I movimenti nel tempo dei populismi

8 / 3 / 2018

Siamo nella Terza Repubblica. Questo, almeno, è la sintesi che si coglie dalle tante analisi politiche che si sono sprecate in questi giorni. Probabilmente è vero, anche se è altrettanto vero che la fine degli equilibri bipolari della cosiddetta Seconda Repubblica è iniziata con la stagione dei governi commissari che, da Monti a Gentiloni, ha profondamente ridisegnato la geografia del potere e delle condizioni politiche nel nostro Paese.

È talmente semplice il quadro politico che emerge dalle elezioni legislative da apparire quasi disarmante. Trionfano le forze che più di altre hanno incarnato e rappresentato la “ragione” populista secondo diverse sfaccettature, innescando una competizione per l’egemonia tra forme concorrenti di populismo; perdono ampiamente quelle che – come il Pd e, in misura minore, Forza Italia – si sono identificate con l’establishment continentale della crisi, scompaiono dalla cartografia le alternative – o pseudo-tali – di “sinistra”.

Ciononostante, nessuna delle due forze che hanno annunciato la vittoria elettorale – il Movimento 5 Stelle e la coalizione di centro-destra a traino leghista – potrà esprimere direttamente una compagine di governo. Storture di una legge elettorale, concepita per garantire una continuità in termini di governamentalità europea, ma assolutamente incapace di reggere gli urti all’interno di un quadro tripolare da tempo emerso come instabile e fragile.

L’onda “nera” del fascio-leghismo

Al netto di una composizione sociale del voto ancora tutta da decifrare in profondità, il primo dato che balza all’occhio è una suddivisione territoriale abbastanza nitida tra un Nord dove a farla da padrona è il centro-destra e il Meridione che ha visto in quasi tutti i collegi uninominali l’affermazione pentastellata. Proprio all’interno del centro-destra si è giocata, a favore di Salvini, una delle partite interne considerate più in bilico. La schiacciante vittoria della Lega nei confronti del competitor forzista è probabilmente il dato più evidente di quello spostamento a destra della retorica discorsiva e dell’orizzonte politico che ha egemonizzato il campo conservatore quasi in tutta Europa. Sovranismo e neo-nazionalismo sono i tratti più qualificanti di una destra che abdica alla propria vocazione neoliberale, diventando il motore politico di un corso reazionario in rapida espansione. Da tempo il leader del Carroccio ha in mente un modello: quello lepenista, che ha reinterpretato il fascismo nel tempo della crisi della rappresentanza. Non stupisce affatto che la Lega, dopo la nazionalizzazione tattica che le ha dato l’aspetto del «nuovo», prenda valanghe di voti anche nei collegi di Roma o addirittura al Sud, come non stupisce che sia riuscita a cannibalizzare il voto dell’estrema destra, rendendo miserevole la partecipazione elettorale delle liste dichiaratamente neofasciste.

Dopotutto, l’aumento vertiginoso dei consensi alla Lega vede i propri semi nella colonizzazione che il razzismo istituzionale e sociale ha fatto nel campo della politica. Il razzismo condito da misure sulla sicurezza urbana e da accordi criminali con Paesi terzi; il razzismo dell’ «aiutiamoli a casa loro»; il razzismo del sistema di accoglienza che svilisce i migranti costringendoli alla povertà e in dei non-luoghi avulsi dagli spazi della cittadinanza; il razzismo che uccide e umilia le persone nere e di altre nazionalità; il razzismo che ha bisogno del nemico per creare il popolo italiano, unito nella strenua difesa dei propri privilegi che hanno davvero poco a che fare con la povertà materiale, ma tanto con le posizioni di potere economico e simbolico. Diventa ben poco sorprendente l’ascesa nazional-leghista, gradazione più chiara e efficace di un razzismo bianco propugnato da quasi tutte le formazioni politiche, ad eccezione di ben poche. Possiamo dire senza tanti giri di parole che, al di là delle percentuali relative, il razzismo si afferma come forza politica e sociale nelle urne di questa domenica. In questo senso, ci sembra di vedere un vero e proprio «contraccolpo» della parte del Paese più reazionaria di fronte alle mutazioni del presente, non solo quelle portate dall’austerità e dall’abbassamento del costo del lavoro, ma anche da quelle che accompagnano l’estensione della democrazia e dei diritti.

La quintessenza del populismo

Più complessa la lettura che accompagna l’affermazione del M5S, largamente primo partito del Paese. Se è vero che ci sono tratti reazionari all’interno del programma elettorale pentastellato che lo annoverano all’interno del ventaglio del razzismo elettorale, è vero anche che ridurre il suo elettorato ad una cultura politica “di destra” rischierebbe di banalizzare l’analisi. Il M5S, soprattutto al Sud, ha rappresentato sia il voto utile di argine all’avanzata del centrodestra e del centrosinistra, sia la scelta ponderata della rottura con l’ordine dominante delle élite. Molti membri delle sue basi sono presenti all’interno dei comitati territoriali e ambientali, sono portatori delle rivendicazioni della scuola, hanno attraversato le lotte degli ultimi anni. Il richiamo del M5S alle misure di previdenza sociale come il reddito di cittadinanza, sebbene in una forma lavorista e escludente verso i non autoctoni, ha intercettato un’ampia rivendicazione dei movimenti organizzati dei precari che si è fatta, non senza ambiguità, sempre più generale. Alcuni lemmi e alcune proposte del programma pentastellato provengono direttamente dal ciclo di mobilitazioni contro l’austerity iniziato, ormai, quasi dieci anni fa. Da dove prende le mosse il M5S? Da quale rottura rispetto al progresso liberal-democratico e al dogma del pareggio di bilancio? Il Movimento dell’Onda, e i successivi cicli di mobilitazione precaria e in difesa dei beni comuni, hanno per primi identificato nei governi centristi i responsabili della dismissione del welfare e della cancellazione dei diritti sul lavoro. La rottura, la polarizzazione contro le élite e i poteri della politica e della finanze, si era già prodotta da tempo a livello sociale grazie al conflitto espresso da una moltitudine di giovani/e precari/e e di lavoratori/trici. Come sappiamo, il M5S ha compiuto un’appropriazione indebita di quel portato, snaturandolo e facendolo deflagrare grazie alla sfiducia ultima nei confronti della rappresentanza tradizionale – già annunciata dai movimenti stessi. Non per niente, il voto pentastellato ha interessato largamente la fascia giovanile e quella dei disoccupati, che hanno votato in massa per l’opzione pentastellata, come spiega un analisi del voto fatta da Tecnè. Le fasce di età maggiormente interessata è quella che va dai 18 ai 30 e dai 30 ai 40: esattamente coloro che, in maniera più o meno attiva, hanno partecipato o esperito la prima fase di mobilitazione contro l’austerità.

Dall’altra parte, sotto al lemma comune dell’interesse nazionale e di una timidissima redistribuzione del reddito, i grillini sono riusciti a dare la parvenza di un’identità di popolo made-in-Italy in cui il lavoro, il welfare, alcuni diritti civili, la sicurezza sociale possano essere garantiti. Agli italiani, naturalmente. Poco importa la distinzione e il conflitto di classe. Che sia contro l’Europa o contro gli altri partiti della casta, che sia contro lo Stato ingiusto o contro i migranti, l’importante è che ci sia un nemico esterno o usurpatore contro cui sostanziare la propria identità. È così che il M5S è riuscito, in ultima istanza, a capitalizzare anche il voto da sinistra quando ha ritrattato la sua posizione nei confronti dell’euro in uno slancio di realpolitik. È la quintessenza del populismo contemporaneo: un partito in grado di innescare un patto sociale implicito tra una parte di ceto imprenditoriale, la media borghesia polverizzata e fasce di precariato senza che abbia alcuna connotazione in termini di emancipazione di classe.

Troppo semplicistico risulta, dunque, bollare questo successo elettorale come la vittoria del post-ideologico, del definitivo tramonto di un binomio destra/sinistra, o progressismo/conservatorismo, come unica rappresentazione della dialettica politica istituzionale. È nella capacità di captare il rifiuto di un ordine attuale, per veicolarlo all’interno di un codice eterogeneo e di un contenitore ambizioso, che si coglie il crack operato dai 5 Stelle. La sfiducia verso l’ordine attuale, annunciata da una neanche troppa «rabbia latente» dell’elettorato, si avvale infatti di retorica populista, di un linguaggio atto a infondere certe emozioni e far nascere un certo popolo, così come di riprese di elementi ideologici tanto del nazionalismo quanto della social-democrazia.  Un’universalità astratta in cui tutti e tutte possono trovare il proprio posto soprattutto durante la campagna elettorale e l’opposizione parlamentare, ma che successivamente al «momento populista» inizia a far crollare le proprie fondamenta, rivelando che qualcuno si è preso un posto più comodo a scapito degli altri; e che un nuovo establishment si è solamente sostituito a quello vecchio.

Le ceneri di Gramsci

Il rovescio della medaglia è la debacle del Partito Democratico, probabilmente già scritta esattamente 15 mesi fa, all’indomani della netta sconfitta del “Sì” al referendum costituzionale. Il Pd si attesta su quelle che sono le percentuali delle altre forze “social-democratiche” a livello europeo, all’interno di una crisi che investe in pieno l’opzione politica che, a livello continentale, più di ogni altra ha risposto agli interessi della governance europea. In termini assoluti questo si traduce in oltre 2 milioni e mezzo di voti persi rispetto al 2013. Ma è una sconfitta che conta soprattutto in termini politici, non solo perché sottolinea il fallimento definitivo del progetto renziano di commissariare il Paese attraverso il moto perpetuo dell’estremismo di centro, ma soprattutto perché viene bocciata senza appello quella costituente dall’alto che i tre governi a guida Pd hanno compiuto durante la passata legislatura. Una costituente che ha modificato irreversibilmente la configurazione dei poteri all’interno degli assetti giuridico-istituzionali e ha contratto in maniera organica lo spazio dei diritti e delle libertà. La pantomima delle dimissioni di Renzi prima annunciate, poi smentite, infine congelate, elude anche una parvenza di dignità nella sconfitta. Sfuggendo alla retorica del «chi viene dopo è peggio», va detto con estrema franchezza liberatoria che il tracollo del Pd è un bene assoluto, per il Paese e in particolare per i movimenti.

Il quadro è completato dalla dissoluzione definitiva di un’opzione a sinistra del Partito Democratico. Completamente fallita l’operazione di rimpasto cetuale che ha portato alla nascita del cartello Liberi e Uguali. LeU ha raggiunto a stento il traguardo dello sbarramento dopo essersi auto-accreditata, quantomeno nelle intenzioni iniziali, la doppia cifra. Potere al Popolo rimane molto distante da quella percentuale del 3% che era obiettivo dichiarato, seppur oggettivamente difficile da raggiungere.

Non è l’anno zero

È evidente che lo spazio di ricostituzione della sinistra si è sgretolato. Questo lo si legge in almeno due fattori. Il primo riguarda la strozzatura che, nei collegi uninominali, si è data tra la miriade di lotte territoriali e le forze politiche che, a sinistra, si sono candidate a rappresentarle e che in nessun luogo raggiungono risultati significativi; il secondo è che la disponibilità al conflitto che abbiamo avuto nelle ultime settimane in tante piazze italiane, in particolare a partire dai trentamila di Macerata, non si traduce letteralmente in preferenze elettorali.

Tutto questo non significa che le forme di movimentazione sociale sono, per loro natura, irrappresentabili. L’alternativa sistemica, anti-capitalista, si pone da sempre su un piano di complessità rispetto agli strumenti a disposizione, che vedono il sociale e il politico intrecciarsi costantemente. L’evento elettorale va letto sempre in termini relativi e la crisi della sinistra non la disveliamo certamente il 4 marzo 2018; non ci uniamo al coro del de profundis, né contempliamo qualsivoglia velleità di supplenza nei confronti di una tradizione politica definitivamente sepolta in un substrato archeologico.

Chi ambisce a una trasformazione del presente non deve farsi coinvolgere dalla sindrome da “anno zero” che campeggia tra le macerie della sinistra. In questi anni, in Italia come nel resto del mondo, si sono sedimentate diverse lotte che provano a sovvertire le relazioni di potere fondate sulla razzializzazione, sul patriarcato, sul securitarismo, ma anche sull’estrazione continua di risorse dall’ambiente e dalla vita. Lotte che parlano di forme di vita alternative a quelle del capitalismo e che hanno visto nell’eccedenza di piazza avvenuta in tutto il Paese dopo Macerata un interessante terreno di soggettivazione.

Il quadro che emerge dalle urne si configura come estremamente fluido, non solo perché manca al momento una chiara opzione governativa, ma perché non individua blocchi politici inossidabili. Questo lo dimostrano i flussi elettorali in sensibile aumento, ma è caratteristica intrinseca allo stesso “momento” populista. Se i populismi tendono a fagocitare linguaggi, sentimenti ed espressioni della moltitudine, i movimenti devono avere innanzitutto l’ambizione di ridare al bios una prospettiva dirompente e performativa. Il punto principale della questione è capire le potenzialità di un’iniziativa autonoma, all’interno della fase attuale e dentro una prospettiva di medio-lungo periodo. Potenzialità che non attengono solamente al piano soggettivo delle cosiddette “strutture” di movimento, ma riguardano la capacità di trasformare in potere costituente le lotte, i rivoli di resistenza, i legami sociali. L’assemblea di sabato 10 marzo ad Ancona rappresenta un momento importante per mettere in comune elaborazioni, intuizioni e disponibilità al conflitto, interpretando lo spirito che sottende alla chiamata senza alcuna retorica, ma come ipotesi di possibilità.