Crisi e sociale

I penultimi

di Paolo “Coce” Coceancig*

26 / 8 / 2011

Proprio ora. Ora che ci sarebbe più bisogno di noi…

La radicale trasformazione sociale che ha subito il nostro paese negli ultimi vent’anni, unitamente ala crisi economica strutturale, cioè di sistema, tuttora in corso, hanno dato vita a una società complessa che ha reso inutili i processi progettuali predefiniti, le operatività con il pilota automatico. Oggi la parola disagio si declina al plurale. E necessita di risposte durevoli nel tempo.

Proprio ora. Ora che ci sarebbe più bisogno di noi… di operatori che sappiano creare sviluppi progettuali permanenti e assumersi la cura e la gestione delle persone per aiutarle a raggiungere una ridefinizione del sé, trasmettendo loro una nuova consapevolezza delle priorità, in poche parole operatori che sappiano progettare percorsi educativi globali d’inclusione. 

Proprio ora. Ora che ci sarebbe più bisogno di noi…

Proprio ora il lavoro sociale (o più correttamente, quello educativo) sta attraversando una profonda crisi che può mettere a serio repentaglio la sua stessa esistenza in un futuro non lontano. Vien quasi da pensare che siamo i “fortunati” protagonisti di una prima volta: nella storia delle occupazioni umane ad una crescente domanda (la disgregazione del tessuto sociale dei territori parla chiaro) di una certa professionalità  oggi non corrisponde la risposta più logica, quella del rafforzamento in termini di offerta quantitativa e qualitativa di quella stessa professionalità.

Già si intravedono le strade del futuro: affidarsi alla buona volontà e al basso costo del volontariato e dell’associazionismo improvvisato per quel che riguarda l’approccio educativo sui minori, operare sull’emergenza erogando una tantum “elemosine” alle loro famiglie, palliativi che serviranno tutt’al più a far pagare qualche bolletta arretrata nell’immediato, ma non certo a prendere in carico globalmente le persone nella loro complessità (l’integrazione sociale, che è processo e non approdo, è l’unica alternativa possibile
all’assistenzialismo). Non ci stupiamo che tali propositi alloggino in pianta stabile nell’orizzonte ideologico di chi ci sta governando, più amarezza ci fa una sinistra che propugna ormai come sua diversità qualificante unicamente una buona amministrazione priva di qualsiasi idealità protesa verso il futuro.

Siamo dunque giunti alla fine del lavoro sociale in Italia?

Il sociologo francese Eugene Enriquez, in uno studio di qualche anno fa sulla trasformazione del lavoro sociale in Italia, ne individua i passaggi essenziali: il primo, dal secondo dopoguerra agli anni settanta quando, sulla spinta delle due idealità forti del tempo (quella d’ispirazione cristiana e quella d’ispirazione marxista), si sviluppa l’idea dell’inclusione totale: tutti gli individui, ciascuno in base alle proprie competenze e possibilità poteva e doveva avere una funzione sociale, un ruolo propulsivo all’interno della società; la seconda che parte dalla fine degli anni settanta quando, con la crisi delle grandi fabbriche e i conseguenti licenziamenti, per la prima volta si ritiene ammissibile il pensiero che l’individuo possa essere socialmente espulso.

La società neoliberista che prende corpo durante gli anni ottanta, certa della spinta inesauribile dell’energia propulsiva del consumismo, riteneva di essere in grado di prevedere all’assistenza di quel 20% di persone che rimangono ai margini del sistema produttivo.

La crisi attuale è anche la crisi di quell’illusione, peraltro già presagita in tempi non sospetti da alcuni studiosi più lungimiranti (la società dei 2/3 di Peter Glotz).

Noi siamo dentro questa crisi. Pienamente. I segnali sono inequivocabili: previsioni di tagli ovunque, colleghi che non percepiscono gli stipendi da mesi, la precarietà come tratto distintivo del lavoro sociale non fa più neppure notizia, non merita nemmeno due colonne sul giornale canterebbe il buon Guccini.

Oggi noi educatori siamo di fronte a due possibilità e dobbiamo necessariamente operare una scelta: da una parte continuare la nostra tenace e legittima resistenza territoriale per continuare a garantire ai cittadini che più ne hanno bisogno i servizi di cui siamo storicamente portatori, rischiando tuttavia di impantanarci in una disputa localistica con gli interlocutori istituzionali a noi più prossimi che continueranno a ripetere all’infinito il ritornello “non ci sono soldi, hanno tagliato tutto” (basti pensare che una “chiamata alle armi” con toni disperati è arrivata nei giorni scorsi anche dall’Assessora Regionale Marzocchi), dall’altra unire il nostro microcosmo ai tanti altri che stanno sorgendo un po’ ovunque sul territorio nazionale per generare modi innovativi di fronteggiare la crisi. Penso alle esperienze dei comitati che hanno portato alla vittoria dei recenti referendum e a quelli che si battono per uno sviluppo sostenibile, alla galassia di idee, associazioni e movimenti che hanno dato vita a “Uniti contro la crisi”, all’ereticismo politico che ha portato recentemente alle vittorie elettorali di candidati inizialmente osteggiati dai partiti tradizionali, a tutti quelli che banalmente credono che la storia si fa e non si debba solamente subire. Per dirla con una terminologia molto in voga di questi tempi, dare vita ad azioni di governance (dal basso) per sostituire quelle di government (dall’alto). In questo contenitore identitario più ampio noi potremmo portare il nostro sapere (che è molto, l’abbiamo ripetuto ovunque, siamo la categoria più formata e meno pagata del paese), la nostra indignazione e soprattutto la nostra umanità.

Non dimentichiamoci che siamo noi la figura professionale più indicata, quella che grazie alla sua versatilità racchiude in sé le funzioni necessarie (educativa, assistenziale, organizzativa e di ricerca, come da Decreto Ministeriale n.520/98) per governare i processi di trasformazione permanente.

Di certo non staremo “beckettianamente” con le mani in mano in attesa di qualcosa o di qualcuno che si preoccupi per noi, Rosa Luxemburg diceva che solo l’uomo che si muove si rende conto delle sue catene e dunque le può spezzare.

In fondo è questo l’unico vero insegnamento che abbiamo sempre cercato di trasmettere con il nostro lavoro ai ragazzi che abbiamo seguito, gli ultimi nella graduatoria sociale. E l’abbiamo fatto dalla nostra posizione, quella di penultimi.

Laddove non vogliamo più stare.


*Coordinamento Educatori contro i Tagli - Bologna