I referendum? Solo l'inizio

11 / 6 / 2011

È successo. Nessuno l'avrebbe mai detto, ne immaginato. Che i movimenti per i beni comuni ed i comitati sarebbero riusciti ad aprire un dibattito così grande e partecipato nel paese è stato per molti un evento inaspettato.

Il 12 e 13 giugno milioni di persone si pronunceranno su questioni fondamentali e costituenti come acqua, energia, servizi basici, grazie al lavoro quotidiano di decine di migliaia di attivisti. Se l'Italia finalmente riscopre temi centrali per la politica e la vita di tutti e tutte lo deve alla passione ed alla capacità di movimenti e comitati che hanno in questi ultimi dieci anni costruito vertenze, mobilitazioni, approfondimenti, ricerche e dibattiti. Tanti ne sono passati per molti di noi quando, a partire dal dibattito sul G8 di Genova, abbiamo criticato l'incapacità della politica classica di guardare ai mutamenti epocali che stavano investendo già gran parte del mondo e che da qualche anno a questa parte hanno travolto anche il nostro paese.

Una critica a cui si accompagnavano proposte e necessità urgenti alle quali dare risposte. Risposte che non sono arrivate e che hanno aggravato la dimensione dell'impatto della crisi. Una crisi che si sarebbe potuta prevedere, attutire ed utilizzare persino come opportunità sulla quale costruire la transizione da un modello capitalista obsoleto ed insostenibile ad uno più giusto socialmente ed ecologicamente compatibile. Invece si è sprecata un'opportunità e ci auguriamo adesso che almeno non si sprechi la lezione che da questo decennio di miopia si può trarre.Il primo insegnamento da cogliere ci arriva da una fotografia fatta dai Rapporti del Censis. Fine di un ciclo politico che è solo parte della fine di un "ciclo sociale" più lungo. Questo sostiene De Rita, presidente del Censis (vedi il manifesto dell'8 giugno, intervista di Ida Dominijanni). Un disagio sociale ed economico per nulla indagato dalla politica, iniziato da prima del periodo berlusconiano, conseguenza di un modello centrato su una cultura individualista. Berlusconi ha nei suoi programmi ed atteggiamenti personali, come sostiene De Rita, solo cavalcato la cultura del «tutto è mio». Cultura dunque preesistente dalla quale sono scaturite come naturali conseguenze le privatizzazioni, l'individualismo democratico, la finanziarizzazione dell'economia prima ed addirittura della natura poi, la riduzione completa del lavoro a merce, l'atomizzazione sociale e la riduzione delle istituzioni a ostacoli burocratici da superare.Insomma, l'humus ideologico che ci ha portato sino a qui ed ha consentito "culturalmente" la privatizzazione dell'acqua o la demolizione dei principi costituzionali non è certo il berlusconismo, come molti credono. Governo e opposizione sono stati troppo a lungo uniti nell'essere ostaggio di un'ideologia che vede nel liberismo e nella finanza l'unico orizzonte possibile. Il sacrificio della res publica e del ruolo della politica nella società sono state le conseguenze. L'assenza di questi corpi intermedi ha reso possibile allo stesso tempo la nascita di nuove soggettività della politica che hanno iniziato a rappresentare da soli istanze forti legate al nesso tra democrazia, beni comuni e benessere generale.

L'esercizio della delega lasciava il posto in questi anni all'autogoverno, alla democrazia comunitaria e partecipata. Così come la monocultura della mente veniva sostituita da una policromia di pensieri e saperi. Quanta hanno contribuito nello sviluppo dei comitati per l'acqua e dei beni comuni la capacità di riscattare l'educazione popolare e la partecipazione comunitaria? Così come il rifiuto dell'avanguardismo politico è stato uno degli elementi del successo di molte soggettività impegnate nella ricostruzione di un nuovo linguaggio e di nuove pratiche della politica. Com'è stata possibile una crescita dal basso così grande? Solo per l'abilità di coloro che animano le nuove soggettività? Certamente no. Il contesto e l'impoverimento reale creato dalla crisi ha reso maggiormente "desiderabili" le proposte e la presenza di un nuovo modo di fare politica nei territori.

Questo è il secondo elemento/insegnamento della riflessione: in Italia c'è una questione sociale enorme. Se non ci cambia subito strada il nostro è un paese senza futuro che condannerà alla precarietà a vita tutti, giovani e meno giovani.Lo studio presentato in questi giorni dalla Facoltà di Economia dell'Università La Sapienza di Roma non lascia dubbi. Una situazione drammatica, nella quale bisogna intervenire garantendo un reddito minimo ai milioni di precari, una copertura previdenziale per quanti lavorano con contratti di collaborazione, a partita Iva o a prestazione occasionale. Allo stesso tempo bisogna intervenire sul sistema produttivo, incapace di autoriformarsi e di rinunciare ad una rendita di posizione che puzza di medioevo. Innovazione tecnologica e ricerca nei settori ecocompatibili, riconversione industriale, riterritorializzazione delle produzioni, federalismo energetico, efficienza energetica (da sola garantisce 1.600.000 posti di lavoro in dieci anni), investimenti nelle reti idriche, rafforzamento della democrazia di prossimità.

Di questo ha bisogno il paese per uscire dalla crisi e guardare con fiducia al futuro ed a un mondo che deve sciogliere ovunque gli stessi nodi: continuare con un modello che impoverisce e distrugge natura e coesione sociale, oppure puntare al futuro con un modello che coniuga sviluppo con giustizia sociale ed ambientale?

È questo il tema di fondo introdotto dai referendum, non certo la spallata verso un governo già di per se moribondo. Quale tipo di sviluppo, quali diritti, quale ruolo per i cittadini, come uscire dalla morsa pubblico/privato, quali responsabilità e opportunità abbiamo di fronte? Quale Italia vogliamo, è il grande dibattito aperto dai comitati.

Ecco perché ci pare davvero stonata la polemica tutta tattica avviata in questi giorni dalla forze del centrosinistra che, invece di mettersi in ascolto del paese reale ed al servizio dell'Italia migliore, stanno già pensando ad "allargamenti" auspicati dal Corriere della Sera, tutti nell'ambito del politicismo da prima e seconda Repubblica. Una miopia che perdura e che rischia di fare ancor più male al paese che ha bisogno di un progetto chiaro e credibile.

Sta in questo la forza dei comitati referendari e della battaglia del 12 e 13 giugno. Il messaggio è chiaro e la gente capisce cosa vogliamo e verso dove vogliamo tutti insieme andare. Così come l'elemento di successo della partecipazione sta nelle metodologie e pratiche nuove che da un decennio si stanno sperimentando, chiudendo definitivamente con modelli verticistici del passato.

Ecco perché questa nuova "società in movimento" non finirà la sua azione il 14 giugno, a prescindere del risultato dei referendum e dalle scelte politiciste fatte dai partiti. Questa nuova società, quella dei beni comuni, è destinata a restare e ad essere il futuro di questo paese, se ne vogliamo uno.

Il voto del 12 e 13 ne determinerà sicuramente l'ampiezza ma non il suo perdurare. Compito di tutti e tutte sarà organizzare questo campo, tutelandolo senza strattoni ma semplicemente lasciandolo agire. Una partita nuova è già cominciata.

* Portavoce A Sud- www.asud.net

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