Gli algoritmi e la censura dei post pro Palestina

8 / 6 / 2021

Questa è la storia di come Facebook Inc. sia finita nella bufera dopo le accuse ricevute dai suoi dipendenti per aver rimosso dalle proprie piattaforme dei contenuti pro Palestina. I post presi di mira dagli algoritmi erano quelli contenenti l’hashtag #SaveShehikJarrah, che si riferisce al quartiere di Gerusalemme Est che è stato al centro di manifestazioni di protesta da parte di migliaia di Palestinesi contro le violenze e le provocazioni dei coloni israeliani. Le accuse però non riguardano solo il colosso di Menlo Park, perché arrivano a coinvolgere anche YouTube, Apple, Google e Twitter.

Facciamo un passo indietro:

È il 12 Aprile, la data di inizio del Ramadan, quando i coloni iniziano le provocazioni contro i residenti palestinesi: entrano nelle moschee per impedire l’accesso ai fedeli con delle vere e proprie spedizioni punitive. Contestualmente iniziano gli sfratti e gli sgomberi coatti delle famiglie palestinesi dalle loro case. Si tratta di condotte del tutto illegali fatte ai danni di persone che vivono lì da sempre e che pagano un affitto o sono proprietarie. L'escalation di violenza da parte dei coloni israeliani si è inserita nell’ottica di un’operazione - di cui il governo israeliano è complice - per “ripulire” Gerusalemme Est dagli Arabi.

Così durante quelle settimane gli utenti dei social media, palestinesi e non, hanno iniziato a caricare e condividere contenuti video e immagini sugli attacchi che stavano subendo. Nel giro di pochissimo tempo, però, molti di loro hanno iniziato a lamentarsi del fatto che i loro account siano bloccati o chiusi del tutto. 

Come parte il caso contro il colosso dei social?

30 dipendenti di Facebook inc. - i cui familiari erano coinvolti nella situazione a Gaza e a Gerusalemme - scrivono una lettera aperta all’azienda lamentando un controllo “sproporzionato ed eccessivo” sui contenuti che sostengono la causa palestinese. Nella lettera si denuncia il funzionamento degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale. 

Nel caso di facebook le proteste palestinesi sarebbero state etichettate come «molestie o bullismo» e questo avrebbe portato alla rimozione di più di 500 post che documentavano la situazione a Gerusalemme Est. La denuncia però non si ferma qui e segnala come, nel caso di Instagram, siano stati rimossi diversi post sull’assassinio di un sedicenne palestinese. A partire da questa lettera si solleva una enorme polemica che arriva a coinvolgere anche Twitter Inc., responsabile di aver rimosso numerosi tweet e aver sospeso centinaia di account considerati come «spam».

Facebook Inc. si è scusata e ha ammesso che ci siano stati numerosi problemi tecnici, il suo portavoce ha infatti dichiarato «Non sarebbe mai dovuto accadere. Siamo molto dispiaciuti per tutti coloro che hanno sentito di non poter attirare l’attenzione su eventi importanti, o che pensavano che questa fosse una deliberata scelta per silenziare la loro voce. Questa non è mai stata la nostra intenzione».

Ma è stato davvero un errore tecnico? 

Venerdì 21 Maggio 2021 il Centro arabo per lo sviluppo dei social media ha pubblicato un nuovo rapporto intitolato “Gli attacchi ai diritti digitali dei palestinesi”. In questo rapporto sono raccolte tutte le segnalazioni di violazioni di diritti digitali, avvenute tra il 6 e il 19 Maggio, e anche tutte le risposte che le società hanno dato per queste segnalazioni. 

La data di inizio del monitoraggio, il 6 Maggio, non è casuale: è il giorno in cui la Corte Suprema Israeliana ha annunciato la sua decisione di procedere allo sgombero forzato dei cittadini palestinesi che vivono, per l’appunto, nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. 

In questo rapporto sono documentate più di 500 segnalazioni di violazioni dei diritti digitali delle persone palestinesi, un numero che mostra un aumento importante della censura sul tema.

Come se non bastasse, mentre le piattaforme censuravano i contenuti pro Palestina, allo stesso tempo sostenevano la diffusione di discorsi di incitamento all’odio contro palestinesi e arabi scritti in lingua ebraica. Secondo il rapporto del Centro arabo per lo sviluppo dei social media il 50% dei contenuti pro Palestina rimossi riguardava Instagram, il 35% Facebook, l’11% Twitter e l’1% Tik Tok. Il 3% delle segnalazioni non includeva informazioni sufficienti per essere comunicate alle aziende.

Nonostante i dati contenuti in questo rapporto, che documenta un alto tasso di censura dei contenuti pro Palestina, la posizione delle piattaforme social non cambia: “sono stati solo problemi tecnici”.

Ma se il fenomeno è in aumento era un problema già esistente?

Sada Social Center, un’associazione che si occupa di monitorare le violazioni operate dalle piattaforme di social media per difendere i diritti digitali delle persone palestinesi, da diversi anni afferma che «Twitter ha preso di mira e bloccato oltre 86 account di noti centri stampa, giornalisti e attivisti dei social media palestinesi ed arabi a causa delle loro posizioni a sostegno del popolo palestinese e della loro lotta legittima contro l’occupazione israeliana». Ha inoltre denunciato come si siano verificati dei ban su whatsapp per i giornalisti palestinesi. 

È dimostrabile la complicità tra Israele e le società di social media nella censura di contenuti e account palestinesi?

Sì, è una complicità ben documentata e non riguarda soltanto Facebook Inc. ma anche Google, YouTube, Apple e Twitter. 

Nel 2016, dopo una visita della delegazione di Facebook, il ministro della giustizia israeliano ha dichiarato che «Facebook, Google e YouTube stavano rispettando fino al 95% le richieste israeliane di eliminare contenuti palestinesi». Ma non si tratta solo di censura: le persone palestinesi in diverse occasioni hanno segnalato come Facebook inc. abbia rivelato al governo israeliano dati personali degli utenti palestinesi, consentendo così che il governo israeliano potesse procedere al loro arresto per i contenuti dei loro post.

Nel 2017 il Centro arabo per lo sviluppo dei social media ha pubblicato uno studio che rilevava come ogni 46 secondi gli israeliani pubblichino un commento razzista o di incitamento all’odio contro palestinesi e arabi. Nonostante questo, sono state intraprese poche azioni contro questi account. Nello stesso studio, il Centro arabo per lo sviluppo dei social media segnalava di aver ricevuto 40 segnalazioni di gruppi whatsapp e telegram di estremisti israeliani, nei quali si parlava di linciaggi di massa contro i palestinesi. Questo incitamento al linciaggio si è poi esteso all’offline portando all’uccisione di due persone palestinesi. 

Durante gli ultimi attacchi di Israele Google ha offuscato la Striscia di Gaza e reso l’area a bassa risoluzione su Google Maps, impedendo ai gruppi per i diritti umani di documentare attacchi e demolizioni. Anche in questo caso però non parliamo di un fenomeno recente, poiché le prime proteste contro le politiche discriminatorie di Google risalgono al 2016, quando Google entrò nel mirino del “Forum dei giornalisti palestinesi” per aver cancellato la Palestina dalle sue mappe digitali, favorendo così Israele. In quello stesso periodo il Sada Social Center dichiarò che la Palestina non veniva riportata sulle mappe di Google e Apple: gli unici luoghi ad essere evidenziati erano la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. 

All’inizio del 2020 il Sada Social Center ha nuovamente segnalato Google per aver iniziato a rimuovere i nomi delle città e delle strade palestinesi da Maps, sostituendoli con quelle israeliane - con il rischio per i palestinesi che seguivano le indicazioni basate su queste mappe di ritrovarsi in un insediamento israeliano.

Come se questo non bastasse negli ultimi mesi le autorità israeliane hanno iniziato ad utilizzare il monitoraggio della geolocalizzazione per identificare i palestinesi. In particolare è successo ai fedeli della moschea di Al-Aqsa, a cui il governo israeliano avrebbe inviato dei messaggi intimidatori al fine di impedirgli di prendere parte alle proteste di quei giorni.
Per quanto riguarda la piattaforma di YouTube durante i bombardamenti delle ultime settimane il ministero israeliano degli Affari strategici ha promosso dei video caricati sulla piattaforma in cui si giustificavano gli attacchi alla Striscia di Gaza, in questo caso non c’è stata nessuna risposta o censura da parte dell’azienda. 

La situazione attuale:

Martedì 18 maggio 2021 il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha incontrato Nick Clegg, vice presidente degli affari globali e della comunicazione di Facebook, e il Local Advocacy Manager del Centro arabo per lo sviluppo dei social media, per discutere dell’impatto di Facebook sui diritti digitali palestinesi. Questo incontro è avvenuto dopo una lettera inviata al CEO di Facebook, Mark Zuckerberg, in cui si chiedeva a Facebook di smettere di ridurre lo spazio digitale delle persone palestinesi, così contribuendo alla violazione dei loro diritti umani. In particolare la lettera ha evidenziato il lavoro dell’Israeli Cyber Unit che, negli ultimi anni, ha inviato decine di migliaia di richieste alle società di social media per rimuovere contenuti senza alcuna base giuridica. Inoltre nella lettera si chiedeva a Facebook di adottare maggiore trasparenza sulla natura dei motivi che portano a rimuovere i contenuti, fornendo spiegazioni agli utenti sul perché la piattaforma abbia deciso di rimuovere il contenuto o limitare l’account sulla base di richieste volontarie da parte del governo israeliano. 

Considerando il ruolo, ormai fondamentale, che i social media ricoprono nel dare spazio a una narrazione alternativa rispetto ai media tradizionali, credo si ancora più importante e necessario continuare a vigilare sull’operato delle grandi piattaforme, che hanno responsabilità enormi sulla narrazione dell’oppressione palestinese. Il loro impatto è percepibile anche nella forte sensibilizzazione che si è prodotta sul tema, che si è concretizzata in una diversa composizione nelle piazze convocate in solidarietà al popolo palestinese, che hanno visto una larga partecipazione delle nuove generazioni. Alla luce di queste considerazioni credo sia necessario proteggere i diritti digitali del popolo palestinese, perché questo significa aiutarlo a documentare le continue violazioni dei loro diritti, anche umani, da parte di Israele.