Il blocco sociale del NO. Statistiche, considerazioni politiche, prospettive del post-referendum

9 / 12 / 2016

Non è mai semplice dare un’interpretazione univoca ai flussi elettorali, soprattutto quando questi mirano ad esaminarne la composizione sociale, che la scienza statistica comunemente pensa di ridurre alle “tendenze per fasce di reddito”. L’elemento censuale è senza dubbio indicativo, anche se da solo non basta a definire una cartografia dell’evento referendario che possa inserirsi in quella “cassetta degli attrezzi” di gramsciana memoria. Più interessante è combinare vari elementi di natura statistica, principalmente anagrafici, economici e territoriali, al fine di comporre un quadro d’insieme che sia in grado di restituire, sebbene in maniera sfumata, il complesso rapporto tra forme di vita e specifico evento politico. Età, condizione lavorativa, titolo di studio, geografia, aspettative future, ambiente urbano e disposizione soggettiva rappresentano alcuni di questi fattori che si intrecciano con il dato censuale. Maneggiarli con cura ci consente di fare valutazioni che esulano dall’evento referendario in sé e ci consentono di fare alcune riflessioni sui processi che hanno investito la composizione tecnica della forza-lavoro nell’Italia della crisi. Ma l’uso di questi dati non basta al fine di una vera inchiesta: una valutazione puramente quantitativa può dare delle indicazioni che non esauriscono assolutamente l’aspetto qualitativo dell’analisi. E’ dalla qualità del voto che possiamo trarre delle conclusioni circa le condizioni politiche e la disponibilità soggettiva per una trasformazione costituente della realtà.

Composizione sociale e composizione politica del voto

Sul piano metodologico ammettiamo l’impossibilità di tracciare un quadro organico relativo alla composizione di classe ed alla sua espressione politica nel voto della scorsa domenica. Anni di studio ed inchiesta militante, effettuati dalle menti più brillanti dell’operaismo e del post-operaismo sulla dialettica tra dimensione tecnica e dimensione soggettiva della forza-lavoro, tra bios e materialità dei processi produttivi, ci insegnano a non semplificare la questione.

È vero altresì che la convergenza di dati statistici post-voto interrogano direttamente quella pluralità di forme di vita che la crisi, ed in particolare le politiche emerse nei mille giorni del governo Renzi, ha completamente stravolto e frammentato. L’elevato grado di politicizzazione del voto ha in parte ricomposto quelle forme di vita, in termini oggettivi più che soggettivi, dando protagonismo ai segmenti sociali che più di altri hanno pagato i costi di una gestione governativa totalmente sbilanciata a favore delle élite. Una politicizzazione che è stata immanente al corpo sociale, autonomamente in grado di interiorizzare la crucialità dello snodo del 4 dicembre per il presente ed il futuro del Paese,  oltre ad essere stata senza dubbio frutto dell’azione dei partiti schierati per il NO e dei movimenti. Un’azione, è bene ribadirlo, che è stata convergente nell’opzione elettorale, ma assolutamente divergente nella forma e nella sostanza degli obiettivi.

La questione salariale, connessa con il crollo verticale della capacità di spesa familiare, l’impoverimento dei territori, l’esautoramento coatto della forza contrattuale dei lavoratori, il problema abitativo sono tutti elementi che hanno inciso profondamente nella formulazione del voto referendario. Un voto che ha espresso chiaramente non solo una larga ed inequivocabile bocciatura del governo Renzi, ma che ha direzionato in termini verticali quel substrato di sofferenza sociale: dal basso verso l’alto, dalla moltitudine verso l’obiettivo più identificabile e perseguibile del comando. È innegabile che la composizione sociale del NO non contenga nella sua globalità quegli elementi di critica complessiva alla governance ed al sistema neoliberista, anzi: non dobbiamo assolutamente nasconderci che un peso specifico sostanzioso è stato dato dal voto liberal-moderato, di destra estrema e apertamente xenofobo.

Ma è altrettanto vero che il percorso di movimento maturato durante la campagna referendaria ed espressosi in piazza a Roma il 27 novembre è riuscito, in termini di contenuti e vertenze, ad interagire con questa composizione ed in parte a rappresentarla. Al di là delle difformità di merito è questa, in termini di rapporto tra composizione sociale e leggibilità politica, la grande differenza tra il referendum costituzionale italiano e quello sulla Brexit. Quest’ultima, che pure aveva visto un forte protagonismo delle classi meno abbienti nella scelta di uscire dall’Unione Europea, ha visto nelle motivazioni politiche un  forte schiacciamento verso contenuti identitari e nazionalisti.

Giovani e disoccupati serbatoio per il NO

I dati sui flussi elettorali emersi nei giorni successivi al voto, sebbene in parte fossero prevedibili, hanno lasciato sconcertati per la nettezza del quadro emerso e l’ampiezza delle forbici. Molto significativo è la distribuzione della scelta per classe d’età: secondo i dati forniti dall’istituto di ricerca Quorum nella fascia che va dai 18 ai 34 anni, la percentuale del NO è arrivata all’81%; 67 a 33 in favore del NO per la fascia 35-54 anni; il SI prevale con il 53% per chi ha oltre 55 anni.

Interessante intrecciare questi flussi con l’analisi fatta da Info Data, che mette in evidenza come le province dove la percentuale del NO è stata più alta sono anche quelle con il maggior tasso di disoccupazione giovanile, ossia quella legata alla fascia d’età compresa tra i 18 ed i 24 anni. Sebbene i due fattori numerici non siano completamente sovrapponibili è indicativo come alcune province siciliane che hanno visto trionfare il NO con percentuali intorno al 72% (quali Catania, Palermo, Siracusa e Caltanissetta) sono le stesse in cui i giovani che non lavorano, non studiano e nemmeno seguono una formazione (i cosiddetti Neet) superano il 40%, a fronte di una media europea di 16,3%[1].

C’è un altro dato molto interessante che riguarda il rapporto tra tasso di disoccupazione ed espressione del voto. Leggendo i dati Istat sul livello provinciale di questo tasso, ci si accorge che nelle dieci province italiane con il maggior livello di disoccupati nel 2015[2] il NO si è imposto con percentuali superiori al 66%. È altrettanto indicativo segnalare che, con l’eccezione di Napoli e Cosenza, in tutte queste aree territoriali, che già avevano avuto incrementi decisi del numero dei disoccupati a partire dal 2009, il dato è aumentato in modo lineare negli anni di insediamento di Renzi a Palazzo Chigi[3]. Questa rilevazione statistica si intreccia con quanto espresso da Youtrend, webmagazine legato all’agenzia Quorum, all’indomani del voto: nei 100 comuni con più disoccupati il NO ha registrato il 65,8% dei consensi, mentre nei 100 con meno disoccupati ha avuto la meglio il SI con il 59%.

La condizione lavorativa, sia in termini qualitativi che quantitativi, ha inciso pesantemente nella scelta alle urne di domenica 4 dicembre, ed in generale nell’opinione degli elettori sull’operato del governo Renzi. In particolare il Jobs Act e l’istituzionalizzazione dei voucher hanno segnato profondamente il corpo del lavoro vivo in questo Paese, modificando in modo radicale i rapporti di forza tra aziende e lavoratori, ristrutturando il mercato del lavoro con l’invasione su larga scala di contratti a breve e brevissimo termine e con la liberalizzazione dei “buoni lavoro”, precarizzando la vita di milioni di persone in maniera funzionale agli interessi padronali. Rispetto al Jobs Act è innegabile che la riforma sia servita alle imprese per aver le mani più libere rispetto alla circolazione interna della forza-lavoro. La continua rincorsa tra licenziamenti e riassunzioni ha di fatto neutralizzato le stesse tutele crescenti, facendo ogni volta perdere gli scatti di anzianità ai lavoratori e rendendo questi sempre più vulnerabili e ricattabili. Nei primi otto mesi del 2016 i licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo hanno segnato un aumento del 28%, passando da 36.048 a 46.255. Nello stesso periodo, e forse il dato è ancora più significativo, sono aumentati di quasi il 5% anche i licenziamenti sui contratti a tempo indeterminato, passati da 290.656 del 2015 a 304.437 dell’agosto del 2016[4].

Redditi bassi, sud e periferie

Oltre al dato occupazionale, ed intrecciato con questo, è stato molto significato ai fini dei risultati elettorali anche l’indice legato alle fasce di reddito. Anche se non abbiamo rilevamenti approfonditi su questo elemento, è di estremo interesse quanto riportato dall’agenzia di comunicazione Swg, ossia che nella fascia di reddito medio inferiore ai 18.000 euro annui la percentuale del NO è stata superiore a 71. Anche in una delle poche città dove il SI ha prevalso abbastanza nettamente, Bologna, l’analisi del voto fatta dall’Istituto Carlo Cattaneo parla abbastanza chiaro: l’aumento del NO è proporzionale alla diminuzione del reddito. Nella città felsinea, storica roccaforte della sinistra istituzionale ed oggi del Partito Democratico, il NO ha prevalso per il 51,3% nella fascia inferiore ai 18.000 euro annui, compete con il SI con il 47,1% nella fascia mediana (18.000-25.000 euro annui), diminuisce a poco più del 40% nella fascia di reddito alta[5].

Se il 4 dicembre ha fatto scoppiare in termini politici quella “bolla sociale” da tempo esistente nel nostro Paese, è necessario riconoscere che il processo d’impoverimento e di redistribuzione della ricchezza verso l’alto è un fenomeno che dura in Italia da quasi un decennio. Gli anni del governo Renzi, in particolare grazie alle manovre economiche e ad alcuni provvedimenti spacciati come riforme, hanno contribuito a divaricare la forbice ed a massificare le cosiddette sacche di povertà. Secondo un rapporto dell’Istat diffuso nei giorni scorsi, è aumentata nel 2015, rispetto all’anno precedente, la stima dei soggetti a rischio di povertà ed esclusione sociale, passando dal 28,3% al 28,7%. In termini numerici la cifra è impressionante, perché ci parla di quasi 17 milioni e mezzo di residenti in Italia che sono interessanti da questa condizione, con 7 milioni di individui che vivono in condizioni di grave deprivazione.

L’esposizione a povertà ed esclusione sociale diventa ancora più drammatica nelle regioni del Mezzogiorno, dove è passata dal 45,6% del 2014 al 46,4% dell’anno successivo. È abbastanza evidente che il netto rifiuto della riforma costituzionale che si è avuto nelle regioni del Sud, con dati superiori al 65%, sia legato non solamente ad un ulteriore deterioramento delle condizioni di vita generali, ma anche a politiche che hanno escluso il Sud da qualsiasi progetto di crescita o di riqualificazione economica di quelle infrastrutture industriali che per decenni hanno impoverito la popolazione e danneggiato i territori sul piano ambientale e paesaggistico. La sfida persa, e neppure combattuta, dal governo Renzi su Bagnoli, l’Ilva o il distretto minerario del Sulcis sono solamente alcuni degli esempi che, nel corso dei mesi, hanno visto il consenso governativo calare vistosamente in questi territori.

Un altro dato estremamente significativo è quello relativo alla distribuzione del voto nelle singole aree urbane. Emerge in questo caso un elemento che accomuna pressoché tutte le città italiane, che riguarda una marcata differenziazione tra centri e periferie, in cui queste ultime hanno segnato in maniera decisamente più negativa il destino della riforma costituzionale. Si prenda ad esempio il voto della capitale, dove il SI ha prevalso nei municipi che rappresentano le aree più centrali di Roma (I e II), con il reddito pro capite più alto. Nei due municipi con il reddito più basso, il V e il VI, il NO ha ottenuto il risultato migliore, raggiungendo il 64,93% nel V e addirittura il 70,84% nel VI. Anche nell’altra grande metropoli italiana abbiamo un risultato simile, con la cinta urbana che si è espressa per il 51% circa dei voti in favore del SI, a fronte di un’area periferica dove il NO ha ottenuto circa il 53% delle preferenze.  Il trend si conferma anche a Torino, con alcuni quartieri periferici (che già avevano visto un’affermazione plebiscitaria per la sindaca Appendino ai ballottaggi dello scorso giugno) dove il NO ha superato il 60%, andando ben 7 punti percentuali al di sopra del dato comunale complessivo.

Sarebbe un errore grossolano sovrapporre la distribuzione della popolazione all’interno dello spazio urbano con le condizioni di vita. Si pensi ad esempio ad alcune città, prevalentemente universitarie, nelle quali la residenzialità della borghesia urbana si è progressivamente spostata dal centro alla periferia proprio allo scopo di liberare appartamenti di proprietà – anche a seguito dei drastici cambiamenti inerenti la socialità e la vita nei centri storici - ed affittarli agli studenti universitari. Si tratta di una tendenza durata diversi decenni, ma che ultimamente sta riscontrando un’inversione di tendenza, in concomitanza con l’aumento dei progetti di gentrificazione urbana che stanno causando l’espulsione forzata dalle aree riqualificate dei centri storici di larghe sacche di new poor o di abitanti dei quartieri popolari storici, nonché degli stessi studenti affittuari. Nelle periferie si intrecciano dunque le biografie di vecchi e nuovi poveri, in un coacervo antropico spesso ai limiti della vivibilità. I quartieri gentrificati, che siano residenziali o del centro urbano, lasciano la possibilità di residenza soltanto alle classi più agiate; non è un caso che in questi territori abbia vinto il SI.

In definitiva il rapporto tra centri e periferie urbane aggiunge un ulteriore tassello d’analisi di quella composizione sociale che il 4 dicembre si è espressa in maniera decisa contro un tentativo di riforma che avrebbe costituzionalizzato una metodologia governamentale. Il neocentralismo renziano, bocciato dalle urne, è stato capace in due anni e mezzo di acuire e politicizzare quella spaccatura sociale che ha ridisegnato la geografia umana di questo Paese, da un lato in termini di detenzione dei patrimoni e distribuzione dei redditi, dall’altro rispetto al piano complessivo dei diritti sociali e dell’accesso ai servizi.

Un voto di classe?

Introduciamo adesso il problema di fondo dell’analisi quantitativa. I dati pubblicati da molti giornali italiani e internazionali sono concordi su di un fatto: sono stati i meno abbienti a rifiutare il progetto renziano, e dunque delle élite neoliberali, come cardine del nuovo sistema-Paese. La spinta da parte della governance neoliberale di costituire le nuove istituzioni, al fine di definire un nuovo ordine post-democratico conseguente alla ridefinizione dei rapporti di forza socio-economici avvenuta nell’ultimo decennio, passava anche dalla riforma costituzionale italiana. La strappo italiano a questo processo è un dato oggettivo.  Tuttavia, cosa possiamo dire su questa composizione sociale che si è espressa con il voto di domenica? Quali spazi di politicizzazione ci sono? E, soprattutto, possiamo dire che l’egemonia di questo NO, al di là della strumentalizzazione in atto e dell’appropriazione delle destre, è tutta un’espressione del cosiddetto populismo? Pensiamo che sia doveroso far emergere il filo rosso che lega una parzialità di questo NO alle lotte sociali radicate da anni di intervento politico.

Il NO che i movimenti hanno voluto definire come sociale ha trovato le sue condizioni di possibilità perché, all’interno di tale composizione tecnica, si è data una disponibilità al conflitto costituente – ovvero, al conflitto per l’eguaglianza e la libertà di tutti e tutte. Quest’attitudine soggettiva, che prepara il terreno per un ulteriore lavoro di politicizzazione, non è assente e non è marginale nel coacervo del mondo del NO, composto anche da sentimenti, progetti e programmi razzisti, sessisti e vetero-nazionalisti. Frutto della sedimentazione di lotte affermate e delle micro-resistenze che non hanno mai smesso di esistere in Italia, i soggetti che hanno votato NO con tale attitudine costituente non hanno permesso che vi fosse una completa egemonia della destra. Schiacciare il voto di domenica sull’analogia con la Brexit o con Trump falsifica e oscura alcune delle ragioni, dei posizionamenti e l’orizzonte entro i quali si è data la delegittimazione di Renzi, diventando strumentale alla stessa retorica dell’estremismo di centro del PD: «senza di noi, avrete solo populismo, autoritarismo e barbarie». Rivendicare la particolarità e la diversità del voto referendario è un discorso da affermare pubblicamente, per non dare strumenti in mano al Partito Democratico e per non regalare questa prima spinta di delegittimazione alle destre.

Il voto giovane, oltre a registrare la drammatica esistenza di intere generazioni condannate alla precarietà formalizzata dalle manovre sul lavoro, deve dare un’ulteriore indicazione. Per quanto una larga fetta di giovani, soprattutto tra i venti ed i quaranta anni, esprimano preferenze per il Movimento Cinque Stelle, sarebbe un errore prendere questo dato come incontrovertibile, e in particolare come un’adesione cieca e fidelizzata al nuovo partito. Fermo restando le differenze interne agli elettori di Grillo – differenze che rivelano un’ambiguità intrisa di razzismo e identitarismo, sia chiaro – è interessante notare come in questa fase storica in Italia le giovani generazioni siano parte di un “interregno”, esprimano cioè quel nuovo che ancora fatica ad affermarsi ed a trovare rappresentazione sociale (non rappresentanza), riconoscimento, legittimità, perché arginate da quel vecchio blocco sociale al potere da decenni. E’ bene sgombrare il campo da equivoci: “nuova” e “vecchia” generazione non vanno intese solo dal punto di vista anagrafico. Bisogna parlare, invece, di forme di vita e di soggettività, della comprensione dell’esperienza politica e sociale passata proiettata verso delle aspettative future. La figura di Renzi incarna questa definizione di “vecchio” al di là dei dati anagrafici: rappresenta il giovane che ha rottamato il vecchio ceto politico dirigente senza scalzarne le ideologie o il programma, ma anzi accelerando (se mai ce ne fosse stato bisogno) la trasformazione neoliberale del partito. Ma anche, al contrario, quei non pochi quarantenni e cinquantenni (seppur meno) che hanno rifiutato la riforma ed il Partito Democratico rompono con una schema semplicemente anagrafico e che divide sistematicamente per fasce d’età. La “nuova” generazione emergente è composta da quei “giovani” che non hanno riferimenti partitici inamovibili, vista la crisi della rappresentanza e la polverizzazione della sinistra, non sono affiliati ad un’ideologia o ad un immaginario che guida l’aspettativa sul futuro, incarnano delle forme di vita che trovano la piena legittimità e che alludono alla necessità di un cambiamento per affermare delle relazioni (sociali, culturali e affettive, come dimostra il 26 novembre) fuori dalle identità appartenenti al vecchio blocco sociale. E, soprattutto, non credono di poter essere rappresentati da coloro che abitano le istituzioni, perché facenti parte della linea del potere che li costringe alla precarietà lavorativa, abitativa, alla devastazione dei propri territori e degli istituti del welfare, e non vedono la soluzione nella protezione del privilegio di pochi, ma nell’estensione di nuovi diritti senza discriminazione.

Non vogliamo edulcorare le generazioni giovani presupponendo che ci siano già le condizioni per una movimentazione sociale. E’ noto che proprio tra i giovani stia prendendo piede quella forma di populismo che è avversa al conflitto costituente. Inoltre, proprio la mancanza di rappresentazione fa faticare l’emersione di questo “nuovo”. Eppure, nei tantissimi volti giovani e giovanissimi scesi in piazza nel fine settimana romano di mobilitazione, in quelli che animano e danno corpo alle lotte sociali diffuse nei territori, possiamo vedere un inizio di condizione affinché la composizione sociale che ha votato per il NO possa trasformarsi in composizione politica, a partire dal lavoro di base e di organizzazione da fare ed a quello che si è condensato in questi mesi di campagna per il NO sociale.

Il referendum è stato una scelta di classe: verissimo, ma stiamo parlando in buona parte di classe in sé. Il problema sta tutto nel rendere moltitudinarie le ragioni dei tanti NO e fare in maniera tale che, nel post-referendum, diventino volano della classe per sé e ambiscano a riscrivere la costituzione materiale di questo Paese e, dunque, dell’Europa. Ce ne sarà bisogno per opporsi alla xenofobia e al razzismo, ma anche per impedire che le mosse tattiche di palazzo riproducano il sistema del Partito Democratico nei prossimi mesi. 



[1] Fonte Eurostat. Il dato siciliano è maggiormente significativo di quello di alcune province sarde, che pure hanno visto percentuali del NO aggirarsi attorno al 72% (in particolare Cagliari, Oristano e Nuoro). In queste ultime, infatti, il rapporto tra over 65 ed under 30 è superiore ad 1,6 (Cagliari 1, 650; Oristano 1,915; Nuovo 1,645)[1], mentre nelle province siciliane questo è decisamente più basso(Catania 1,161 Palermo 1,222; Siracusa 1,349; Caltanissetta 1,215)[1]. Questo significa che nelle aree siciliane prese in esame il dato anagrafico, sia relativo al voto sia rispetto alla condizione sociale, ha molto più peso anche in termini assoluti, a fronte di una popolazione demograficamente più giovane.

[2] Crotone, Agrigento, Siracusa, Palermo, Cosenza, Messina, Catanzaro, Caltanissetta, Napoli e Reggio Calabria

[3] Fonte Istat, Tasso di disoccupazione – livello provinciale

[4] Si veda R. Ciccarelli,Il Jobs Act funziona: in otto mesi sono aumentati i licenziati, Il Manifesto, 19 ottobre 2016

[5] Si legga l’analisi dei dati sul sito dell’Istituto