Genova e quel seme sotto la neve...

Intervista ad Angelo Miotto, curatore del libro "Genova per chi non c'era" (Altraeconomia)

20 / 7 / 2021

Abbiamo intervistato Angelo Miotto, curatore del libro Genova per chi non c’era, uscito per i tipi di Altraeconomia in occasione del ventennale del G8 di Genova. Angelo Miotto è giornalista, documentarista radiofonico e comunicatore e nel 2001 ha seguito in diretta le vicende del G8 per Radio Popolare.

Siamo qui con Angelo Miotto, curatore del libro Genova per chi non c’era. Partiamo dal titolo del libro: perché l’esigenza di raccontare Genova a chi non l’ha vissuta?

Ci sono due fattori: uno è quello della memoria, l’altro fattore è capire a chi indirizziamo questa memoria. Il punto focale della mia idea, e anche di Altreconomia, che ha accolto la mia proposta grazie a Massimo Acanfora, è stato quello di pensare ad un’eredità, non perché noi non abbiamo più voglia di raccontare ciò che è successo, ma perché le nuove generazioni hanno probabilmente un problema legato al contesto. Il contesto è qualcosa che ci serve per avere un’opinione, per informarsi, per dare un giudizio ed eventualmente anche poi per partecipare attivamente alle lotte, alle rivendicazioni, al conflitto, che è qualcosa che forse non è più tanto presente come sentimento condiviso nelle nuove generazioni.

Abbiamo quindi pensato di creare un libro “di servizio”; vi è pensiero ma anche ricostruzione, molto secca, quasi storica. Abbiamo poi fatto un libro corale, chiedendo a quei personaggi che erano presenti alle manifestazioni della proposta, più che della protesta, di ricordarci i temi fondamentali che erano sul tavolo allora, e che rimangono sul tavolo anche oggi.

È un tema interessante, questo delle proposte. Il libro è un lavoro corale, con molti saggi e molti articoli. Illustraci quali sono le traiettorie principali che troviamo tra le pagine, visto che ci sono tanti autori, che affrontano Genova da una prospettiva diversa.

Ci sono alcuni temi che sono generazionali. Ti faccio degli esempi. Christian Elia, codirettore di Q Code Magazine, affronta il suo ricordo del viaggio sul treno all’indomani dell’omicidio di Carlo Giuliani come uno spartiacque, e non lo è stato soltanto per lui, e come il richiamo un impegno politico da rinnovare. Ci sono anche ricordi di come affrontammo dal punto di vista giornalistico quei giorni, ad esempio con Danilo Di Biasio, che organizzò la diretta per Radio Popolare.

Ci sono poi interventi che vanno più sui temi, come quelli di Marco Bersani o Antonio Tricarico, che ci parlano della nuova globalizzazione o della finanziarizzazione. Cercano di attualizzare quei temi di vent’anni fa con qualcosa che viviamo oggi. Ovviamente si parla dell’emergenza climatica, ed è qui interessante capire se questa tematica affronta un nuovo nemico, perché siamo di fronte ad una propaganda che si camuffa. Le grandi multinazionali usano i temi migliori che abbiamo portato noi sul tavolo di Genova per far vedere quanto sono buone le loro politiche, in realtà poi quando vai a studiare cosa davvero fanno è estrattivismo puro.

Questo è vero soprattutto in una fase in cui si sta ridefinendo il concetto di estrazione, soprattutto grazie al Recovery Fund e al PNRR in Italia. Veniamo ora agli articoli, di cui tu non sei solo curatore ma anche autore. Apri il capitolo terzo con un articolo in cui parli dell’eredità di Genova. Fai riferimento ad una serie di movimenti sociali, dagli Indignados, a tutte le lotte contro l’austerità, fino ai giorni nostri. Parli anche del concetto di nazione indiana, dell’esigenza di mettere insieme queste comunità, anche perché le comunità resistenti non sono mai finite. A Genova non termina il movimento, non termina la movimentazione sociale. Qual è l’obiettivo di questo articolo e quali sono i presupposti dai quali parte?

Con Donatella Della Porta, una professoressa della Normale di Pisa, abbiamo ripercorso vent’anni di conflitto. Per me è interessante per dimostrare un semplice teorema: il movimento continua subito dopo aver preso molte bastonate, dopo essersi messo in discussione. Queste discussioni iniziano già nel 2002 a Firenze, va avanti nel 2003 con le manifestazioni contro la guerra, va avanti in maniera carsica, quindi spuntano in diverse occasioni.

Ho poi citato alcuni elementi internazionali, che hanno dato l’idea di essere rivendicazioni verticali che formassero poi a loro volta piattaforme. Ci sono gli Indignados, che poi danno vita ad un partito politico, Podemos, che sicuramente era molto più a sinistra un tempo di quanto non sia ora che è al governo. Poi Occupy Wall Street, si arriva addirittura fino a Black Lives Matter.

Parliamo anche di una serie di rivendicazioni che sembrano territoriali, ma in realtà affondano le radici nel seme di Genova, che sono tutti quei movimenti che per comodità sono stati etichettati come “NO”. Mi ricordo, ad esempio, che quando i NO Tav sfilarono a Genova per il decennale, furono accolti da applausi perché accoglievano un certo tipo di eredità, un’eredità battagliera, di quelli che sapevano opporsi in maniera coerente, ma decisa, che è il grande tema del conflitto. Anche questi movimenti sono una parte importante. Più locale come percezione, ma qualcosa che abbiamo visto a più latitudini.

Tra l’altro uno degli slogan di Genova, ereditato in parte poi da alcuni movimenti, era Pensare locale, agire globale. Credo che proprio sulla questione climatica questo slogan sia diventato concreto, perché tante lotte territoriali, soprattutto negli ultimi anni, sono uscite da una dimensione esplicitamente ancorata al territorio, abbracciando una visione d’insieme.

Ci sono temi come la partecipazione, la territorialità, la comunità, il diritto ad essere informati: questi sono tratti che uniscono le lotte di rivendicazione dal punto di vista climatico. Sono lotte che si rivolgono contro un elemento di inquinamento che nasce sempre in nome del profitto, della poca trasparenza, della corruzione, di cui è difficile non solo trovare le prove, ma anche capire la portata.

Le varie lotte ambientaliste, per lo più locali, sono vissute a volte con del fatalismo, per cui una gran parte dell’opinione pubblica allarga le braccia e si chiede “che cosa possiamo farci noi?”. Si perde così quella possibilità di fare effettivamente qualcosa a livello territoriale, che è però forse il grande tratto di unione che dobbiamo imparare dalla lezione che stiamo vivendo.

Un altro tema che affronti nel saggio è quello della crisi dei partiti, cominciata già anni prima. Probabilmente in Italia si inserisce in una crisi politico-giudiziaria che è quella di Tangentopoli, ma sicuramente l’opzione partitica dopo Genova sia dal punto di vista simbolico sia dal punto di vista materiale non è più capace di esprimere alternative reali o una visione politica chiara. Questo avviene in Italia, ma non solo, con alcune eccezioni come quello di Podemos che però rappresentano delle meteore. I movimenti secondo te sono in grado di raccogliere tutta questa eredità?

C’è un tema molto attuale, ovvero il sovranismo, che ha soppiantato una certa politica, utilizzando degli strumenti propri del vuoto che è stato lasciato dalla politica stessa. Vuoto che avrebbe potuto colmare ascoltando di più le istanze del movimento. Queste non sono state recepite, anzi vengono rifiutate in maniera assolutamente plateale, quasi per lesa maestà, come se fossero solo i partiti politici a poter dettare l’agenda politica. Ma non è così.

Assistiamo sicuramente ad una crisi di sistema, laddove il sistema rappresentativo non funziona più, mentre la democrazia partecipativa non si è assolutamente affermata e fa fatica a livello nazionale ed internazionale. Ci sono esempi diversi, come il municipalismo catalano, dove vediamo che nel territorio più piccolo è possibile avere della sperimentazione molto interessante.

Quindi in realtà abbiamo di fronte un tema estremamente indignante: se abbiamo una bella Costituzione il fatto di raccontare ai ragazzi che spesso è inapplicata dopo così tanti anni significa riconoscere una sconfitta. Sconfitta molto dura perché viene inapplicata esattamente nei temi valoriali: sul no alla guerra, sull’uguaglianza, sulla libertà, sul reddito, cioè tutte quelle parti dove i nostri padri costituenti si sono messi a studiare per garantirci un dopoguerra e un futuro diversi. Rimane una buona letteratura, qualcosa a cui ispirarci, ma poi il dibattito politico va da altre parti e usa altri linguaggi.

Abbiamo detto che rispetto a vent’anni fa abbiamo fatto un salto tecnologico, ma dobbiamo ricordarci anche che questo non va bene se l’azione politica partitica è quella che vediamo nei social o nel talk show televisivo, inaugurato dalle reti private di Berlusconi. Quindi, l’eredità che lascia il movimento è difficile da gestire, perché non è più solo confrontare e andare a opporsi ai nemici che sono riconoscibili e riconosciuti.

La vera difficoltà è nel trovare gli strumenti comunicativi che sappiano raccogliere l’attenzione per poter spiegare il fatto politico in sé, e poi trasformare proposte ed idee in azioni di tipo politico a livello governativo. Ci sono molte più barriere ed ostacoli, e, nonostante il mio ottimismo, riconosco che c’è una confusione per chi è più giovane sull’orientarsi. Quando ero giovane io era più semplice, vedevo il mondo diviso in blocchi ed era abbastanza facile riuscire a capire perlomeno a grandi linee che cosa ci fosse e la posta in gioco. Il movimento è secondo me un’opportunità per trovare finalmente una rappresentanza e cercare di portare avanti e cercare di far diventare maggioranza quelle idee.

Un’ultima domanda sulla comunicazione. Tu eri inviato a Genova per Radio Popolare: come cambia la comunicazione politica, quella del movimento in particolare, dopo Genova?

Cambia molto, perché anche le radio indipendenti fecero un ottimo lavoro, alcune vennero addirittura assaltate il 21 luglio 2001. Si trovano però sempre con meno mezzi, non avendo una sponda a livello partitico dopo il 2001 che potesse essere un elemento strategico con cui giocare per avere determinate idee e campagne da portare avanti dal punto di vista dell’inchiesta e dell’informazione.

Il mainstream lo conosciamo, c’era un discostarsi già allora degli inviati che conoscevano e che raccontavano quello che vedevano, e il titolista che raccontava un’altra storia e l’editorialista che andava a bastonare il movimento in base a linee editoriali ideologiche. Il mainstream a mio avviso non va messo in discussione perché ha sempre fatto il suo lavoro, quello che invece è da questionare è come riusciamo noi, da quella che era la novità dei media che poi si è trasformata nel “diventa tu il media” a passare poi ai social media. Questa lettura ci può anche aiutare, ma può anche essere pericolosa perché dalla diffusione di video è vero che denunci ma ne puoi anche essere delatore inconsapevolmente.

Quando si parlava di sinistra radicale a me veniva da ridere, perché radicale non vuol dire niente, e la sinistra o è sinistra o è centrosinistra che assomiglia al centro destra, quindi in realtà già le definizioni che si sono usate nell’informazione hanno lasciato parlare di “No global”. Un termine abusato, perché potremmo preferire altro-mondialismo. No global è una definizione che hanno appiccicato in maniera posticcia e sicuramente contestata dal movimento. Dovremmo cominciare da qui, dal fatto che Carlo Giuliani non è morto, ma è stato ucciso e via dicendo. Queste sono cose che vediamo anche oggi, vent’anni dopo.