I loro problemi sono le nostre buone occasioni

19 / 8 / 2019

Un tempo non troppo lontano agosto era il mese in cui si potevano risparmiare i soldi del giornale (i social erano di là da venire). Questo agosto invece la politica italiana ci ha regalato una serie di colpi di scena degni di una fiction, una specie di House of cards, ma girata dai fratelli Vanzina, quelli dei cinepanettoni.

La trama ruota tutta intorno al tentativo di Matteo Salvini di raggiungere la leadership indiscussa del paese. Ad ora la cosa è finita in farsa, ma non è detto che - nonostante tutti i suoi errori - non riesca a raggiungerla. Ma al di là della cronaca spicciola quanto accade, e la ridicola inadeguatezza del ceto politico italiano, deve spingerci a interrogarci sulle contraddizioni in seno al capitalismo e alle sue forme di governance per cercare di individuare quali possano essere i loro punti di rottura e quindi le possibilità di azione dell’autonomia di classe. 

Perché i loro problemi sono le nostre buone occasioni e, a guardar bene, di buone occasioni potremmo averne a bizzeffe nel breve-medio periodo. 

Una società putrescente

Innanzitutto chiediamoci quale tipo di società può aver prodotto una classe dirigente di tale infimo livello. Su «Il Corriere della Sera» Maurizio Ferrera, nell’articolo La base dei partiti populisti del 19.6.2019 lamentava:

«Gli italiani adulti che non hanno potuto completare gli studi al di là della licenza media o della maturità sono oggi il 40% (dati Eurostat): più del doppio di Francia e Germania, ove la grande maggioranza di elettori ha un diploma post-secondario. Anche la quota di lavoratori autonomi (il 21%, soprattutto commercianti, artigiani e in misura crescente partite Iva) è pari a due volte quella francese e tedesca. Le famiglie con un solo percettore di reddito sono il 40%: una quota davvero anomala in Europa (in Francia e Germania la percentuale è attorno al 25%; la media dell’Unione europea a 15 Paesi, è al 27%). Le donne adulte che stanno a casa sono il 35,7% (media Ue: 27%)».

Ovviamente il ragionamento di Ferrera è «i poveri sono ignoranti, brutti, sporchi e cattivi e quindi diventano populisti». Dimentica però un semplice dato di realtà: questi dati nascono dai rapporti sociali creati dalla declinazione italiana della governance neoliberale. Negli ultimi trent’anni la preoccupazione di tutti i governi è stata quella di porsi al servizio della classe imprenditoriale, di «rassicurare i mercati». Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la produttività del lavoro è ferma dal 2000, dal 1992 al 2017 la produzione di manifattura ad alta tecnologia è diminuita del 5% (mentre in Francia è aumentata del 84% e in Germania del 164%), il debito pubblico continua a salire e l’Italia è dal punto di vista demografico il secondo paese più vecchio al mondo (dopo il Giappone) mentre la pianura padana è l’area più inquinata d’Europa, insieme alla Polonia meridionale. Il palesarsi dell’arretratezza e dell’insostenibilità sociale e ambientale del capitalismo italiano non ha naturalmente impedito ai capitalisti di premiare sé stessi nel modo più generoso: l’1% della popolazione che controlla il 25% della ricchezza.

Non intendo dire naturalmente che questo sia «il neoliberismo», perché non esiste il «il neoliberismo» puro, o alcun altro fenomeno storico, liberato dalle contingenze di un dato tempo e di un dato luogo. Questa è semplicemente la declinazione concreta che il neoliberismo ha assunto nella realtà italiana. Senza dubbio vi possono essere dei liberali in buona fede che fanno notare, a ragione, quale sia il peso del denaro pubblico e quindi il peso della politica nel favorire questa o quella azienda, quali siano le colpe della burocrazia, quali siano le colpe delle scelte dei governi. Ma questo non cambia il dato di fondo, il liberismo non è solo una ricetta economica, è un metodo di governo di tutti i processi della società e l’applicazione di questo metodo, egemone a livello globale, sulla realtà italiana ha prodotto i risultati che abbiamo sotto gli occhi e data la situazione di partenza non poteva produrre risultati diversi. Ogni paese ha infatti la sua storia, la sua cultura e la sua società che filtrano l’applicazione in quella specifica realtà di fenomeni globali. E questo crea contraddizioni di cui è essenziale tenere conto per individuare le contraddizioni e i punti di frattura all’interno di un processo storico e di un sistema di potere. 

… e la sua putrescente ideologia

Questa struttura sociale ha partorito una propria sovrastruttura sotto forma di senso comune «sovranista» come usa dire oggi, in realtà semplicemente nazionalista e razzista. Ma anche qui bisogna stare attenti e non credere alle lamentazioni alzate al cielo dalla borghesia «progressista» sulla gretta ignoranza della plebe che conduce al «populismo». Le classi subalterne non sono ignoranti per natura, ma per l’appunto subalterne, ovvero subiscono l’egemonia delle narrazioni costruite dalle classi dominanti.

A livello globale la governance neoliberista si distingue dalle altre fasi storiche del capitalismo per la messa a valore di ogni aspetto della vita umana. Finora si è declinata senza tollerare alcuna limitazione di tipo riformista e per questo lo strumento stesso del riformismo, ovvero lo stato, è stato ridotto alla sua funzione essenziale di «braccio armato» e propagandista ideologico. Non potendo più giustificare la sua funzione con la ridistribuzione della ricchezza o con la capacità anche parziale di direzionare lo sviluppo economico, lo stato ha fatto della guerra, interna ed esterna, la sua unica ragion d’essere, creando nel lungo periodo le condizioni per un ritorno in fiamma dei nazionalismi, dei razzismi o dei fanatismi religiosi. 

Nel caso italiano, una volta venute meno le identità collettive della prima repubblica, si è cercato di inculcare nei cittadini un’ «identità nazionale» e una «memoria condivisa» che rappresentano il tentativo di seppellire definitivamente l’idea della «nazione di partiti» (secondo la definizione di Curiel) sorta dalla Resistenza. Questo neo-nazionalismo (i cui grandi sacerdoti sono stati Ciampi e Napolitano) è servito ideologicamente a giustificare la distruzione dei corpi intermedi e di ogni margine di protagonismo dal basso. Al posto delle difficoltose e concrete mediazioni della prima repubblica (entro cui, è bene ricordarlo, le classi lavoratrici potevano in qualche far pesare la propria soggettività) si è iniziato a teorizzare un astratto «bene del paese». Dapprima si è posto come mezzo per raggiungerlo una «concertazione» tra parti sociali strettamente regolamentata per non lasciar spazio a nessuna forma di protagonismo dal basso; poi è venuto il tempo in cui si è raccomandata la solerte ubbidienza ad élite imprenditoriali e «tecniche»; infine siamo giunti all’«avvocato del popolo» e al «capitano» che proteggono «gli italiani».

L’involuzione del discorso è stata accompagnata da una vera e propria degenerazione dell’identità collettiva degli italiani. Il giocattolo dell’«identità nazionale» è infatti ben presto sfuggito di mano ai cantori del «patriottismo democratico», che del resto nella storia del paese non ha mai trovato, da Mazzini in poi, una base di massa, finendo per diventare un’«italianità» declinata secondo criteri etnico-razziali che sembra ripresa dalla propaganda di Salò. D’altronde, una società con le caratteristiche di fondo di quella italiana non poteva che arrivare a questo, perché la via italiana al liberismo non poteva che produrre una massa di medio e piccolo borghesi sempre più impoveriti e delle classi lavoratrici che, oltre ad essere impoverite, sono pure state private di rappresentanza politica dal crollo di ogni prospettiva riformista.

Si è avuto così l’elaborazione di una narrazione razzista e passivo-aggressiva capace di tenere insieme il piccolo proprietario che vuole pagare meno tasse, il lavoratore spaventato dall’idea di perdere l’impiego e il disoccupato o il precario che si sente rassicurato dalla promessa di un welfare su base etnica. Un «prima i nostri» che significa in realtà «l’importante è che ce ne sia per me» perché non si vede altra strada per mantenere un livello di vita «accettabile» (ovvero tarato su di un concetto di benessere che è quello degli anni ’80)

Si può parlare di fascismo? Senza dubbio siamo in presenza di un «regime reazionario con sostegno di massa», secondo la definizione togliattiana, ma questo «sostegno di massa» in Europa e negli USA non può andare oltre il tifo da social o il voto perché il regime in questione non è una dittatura novecentesca ma un continuo adeguamento alle necessità «del mercato». Lo stato, almeno lo stato-nazione in Europa, non ha più alcuna sovranità reale, può solo mobilitare forza armata e consenso per reprimere i movimenti dal basso o indicare il capro espiatorio di turno.

I loro problemi

Se l’Italia appare per molti versi «in linea» con un clima politico globale che ha visto l’emergere di leader «sovranisti», dall’altro lato essa presenta caratteristiche sue proprie che sanciscono importanti differenze con gli altri paesi europei e che determinano la sua natura sia di «anello debole» che di «variabile impazzita» all’interno del sistema UE.

Il «sovranismo italiano» per ora si è rivolto unicamente contro migranti e movimenti di protesta visto che le disposizioni della Commissione Europea e dei trattati UE non sono mai state messe in discussione, ma la sua compatibilità con la governance europea non è affatto sicura. Occorre ricordare che esso ha delle proprie fragilità oggettive che nascono proprio da ciò che lo ha generato, vale a dire le debolezze strutturali del capitalismo italiano e la logica predatoria dei suoi gestori. 

Vi sono dei limiti oggettivi con i quali la proposta politica salviniana e l’ideologia che l’ha partorita deve fare i conti: innanzitutto il blocco sociale interclassista del nord che rappresenta il suo zoccolo duro si aspetta un’ «autonomia differenziata» che trasformerebbe il meridione in una sorta di stato fallito, pressappoco come la Somalia o la Libia (guarda caso ex-colonie italiane!), solo presidiato da truppe e forze dell’ordine italiane in una sorta di palese colonialismo interno. La cosa non può che avere ricadute devastanti sotto tutti i punti di vista: elettorale, istituzionale e alla lunga anche economico, ovvero metterebbe in forse la sopravvivenza stessa dello stato italiano.

Vi è poi il problema del rapporto con la governance capitalista a livello europeo. Senza dubbio la Commissione e il parlamento europei non faranno la guerra a Salvini in nome dei «valori democratici», ma non paiono neppure disposti a lasciargli sforare i vincoli di bilancio. E questo anche se la crisi dell’economia tedesca dovesse spingere la Germania stessa a farlo, soprattutto se fosse la stessa Germania a farlo. Lo sforamento dei vincoli da parte di Berlino significherebbe infatti un tentativo del capitalismo tedesco di rinnovarsi, forse in una qualche forma di (più o meno reale) «transazione ecologica», uno sforamento italiano sarebbe un tentativo di tenere a galla una barca che fa acqua da tutte le parti. Per quale motivo il resto d’Europa dovrebbe accollarsene i costi? 

Dall’altro lato o il governo italiano ha modo di spendere e spandere o sarà difficile evitare la completa distruzione di quanto rimane del welfare e un aumento dell’IVA distruttivo per l’economia reale. Tutto ciò comporterebbe un grosso problema per la tenuta del suo blocco sociale.

L’Italia è un problema per la governance capitalista europea, un problema che potrebbe far detonare tutte le contraddizioni politiche, sociali ed economiche dell’Unione. L’Italia non è l’Ungheria o la Polonia, nel concerto europeo è pur sempre, per quanto malconcia, «la più piccola delle grandi potenze» (come si diceva all’inizio del secolo scorso), la sua instabilità è un problema per l’intera UE, soprattutto nel quadro che si annuncia sempre più fosco per l’economia del continente e con tutte le problematiche che potrebbero emergere con un «hard brexit».

Naturalmente questo quadro è un problema per Salvini ma lo è anche per le forze politiche che gli contendono il potere, la crisi permanente del capitalismo italiano non fa sconti a nessuno. 

Le nostre buone occasioni

Per tutto questo era (ed è) utopismo riformista pensare di mettere alla crisi permanente del paese una pezza con un po' di «buona amministrazione e rispetto delle regole» così come era (ed è) utopismo massimalista credere che una confusa jaquerie (magari guidata dalla Casaleggio & associati) potesse (possa) mutare il quadro. La somma di questi due addendi di per sé sposta ben poco. 

È invece necessario il realismo rivoluzionario di un’avanguardia organizzata che sappia cogliere le contraddizioni del presente e guidare in modo consapevole la spinta dal basso che sorge dai bisogni e dalle lotte reali. È chiaro che non possiamo intendere l’avanguardia in un’accezione leninista “pura”, ma come capacità di cogliere in termini avanzati le contraddizioni del capitalismo contemporaneo: immanente alla classe, come intendeva Lenin, ma continuamente innervata da quell’eccedenza che pervade tutti gli ambiti della riproduzione sociale.

Questa avanguardia deve ragionare con finalità egemoniche, ovvero cercare di indicare alla maggioranza della società una soluzione realistica (e quindi rivoluzionaria, vista l’analisi di partenza) ai suoi problemi, ovvero indicare come uscire dalla situazione presente. Essere egemonici non significa rifiutare a priori le interlocuzioni con le varie espressioni del variegato mondo «progressista e democratico» o in generale con gli oppositori al salvinismo che non condividono le nostre posizioni, ma far sì che esse si volgano sul terreno del cambiamento reale e della mobilitazione dal basso. Non a caso Gramsci raccomandava di distanziarsi dal costume politico italiano unendo intransigenza e tolleranza, al posto delle «tradizionali» intolleranza e transigenza. Per intransigenza egli intendeva: «il non permettere che si adoperino, per il raggiungimento di un fine, mezzi non adeguati al fine o di natura diversa dal fine».

Questo cosa significa concretamente? Se vogliamo parlare di un’alleanza tra rivoluzionari e democratici (che ritengo sia necessaria) questa alleanza non può che essere fondata su un assunto molto semplice: la necessità della radicale ridefinizione della governance europea attraverso la liquidazione degli stati nazione, a cominciare da quello italiano. Cosa che del resto dovrebbe essere l’obbiettivo anche di quelli che sventolano il Manifesto di Ventotene, si fossero presi il disturbo di leggerlo lo saprebbero. Cosa potremmo infatti aspettarci da un presunto «riformismo» su scala nazionale? Nulla, per il semplice fatto che lo stato-nazione è oggi solo manganello e propaganda, ergo non è più uno strumento contendibile ai fascisti, è uno strumento che può essere usato davvero solo dai fascisti, prima lo si toglie dal tavolo meglio è per tutti.

La soluzione dei problemi reali può essere solo una soluzione europea, pertanto i problemi possono essere posti solo su scala europea. Ad oggi vi è un solo movimento in grado di farlo ed è quello contro il cambiamento climatico, di qui la sua importanza strategica, di qui la necessità di far sì che esso continui a svilupparsi in modo via via più radicale, evitando che tutto si risolva in un semplice greenwashing del liberismo.

Già da tempo in Italia i movimenti hanno intrecciato questo piano europeo con l’azione sulle realtà locali praticata attraverso la lotta e il mutualismo dal basso, non sto dicendo nulla di nuovo. Quello che però mi preme sottolineare è la necessità di uno sforzo teorico e organizzativo che riconnetta il piano dell’azione ad una complessiva visione del mondo in modo da cambiare le priorità nel discorso pubblico. 

La crisi italiana è originata dall’intreccio tra la crisi materiale del capitalismo italiano e la narrazione di sé egemone nella coscienza collettiva degli italiani. Non si potrà mai iniziare un discorso serio sui problemi del presente se non si individua la putrescente «italianità» odierna come primo ostacolo alla risoluzione di quei problemi. Finché il lavoratore italiano sognerà di risolvere i suoi problemi prendendosi le briciole di uno stato sociale su base etnica che escluda i migranti, finché staremo a parlare della «percezione di insicurezza» di chi lamenta d’aver visto un po' di facce nere ai giardinetti, finché durerà il feticismo dei confini e dello stato-nazione non avremo vere possibilità di costruire alternative all’esistente. 

La crisi del capitalismo italiano ed il quadro europeo ci possono fornire delle buone occasioni, ma per coglierle dobbiamo essere capaci di declinare l’autonomia di classe all’interno di un’identità più ampia, in modo che essa possa realmente diventare egemone. Si tratta di porre le basi per un’identità collettiva «ampia», finalmente liberata dalla pretesa unità mistica di stato-territorio-popolo, dalla ricerca totalitaria dell’uniformità etnico-linguistica, dai confini e dalle istituzioni degli stati-nazione.

Questo ragionamento sull’identità è alla base di buona parte della teorizzazione sul confederalismo democratico svolta dal movimento rivoluzionario curdo, non a caso partendo dall’attualizzazione del pensiero di Gramsci presente in molte delle riflessioni di Ocalan.

Nei Quaderni dal carcere proprio Gramsci per contrapporsi all’imperialismo e al nazionalismo fascisti evocò l’idea di una identità cosmopolita degli italiani che affondava le sue radici nei lasciti dell’antica Roma, nell’universalismo cattolico e si concretizzava nell’esperienza reale di milioni e milioni di emigranti: 

«Il popolo italiano è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo. Non solo l’operaio, ma il contadino, e specialmente il contadino meridionale. Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente e appropriarsi del frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto come popolo italiano. […] La “missione” del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale nella sua forma più moderna ed avanzata». 

Riprendere ed attualizzare questo discorso oggi, a fronte di una classe lavoratrice che è multirazziale, multiculturale e multireligiosa e di problemi strutturali che possono essere affrontati solo sul piano europeo è più necessario che mai.