sul fatto che quanto sta accadendo è frutto del “ troppo costruito” - avanzate persino da chi ha introdotto nel nostro paese il condono edilizio a go-go – in realtà tendono a spostare sugli esiti edilizi (case, edifici, infrastrutture…) le colpe per nascondere come questi sciagurati individui di cemento e mattoni invece siano lì a dimostrare che averli potuti realizzare è stato possibile solo azzerando, nel tempo, ogni procedura democratica. Non basta ripristinare le regole dell’urbanistica. Compito centrale per affrontare la questione territoriale è parlare di democrazia a partire da un restauro territoriale mirato non al “ rimettere le cose a posto” quanto a immaginare un nuovo/ vecchio posto per nuove cose.

Dobbiamo per forza gettare nuovamente cemento a coprire fiumi, costruire ancora quelle stesse strade che non portano da nessuna parte, riprogettare nuovi tubi e lastre di cemento a cercare di arginare terreni franosi resi tali (e che continueremo a rendere tali) tagliando alberi, disboscando intere parti del territorio? Dobbiamo, per forza, continuare a consumare suolo agricolo perché le società costruttrici non trovano finanziariamente “conveniente” (cioè non raggiungere lo stesso valore della rendita assicurato dal costruire il “ nuovo”) investire sul recupero del tanto realizzato spesso abbandonato? Per quanto dobbiamo continuare ad accettare che il termine di valorizzazione, a cui tutte le Amministrazioni ricorrono per battezzare i propri interventi (grandi e piccole opere), non possa essere declinato come valorizzazione sociale e non solo economica? E’ la morsa della tenaglia rappresentata dal capitalismo finanziario e dal suo farsi promotore di ogni intervento con la complicità delle Pubbliche Amministrazioni, a cementare il territorio come un male comune.

Mettere mano al restauro del territorio è una questione di democrazia prima ancora che di urbanistica.

Riconoscere il territorio come bene comune, non deve essere solo una convinzione di principio. Riconoscere il territorio come bene comune vuol dire affidarlo alle comunità locali le sole in grado di promuovere forme di economia democratica basate sull’autorganizzazione. Dove ripensare le singole scelte di settore (energia, agricoltura, edilizia, alimentazione…) all’interno di una sperimentazione anche conflittuale al fine di immaginare ciò che vogliamo. Solo così si può affrontare la questione territoriale e mutare l’attuale endemica e costante emergenza in un percorso di trasformazione virtuosa dei luoghi feriti. Non per rimetterli a posto come erano prima dell’esplosione di questo disastro. Per impedire che siano ricostruiti come “male”.

Prima però dovrebbe ricrearsi una cultura del luogo, una sapienza del costruire, una capacità di insediarsi nei luoghi oggi interrotta. Attraverso le innovazioni della tecnologia si è pensato di poter deviare, imbrigliare, nascondere il corso dei fiumi, di poter costruire sugli argini, dentro l’alveo, lungo i pendii. Di riuscire a impermeabilizzare intere aree urbane. Tutto in modo non dissimile da così come si pensava di poter trasformare l’enorme indebitamento dei paesi industriali attraverso invenzioni creative della finanza. E questo è un compito che appartiene ai movimenti. La questione territoriale non può essere materia risolvibile dall’ alternanza tra schieramenti di “rappresentanza” visto che, anche di questo, parla l’imposizione della BCE quando impone la privatizzazione di ogni bene demaniale (spiagge comprese).

Potremo riuscire a mettere mano alle devastazioni provocate dal programmato (per questo sì inevitabile) disastro ambientale solo se riusciremo a riscrivere le modalità di gestire i luoghi, nominando gli attori che li “abiteranno", producendo valore, recuperando saperi da far tornare costituenti attraverso la riappropriazione democratica che rappresenta la progettualità del comune. A partire proprio dall’opporsi ad una ricostruzione del dov’era e com’era di quello che spacciato come soluzione si è dimostrato essere il problema.