Proprio ora. Ora che ci sarebbe più
bisogno di noi…
La radicale trasformazione sociale che ha
subito il nostro paese negli ultimi vent’anni, unitamente ala crisi
economica strutturale, cioè di sistema, tuttora in corso, hanno dato
vita a una società complessa che ha reso inutili i processi
progettuali predefiniti, le operatività con il pilota automatico.
Oggi la parola disagio si declina al plurale. E necessita di risposte
durevoli nel tempo.
Proprio ora. Ora che ci sarebbe più
bisogno di noi… di operatori che sappiano creare sviluppi
progettuali permanenti e assumersi la cura e la gestione delle
persone per aiutarle a raggiungere una ridefinizione
del sé, trasmettendo loro una nuova
consapevolezza delle priorità, in poche parole operatori che
sappiano progettare percorsi educativi globali d’inclusione.
Proprio ora. Ora che ci sarebbe più bisogno di
noi…
Proprio ora il lavoro sociale (o più correttamente,
quello educativo) sta attraversando una profonda crisi che può
mettere a serio repentaglio la sua stessa esistenza in un futuro non
lontano. Vien quasi da pensare che siamo i “fortunati”
protagonisti di una prima volta: nella storia delle occupazioni umane
ad una crescente domanda (la disgregazione del tessuto sociale dei
territori parla chiaro) di una certa professionalità oggi non
corrisponde la risposta più logica, quella del rafforzamento in
termini di offerta quantitativa e qualitativa di quella stessa
professionalità.
Già si intravedono le
strade del futuro: affidarsi alla buona volontà e al basso costo del
volontariato e dell’associazionismo improvvisato per quel che
riguarda l’approccio educativo sui minori, operare sull’emergenza
erogando una tantum “elemosine” alle loro famiglie, palliativi
che serviranno tutt’al più a far pagare qualche bolletta arretrata
nell’immediato, ma non certo a prendere in carico globalmente le
persone nella loro complessità (l’integrazione sociale, che è
processo e non approdo, è l’unica alternativa possibile
all’assistenzialismo). Non ci stupiamo che tali
propositi alloggino in pianta stabile nell’orizzonte ideologico di
chi ci sta governando, più amarezza ci fa una sinistra che propugna
ormai come sua diversità qualificante unicamente una buona
amministrazione priva di qualsiasi idealità protesa verso il
futuro.
Siamo dunque giunti alla fine del lavoro
sociale in Italia?
Il sociologo francese
Eugene Enriquez, in uno studio di qualche anno fa sulla
trasformazione del lavoro sociale in Italia, ne individua i passaggi
essenziali: il primo, dal secondo dopoguerra agli anni settanta
quando, sulla spinta delle due idealità forti del tempo (quella
d’ispirazione cristiana e quella d’ispirazione marxista), si
sviluppa l’idea dell’inclusione totale: tutti gli individui,
ciascuno in base alle proprie competenze e possibilità poteva e
doveva avere una funzione sociale, un ruolo propulsivo all’interno
della società; la seconda che parte dalla fine degli anni settanta
quando, con la crisi delle grandi fabbriche e i conseguenti
licenziamenti, per la prima volta si ritiene ammissibile il pensiero
che l’individuo possa essere socialmente espulso.
La società
neoliberista che prende corpo durante gli anni ottanta, certa della
spinta inesauribile dell’energia propulsiva del consumismo,
riteneva di essere in grado di prevedere all’assistenza di quel 20%
di persone che rimangono ai margini del sistema produttivo.
La crisi attuale è anche la crisi di quell’illusione, peraltro già presagita in tempi non sospetti da alcuni studiosi più lungimiranti (la società dei 2/3 di Peter Glotz).
Noi siamo dentro questa crisi. Pienamente. I segnali sono inequivocabili: previsioni di tagli ovunque, colleghi che non percepiscono gli stipendi da mesi, la precarietà come tratto distintivo del lavoro sociale non fa più neppure notizia, non merita nemmeno due colonne sul giornale canterebbe il buon Guccini.
Oggi noi educatori siamo di fronte a due possibilità e dobbiamo necessariamente operare una scelta: da una parte continuare la nostra tenace e legittima resistenza territoriale per continuare a garantire ai cittadini che più ne hanno bisogno i servizi di cui siamo storicamente portatori, rischiando tuttavia di impantanarci in una disputa localistica con gli interlocutori istituzionali a noi più prossimi che continueranno a ripetere all’infinito il ritornello “non ci sono soldi, hanno tagliato tutto” (basti pensare che una “chiamata alle armi” con toni disperati è arrivata nei giorni scorsi anche dall’Assessora Regionale Marzocchi), dall’altra unire il nostro microcosmo ai tanti altri che stanno sorgendo un po’ ovunque sul territorio nazionale per generare modi innovativi di fronteggiare la crisi. Penso alle esperienze dei comitati che hanno portato alla vittoria dei recenti referendum e a quelli che si battono per uno sviluppo sostenibile, alla galassia di idee, associazioni e movimenti che hanno dato vita a “Uniti contro la crisi”, all’ereticismo politico che ha portato recentemente alle vittorie elettorali di candidati inizialmente osteggiati dai partiti tradizionali, a tutti quelli che banalmente credono che la storia si fa e non si debba solamente subire. Per dirla con una terminologia molto in voga di questi tempi, dare vita ad azioni di governance (dal basso) per sostituire quelle di government (dall’alto). In questo contenitore identitario più ampio noi potremmo portare il nostro sapere (che è molto, l’abbiamo ripetuto ovunque, siamo la categoria più formata e meno pagata del paese), la nostra indignazione e soprattutto la nostra umanità.
Non dimentichiamoci che siamo noi la figura professionale più indicata, quella che grazie alla sua versatilità racchiude in sé le funzioni necessarie (educativa, assistenziale, organizzativa e di ricerca, come da Decreto Ministeriale n.520/98) per governare i processi di trasformazione permanente.
Di certo non staremo “beckettianamente” con le mani in mano in attesa di qualcosa o di qualcuno che si preoccupi per noi, Rosa Luxemburg diceva che solo l’uomo che si muove si rende conto delle sue catene e dunque le può spezzare.
In fondo è questo l’unico vero insegnamento che abbiamo sempre cercato di trasmettere con il nostro lavoro ai ragazzi che abbiamo seguito, gli ultimi nella graduatoria sociale. E l’abbiamo fatto dalla nostra posizione, quella di penultimi.
Laddove non vogliamo più stare.
*Coordinamento Educatori contro i Tagli - Bologna