Guerra, clima ed energia: «dobbiamo cambiare il nostro modello energetico e costringere le multinazionali del fossile a pagarne i costi!»

Intervista ad Alessandro Runci di Re:Common.

16 / 5 / 2022

Nel corso del Meeting internazionale dei movimenti climatici tenutosi al centro sociale Rivolta abbiamo intervistato Alessandro Runci di Re Common sul nesso tra guerra e crisi energetica, nel contesto più ampio della crisi ecologica. Il sesto pacchetto di sanzioni dell’Ue alla Russia, che dovrebbe essere varato lunedì 16 maggio, dimostra quanto pesi la dipendenza dal gas russo, e in generale dai carburanti fossili, nel contesto economico e politico europeo, e italiano in particolare.

Alcune settimane fa hai scritto un articolo su Domani in cui hai spiegato bene come la dipendenza dal gas russo sia allo stesso tempo causa ed effetto di questo conflitto. Ma quali sono le strategie che hanno portato a questa situazione e chi hanno favorito?

Il racconto di questa guerra che è stato fatto sui media italiani è stato accompagnato fin dall’inizio dal tema della crisi energetica. Ed è un racconto che si può riassumere in due parole: “ricatto russo”. Questo è un concetto ormai sulla bocca di tutti, è però importante chiederci come ci siamo arrivati a tutto questo. 

Più che di “ricatto russo”, io parlerei di ricatto che ci è stato fatto dalle società energetiche italiane. Se siamo arrivati al fatto che circa la metà del gas che consumiamo arriva dalla Russia, non è certamente per caso, ma è legato alla volontà di alcuni soggetti che in Italia detengono non solo il controllo energetico, ma in alcuni casi detengono il controllo delle stesse politiche pubbliche, in particolare in politica estera. Questi soggetti hanno operato una serie di scelte, da vent’anni a questa parte, che ci hanno portato a questa situazione.

Il caso di ENI è emblematico, perché ENI è storicamente il principale partner di Gazprom, la più importante società energetica russa controllata dal Cremlino. Questa partnership commerciale è stata costruita da ENI innanzitutto sfruttando quella che al tempo era un’alleanza molto solida tra Putin e l’allora premier italiano Silvio Berlusconi. Alleanza fatta di affari privati, amicizie intime e di tutta quella serie di questioni di cui in quegli anni si parlava molto.

Nel 2006 ENI ha firmato un contratto con la Gazprom, di fatto estendendo i termini dei contratti di fornitura del gas dalla Russia fino al 2027. Quel termine fu esteso dieci anni prima della scadenza di quei contratti, che è una scelta poco sensata sul piano commerciale, ma che evidentemente sottintendeva altre cose. Quella scelta ci ha vincolato perché da lì in avanti la nostra dipendenza dal gas russo è aumentata a dismisura.

Chi ci ha guadagnato? Ci ha guadagnato ENI, perché attraverso quei contratti è riuscita a ipotecare il controllo delle risorse energetiche che utilizziamo.

È stato in questi anni fatto un grande lavoro per individuare e indicare i responsabili della crisi climatica, dando loro dei nomi, cognomi e dei volti. Penso che oggi sia fondamentale non fare un passo indietro e non appiattirci sulla narrazione per la quale “noi” importiamo gas dalla Russia. Non è così: noi acquistiamo gas da una società italiana che lo importa dalla Russia e ce lo rivende facendo dei profitti immensi.

Questa è la realtà e noi, cittadine e cittadini, non abbiamo purtroppo il potere di scelta rispetto a quale sia il nostro modello energetico. Noi dipendiamo da un manipolo di multinazionali, che sono pochissime e che hanno il potere totale sul sistema energetico e in generale sul modello di sviluppo che si sceglie di avere.

Dal sistema energetico dipende la nostra vita e questo oggi sta emergendo in maniera drammatica, da una parte perché i miliardi che ENI dà alla Russia sono gli stessi che stanno alimentando il conflitto, dall’altra perché essere così dipendenti da quelle risorse riduce i margini di manovra. Basti vedere ciò che accade con le sanzioni. Al di là dell’opinione politica in merito alla questione: che senso ha parlare di pacchetti di sanzioni quando dall’inizio dell’invasione militare, l’Unione Europea ha finanziato la Russia con oltre un miliardo di euro al giorno. 

Questi sono soldi che alimentano quella guerra e aver polarizzato per settimane le discussioni sul fatto di inviare o meno armi all’Ucraina nasconde la vera realtà, cioè che continuiamo a supportare quell’invasione ogni giorno, perché le decisioni vengono prese da multinazionali il cui obiettivo è quello di fare più profitti possibili e per farlo alcuni principi di carattere etico e morale vengono soppiantati.

Questo è importante ricordarcelo sempre, perché la situazione che viviamo ha dei responsabili molto chiari: le compagnie energetiche che fanno il bello e il cattivo tempo in questo Paese, che in teoria sarebbero controllate dallo Stato, ma in pratica controllano lo Stato. 

La politica estera oggi ha un peso fondamentale e all’interno del ministero per gli Affari Esteri dal 2008 sono insediati uomini di ENI, attraverso un accordo che è stato rivelato solamente alcuni anni fa ed è rimasto segreto per oltre 10 anni. Questo ci pone un problema democratico enorme e ci fa fare anche un’altra domanda: se realmente il Consiglio europeo decidesse di fare un embargo a gas e petrolio russi, il governo italiano come si posizionerà considerato che nei tavoli decisionali siedono le stesse società che da quelle importazioni ci guadagnano? Quel problema democratico che è sempre esistito, anche se spesso è rimasto un po' nascosto e marginale, oggi impatta sulla vita di tutti e tutte noi e soprattutto impatta sugli sviluppi di una guerra in Europa.

C’è inoltre anche un problema di giustizia e quando oggi si parla di come uscire dal “ricatto russo” le ricette che ci stanno proponendo sono le stesse che ci stanno portando in questa situazione. Perché uscire dal “ricatto russo” andando a cercare gas in Algeria o Azerbaigian semplicemente sposta il problema da un punto all’altro. E in una società globalizzata spostare il problema da un punto all’altro non serve a nulla.

Questo va al di là dei problemi che ci saranno, perché nel breve periodo sostituire il gas russo sembra una chimera. Innanzitutto perché i Paesi che stiamo implorando per aumentare le forniture di gas nel migliore dei casi non dispongono delle quantità necessarie, ma nella maggior parte dei casi sul piano geopolitico sono molto più vicini alla Russia di quanto lo siano all’Europa. 

L’Azerbaigian forse è il caso più emblematico: da anni ci raccontano che con la realizzazione del gasdotto TAP - costato 4,5 miliardi di soldi pubblici – avevamo messo al sicuro il nostro sistema energetico. Due giorni prima dell’invasione russa, il dittatore azero Aliyev volava a Mosca per firmare un accordo con Putin che impone ai due di non concludere accordi commerciali con terzi Paesi che possano danneggiare direttamente o indirettamente uno dei due firmatari. Questo significa che l’Azerbaigian non esporterà più gas verso l’Europa, a meno che ci sia l’ok da parte della Russia. 

È quindi molto probabile che continueremo a importare gas dalla Russia, a meno che non rivediamo complessivamente il nostro modello energetico. Io non penso che il problema in questo momento sia metterci a pensare quale sia la soluzione e dire “servono 60 gigawatt di rinnovabili” o altro. Non ha senso fino a quando non si decide da dove devono venire i soldi per compensare i costi sociali di qualsiasi cambiamento. E dato che ci sono quei soggetti e quelle società che in questi anni si sono arricchiti enormemente attraverso questo modello, io penso che il presupposto sia dire che queste società devono pagare per l’uscita da questo modello.

Una società come ENI negli ultimi 3 anni ha fatto 30 miliardi di ricavi attraverso le vendite di gas e un terzo di quel gas proviene dalla Russia. Se ENI si è arricchita in questo modo, ora deve essere ENI per qualsiasi scelta che dovremmo fare in questo momento. Ribadire questa cosa è importante perché altrimenti si perde di vista il fatto che gli impatti sociali di tutto questo – come l’aumento delle bollette etc – non sono una cosa neutra, ma hanno anch’essi dei responsabili.  

Rimanendo sul tema dell’energia, ci sono due cose che mi hanno fatto riflettere: la prima è l’inserimento da parte della Commissione Europea di gas e nucleare nella tassonomia, secondo me rappresenta un tassello importante della mappatura dell’energia all’interno della fase della transizione; la seconda è il discorso che si sta riaprendo sul nucleare, dove la guerra ha fatto emergere una contraddizione enorme. Si parla di nucleare sicuro, ma in realtà c’è grandissima apprensione per le 15 centrali nucleari ucraine. Come il conflitto può portare ad un’accelerazione di questo processo?

La questione climatica in questo momento è estremamente polarizzata, siamo in una di quelle fasi in cui è davvero difficile instaurare un dibattito profondo su determinati temi, che invece vengono presi di pancia. Prendendoli di pancia, si tende ad ignorare alcuni aspetti.

Nel caso del nucleare, il primo aspetto che mi viene in mente è che molte delle risorse che servono ad alimentare queste centrali si trovano proprio in Russia. L’altro aspetto, è che i costi e i tempi di realizzazione di queste tecnologie sono lunghissime. La maggior parte delle centrali proposte in tempi recenti non sono state mai realizzate, o il tempo di realizzazione è stato incredibilmente più lungo di quanto promesso, con costi enormi. Si va a replicare lo stesso problema in forma diversa : una centralizzazione del modello energetico basato su risorse finite che di fatto ci riportano alla situazione di capire chi controlla le risorse e quindi l’energia.

La situazione attuale ci dice che continuare a dipendere da risorse controllate e concentrate in determinate aree geografiche, dove oggi si pensa non sia un problema approvvigionarsi, mentre magari domani le cose cambiano, ci riporta al punto di partenza. La risposta probabilmente è cambiare la visione del sistema energetico e cercare di alterare la radice del problema. La radice del problema è chi controlla le risorse, perché poi a seconda di chi le controlla gli effetti si ripercuotono su tutti noi.

La stessa cosa per quanto riguarda le rinnovabili. Ora si pensa che il problema in Italia è che ci sono vincoli troppo stringenti per le rinnovabili. Anche solo pensare che in Italia ci siano vincoli troppo stringenti per qualsiasi cosa è una barzelletta. Ogni giorno si cementifica una superficie pari a svariati campi da calcio; l’industria non ha nessun problema nel fare ciò che vuole. Se pensiamo al primo boom delle rinnovabili chi ci ha guadagnato purtroppo sono ancora una volta interessi criminali. Sarebbe quindi veramente peculiare che in questo Paese la burocrazia rallentasse la grande industria.

Se c’è stata una scelta di puntare sul gas, è perché i rapporti di potere in quel momento, ma ancora oggi, andavano in quella direzione. Chi sono le società che oggi possiedono i diritti maggiori per investire sulle rinnovabili? Sono le stesse società del fossile, gli stessi identici attori. Cercare di trovare competizione tra due parti dell’industria non ci porta da nessuna parte.  Anche perché l’idea di centralizzare ancora una volta il sistema basandolo sulle rinnovabili aprirebbe ulteriori conflitti.

Bisogna mettere in discussione l’idea del modello centralizzato e controllato da multinazionali il cui fine ultimo è il profitto. Quella è la contraddizione, che fa prendere scelte che non sono nell’interesse della collettività. Credo che la situazione di oggi non ci deve portare a decisioni prese di pancia, ma che non cambiano quella che è la sostanza. Se vogliamo cambiarla, dobbiamo interrogarci su quale sia la radice del problema. E non credo che si debba cercare nel tipo di risorse che utilizziamo. Naturalmente quello ha degli impatti, che vanno al di là di questioni geopolitiche e della guerra in corso, perché sono sostante clima-alteranti. Però la radice ultima è da ricercare in come il sistema è strutturato, quali sono gli interessi che lo controllano, e quale può essere un modello alternativo, di energia, di che cosa significa energia per noi, e perché deve essere una commodity e non un bene comune, visto che la nostra vita si basa su di essa.