I fascismi - Combattere gli zombie nazionalisti ponendosi sul piano dell’universale

1 / 2 / 2016

«Torniamo Nazione», firmato Blocco Studentesco. La scritta in nero che spicca sul muro di un quartiere residenziale di Bolzano ha l’indubbia capacità di sintetizzare in due parole un orizzonte mentale ed una proposta politica. Quest’ultima se la si analizza razionalmente finisce per assomigliare allo sproloquio del vecchio generale fascista del film «Vogliamo i colonnelli»: «C’è un grande passato nel nostro futuro!». Ma i fascismi non si basano sulle analisi razionali, bensì su costruzioni mitologiche, e tra tutti i miti quello ancor oggi più potente ed evocativo è forse proprio la «nazione», un termine che continua ad essere centrale nel discorso politico.

L’azienda in cui lavori è stata delocalizzata in Romania? Il tuo stipendio non aumenta da anni ma le tasse, i ticket, ecc. si? Non ti viene assegnata una casa popolare? La scuola in cui studi è un parcheggio che rilascia pezzi di carta senza alcun valore effettivo? Dopo (o durante) l’università si spalancano le porte del precariato? Si può risolvere tutto «tornando nazione», vale a dire illudendosi che restaurando la sovranità dello stato nazione in ambito monetario, economico, giuridico e militare si possa limitare il potere dei «mercati», delle «banche» (come? Mistero della fede nella nazione…). Ma soprattutto si spera di avere un accesso privilegiato alle risorse pubbliche in virtù di un privilegio etnico: «mi sono preso il disturbo di nascere italiano, bianco e cristiano, questo mi dovrà pur portare qualche vantaggio! Un posticino in una casa popolare, un sussidio, uno sgravio fiscale… mica dovrò contendermi questa roba, che dà il MIO STATO con negri e gentaccia con gli stracci in testa solo perché anche loro lavorano e pagano le tasse!».

In molte parti d’Europa, ad esempio nel Nord-est italiano, il «Torniamo Nazione» cambia connotati pur mantenendo intatta la sua essenza, ovvero al posto di una nazione già dotatasi di un proprio stato si fa riferimento a micro nazionalismi locali o etnici. Di qui fenomeni quali l’indipendentismo veneto, quello triestino, l’autonomismo trentino nelle sue declinazioni reazionarie (in diversi casi ospitate anche sotto il cappello del «centro-sinistra») e l’indipendentismo sudtirolese.

Cosa hanno in comune questi fenomeni, questi diversi fascismi, con quello che, solo ad un osservatore superficiale, sembrerebbe il loro arci-nemico: il nazionalismo delle nazioni già esistenti in quanto stati? Essenzialmente tre punti chiave:

1)      L’idea che sia esistita una originaria «purezza» della comunità (nazionale, etnica, locale, ecc…) e che in fondo ogni malanno derivi dalla sua fine a causa di fattori esterni alla comunità stessa: l’immigrazione, la «teoria del gender», l’Euro, la finanza «plutocratica», la massoneria, ecc ecc. L’idea di base è sempre la stessa: ogni società «complessa», ovvero che presenti differenti etnie, religioni, interessi, ideali e stili di vita sia profondamente sbagliata.

2)      La convinzione che la restaurazione di questa «purezza», sia attraverso la restaurazione di una sovranità nazionale oggi conculcata che attraverso la creazione di nuovi stati su base etnica o localistica, possa portare ripresa economica, benessere, ordine ecc. ecc.

3)      La volontà di instaurare una forma di «stato sociale» su base etnica («Prima gli italiani!») che consente di intercettare una fascia di bisogni e aspirazioni «di sinistra» e di renderli funzionali alla restaurazione della «purezza» originaria della comunità.

I vari slogan sul modello «Prima gli italiani!» o «Prima i trentini, i veneti, i triestini, ecc.»  riecheggiano sinistramente le parole di Hitler nel Mein Kampf :

 «deve essere ritenuto il massimo onore essere cittadino di questo Reich, anche se si è soltanto uno spazzino, piuttosto che essere re di uno stato straniero».

Dietro tutti gli slogan sulla nazione, l’onore, la razza, la tradizione, le radici ancestrali, ecc. si nasconde in realtà la pretesa di un privilegio dovuto «per diritto divino», di una patria ereditata dal passato e la cui cittadinanza dà diritto ad un posto di prima classe nel mondo. Occorre prestare grande attenzione a questo aspetto perché costituisce una contraddizione decisiva nella narrazione di tutti i fascismi: essi parlano di coraggio, audacia, eroismo, ecc ma di fatto propugnano una qualche forma di comunità (nazione, etnia, religione …) che di fatto libera l’individuo dal peso della responsabilità e che lo protegge impedendogli una reale crescita personale.

Per essere tra coloro degni di ereditare la patria cui aspirano i vari fascismi, non importa infatti essere intelligenti, coraggiosi, colti (anzi questo è proprio sconsigliato) o saper fare qualunque tipo di mestiere. Per partecipare del privilegio etnico basta appartenere all’etnia giusta, conformarsi allo stile di vita indicato e farsi strumento della «superiore» volontà della nazione (espressa dal duce di turno). Niente dubbi, niente faticosa ricerca di una verità personale cui si arriva attraverso l’esperienza e lo studio, nessun assunzione di responsabilità attraverso la condivisione di un ideale «di parte» (loro non sono «né di destra né di sinistra»), nessun conflitto interno alla mitica comunità e soprattutto nessun rischio di esser messi in concorrenza con chi né è al di fuori.

Questa è sostanzialmente l’essenza di ogni fascismo. Occorre mettere in chiaro che questa elaborazione ha avuto, ha ed avrà sempre dei seguaci ogni volta che si ripresenterà, perché sembra fatta apposta per andare a solleticare le peggiori pulsioni della piccola e media borghesia insoddisfatta, dei sottoproletari senza arte né parte, e più in generale di tutti i mediocri incapaci di un pensiero e di un’assunzione di responsabilità in proprio. In tempi di crisi economica, di instabilità politica o di minaccia militare questa visione del mondo sembra appetibile a molti perché ha il merito di offrire una soluzione semplice e comoda. Semplice perché evita di dover fare i conti con la complessità del reale, di dover studiare, discutere, ragionare e confrontarsi. Comoda perché consente di sentirsi dei «ribelli» senza però entrare in conflitto con alcun potere nella sua forma reale. Si vuole rovesciare lo stato, ma si tirano sassate sugli antifascisti protetti dagli scudi della celere. Si critica il capitalismo in generale, le banche, la finanza, ecc. ma poi di fatto si rifugge o si osteggia il conflitto reale sui luoghi di lavoro e ci si erge a difensori di una piccola proprietà basata sullo sfruttamento della forza-lavoro e sull’evasione fiscale. Ci si atteggia a vittime, a perseguitati, ma in realtà ci si accanisce sulle minoranze e sui soggetti più deboli della società.

I fascismi hanno anche la capacità di sfruttare una delle principali caratteristiche delle società a capitalismo avanzato: quella di essere formate da persone sole, non più inquadrate in organizzazioni «di massa» (partiti, sindacati, associazioni religiose, ecc.) realmente attive nella realtà di tutti i giorni. La mancanza di ogni capacità di immedesimazione in un’appartenenza o in un progetto collettivo appare uno dei più gravi problemi del nostro tempo. Un problema cui i fascisti di vario tipo offrono come sempre una comoda e falsa soluzione attraverso l’appartenenza ad una comunità militante mossa da istanze «mitologiche» (nazione, razza, religione, ecc) e pertanto irrazionali, «non negoziabili». In tal modo il disagio dell’individuo isolato, schiacciato ed oppresso dalla dimensione impersonale della società capitalistica, si risolve nella rinuncia alla libertà personale, al dubbio, alla ricerca, alla complessità. In breve ci si inventa una immaginaria divisa dietro la quale nascondersi.

Inoltre bisogna sempre tener presente che in una società priva di punti di riferimento e di forme di aggregazione collettiva una minoranza con un’ideologia netta che le fornisca compattezza ed aggressività può condizionare il discorso pubblico e spingersi sino ad imporre alla collettività il proprio potere. Come scrisse Gramsci nei «Quaderni dal carcere»

«Ettore Ciccotti, durante il governo Giolitti di prima del 1914, soleva spesso ricordare un episodio della guerra dei Trent’Anni: pare che 45 cavalieri ungari si fossero stabiliti nelle Fiandre e, poiché la popolazione era stata disarmata e demoralizzata dalla lunga guerra, siano riusciti per oltre sei mesi a tiranneggiare il paese. In realtà, in ogni occasione è possibile che sorgano “45 cavalieri ungari”, là dove non esiste un sistema protettivo delle popolazioni inermi, disperse, costrette al lavoro per vivere e quindi non in grado, in ogni momento, di respingere gli assalti, le scorrerie, le depredazioni, i colpi di mano eseguiti con un certo spirito di sistema e con un minimo di previsione “strategica”. Eppure, a quasi tutti pare impossibile che una situazione come questa da “45 cavalieri ungari” possa mai verificarsi: e in questa “miscredenza” è da vedere un documento di innocenza politica. Elementi di tale “miscredenza” sono specialmente una serie di “feticismi”, di idoli, primo fra tutti quello del “popolo” sempre fremente e generoso contro i tiranni e le oppressioni».

Non bisogna infine dimenticare un aspetto fondamentale: i fascismi hanno la capacità di costruire narrazioni unitarie capaci di disegnare forme di stato e modelli di società. In una parola essi pongono la questione del potere, cosa che le forze democratiche e rivoluzionarie (straziate dal governismo fine a sé stesso o dalla protesta fine a sé stessa) non fanno da molto tempo.

Occorre pertanto tornare a porre la questione del potere, tornare ad immaginare una nostra forma di stato entro cui possa compiersi l’emancipazione dei lavoratori e dell’umanità tutta. Una forma di stato il cui scopo fondamentale deve essere la difesa della complessità e la costruzione dell’uguaglianza. Non si può infatti parlare di tutela delle diversità culturali, religiose, di genere e di stile di vita se non su un piano di uguaglianza degli esseri umani.

Come ha scritto Wu Ming 1 nell’articolo Foucault in Iran. Rivoluzione, entropia, uguaglianza.

«E’ l’entropia dell’evento rivoluzionario a rivelare la famosa “ultima istanza” in cui è giustificato il ricorso all’universale, e quest’universale è l’idea di uguaglianza. Quella che – con un’iperbole che a Foucault non sarebbe piaciuta – Alain Badiou chiama “Idea Eterna”. Lo scacco di una rivoluzione si misura sempre nel suo cozzare contro quest’idea, nel suo non essere all’altezza di questo universale. Universale che, benché più volte incompreso, resta comprensibile a chiunque, perché comprensibili a chiunque sono le implicazioni del motto: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Se, pur con tutto lo sporcarsi le mani e le scelte gravose, una rivoluzione non mostra di puntare all’inveramento di questo motto, allora non è più niente, torna ad essere falso evento.
La vicenda di Foucault in Iran ha dunque molto da dirci: dimostra che un approccio anche fecondo e ricco di intuizioni non toccherà davvero il reale se non affronta il problema dell’universale. Che per me è come dire: il problema del comunismo.
Oggi l’universale viene rifiutato anche in ultima istanza, anche quando il ricorso ad esso è inevitabile. L’inizialmente giusto discorso delle “differenze” e delle “singolarità” si è trasformato in incontrollata proliferazione di nuove identità (nazionali, etniche, politiche, sottoculturali, sessuali). Sembra interdetta la ricerca di un “nocciolo” di esperienza comune all’intera specie umana, e di idee di eguaglianza e giustizia che valgano per tutti. Anche a sinistra, ogni universalismo è considerato a priori totalitario, come se il pericolo fosse ancora questo anziché la perniciosa cultura del tenere-lo-sguardo-basso e dell’ognuno-al-posto-suo. Perché è questo il significato di “tolleranza”, soprattutto oggi: sopportare l’altro purché non invada il mio spazio. Quello del tollerante è un “vade retro” più gentile di quello dell’intollerante, ma è comunque un vade retro. Ognuno rimanga nella sua nicchia, con un po’ di “discorso dei diritti” a far sì (chissà ancora per quanto) che la tensione non degeneri in guerra aperta, identità-contro-identità.
Bisogna tornare a porsi il problema dell’universale, senza per questo scordarsi della singolarità».

Difendere le minoranze etniche e religiose, difendere il diritto alla scelta della propria identità di genere, così come le libertà di stampa e di pensiero senza porre il problema dell’uguaglianza, senza ragionare sul piano dell’universale crea ghetti contrapposti e di non risolvere le crisi ambientale, economica e militare del nostro tempo. Per difendere davvero la complessità occorre inserirla in una  cornice di valori e pratiche che si pongano sul piano dell’universale e che siano pertanto in grado di dar vita ad una forma di organizzazione collettiva capace di far convivere su di un piano di uguaglianza e condivisione di un obiettivo universale le diversità presenti in una società complessa.

Porre la questione del potere per le forze democratiche e rivoluzionarie significa essere in grado di elaborare una propria forma di stato, saper immaginare gli aspetti-base di un modello di società nuovo, saper tracciare un recinto valoriale in grado di contenere in modo armonico le diversità presenti nella società, in modo da evitare che la complessità assuma la forma del caos spaventando la maggioranza delle persone. Occorre ammettere che è l’incapacità di porre la questione del potere, e quindi di porsi sul piano dell’universale, da parte delle forze democratiche e rivoluzionarie che sta portando al ritorno massiccio dei fascismi (vecchi e nuovi) in Europa. E occorre cercare di rimediare a questa incapacità ricostruendo innanzitutto un orizzonte teorico, tornando ad immaginare un modello di stato cui tendere.

Solo individuando una propria forma di stato i lavoratori (nel senso generico di produttori espropriati di valore) possono svolgere una funzione egemonica nei confronti della società tutta. Ed essere egemonici, nel senso gramsciano del termine, non significa imporsi con la prepotenza o far trionfare la propria visione del mondo con l’astuzia o con qualche sottile artifizio propagandistico, bensì porsi sul piano dell’universale facendosi carico dei problemi che segnano un periodo storico. Essere egemonici significa saper parlare e saper dare risposte anche a chi non la pensa come noi, imparare ad essere protagonisti della costruzione di un ordine nuovo che sappia comprendere istanze e punti di vista differenti. Essere egemonici significa compiere un’assunzione di responsabilità. Significa farsi carico della necessità di immaginare un futuro. Solo così potremo combattere efficacemente i morti viventi nazionalisti e razzisti.