Il clima è uscito dai gangheri

9 / 11 / 2009

All’inizio di quest’anno alcuni scienziati russi, giunti al Polo Nord per studiare i mutamenti climatici, sono finiti alla deriva bloccati sopra un iceberg e solo dopo dieci giorni di ardui sforzi è stato possibile trarli in salvo. E’ difficile pensare a un’immagine più emblematica del nostro attuale rapporto con l’ambiente. Stiamo studiando cosa cambia nel clima, e intanto andiamo pericolosamente alla deriva sopra un relitto del clima di un tempo. Questo era infatti quell’iceberg: un pezzo del mondo di prima, in via di scioglimento.

Istantanee invernali

La base polare degli scienziati russi finiti alla deriva, la stazione “Polo Nord-32”, aveva iniziato a operare nell’aprile del 2003 e da subito aveva dovuto fare i conti con il problema che avrebbe dovuto studiare. L’aumento della temperatura aveva infatti messo fuori gioco la pista di atterraggio rendendo impervi i collegamenti e i rifornimenti. All’inizio del 2004, poi, la deriva dell’iceberg non ha fatto che confermare la gravità della situazione. L’aumento della temperatura globale sta ormai investendo la calotta artica. Per questo gli iceberg se ne staccano e vanno alla deriva. Rispetto a cinquant’anni fa, lo strato di ghiaccio  ha perso metà del suo spessore. Nel 2003 le perdite di ghiaccio sono state le peggiori da quando esistono i rilevamenti via satellite, cioè da vent’anni. Quanto all’emisfero opposto, la situazione non è migliore. Le formazioni glaciali cilene e argentine, l’Antartide sono investite dal medesimo fenomeno.Non occorre tuttavia andare fino ai poli, nell’Artide o nell’Antartide, per rendersene conto. Basta andare sulle nostre Alpi, dove lo zero termico si è alzato di 200 metri negli ultimi vent’anni, situandosi nell’inverno 2002 a circa 1250 metri sul livello del mare, e dove i ghiacciai, sul versante italiano, sono passati dagli 838 del 1971 agli 807 del 2001. Sono 31 ghiacciai in meno, al ritmo di un chilometro quadrato e mezzo ogni anno (con 43 chilometri quadrati persi negli ultimi trent’anni). Secondo il presidente del comitato glaciologico italiano, Claudio Smiraglia, a questo ritmo i ghiacciai alpini potrebbero finire per estinguersi: “l’accelerazione dello scioglimento negli ultimi vent’anni è stata impressionante”. Da quasi un secolo, in realtà, tutti i 4000 ghiacciai dell’intero complesso delle Alpi, tra Francia, Svizzera, Italia, Austria, Germania e Slovenia, sono in regresso. In conseguenza di ciò “prima avremo grandi quantità d’acqua nei torrenti, colate di fango e pietre. I versanti si muoveranno verso il basso riversando enormi quantità di detriti. La montagna sarà instabile e più pericolosa. Poi l’alta quota sarà secca e si asciugheranno i laghi. La deglaciazione alpina è il segno più evidente della mutazione del clima. L’ultima estate (quella del 2003, ndr) è stata terribile: fondeva anche la vetta del Monte Bianco. La montagna diventa un deserto e le coste vengono sommerse dal mare”, ha commentato su “la Repubblica” del 14 dicembre 2003, osservando direttamente l’inverno in corso. Sulla stessa linea è anche Luca Mercalli, presidente della società italiana di meteorologia, secondo il quale, come ha dichiarato lo stesso giorno sempre a “la Repubblica”, l’arco alpino reagisce con particolare sensibilità al mutamento climatico. Se negli ultimi 150 anni le temperature medie sono aumentate di 1,1 gradi complessivi, sulle Alpi si registra uno 0,7 in più, e la temperatura salirà ancora finchè non diremo addio ai ghiacciai sotto i 3600 metri e alle nevicate sotto i 1500.Come si vede, gli scienziati russi sarebbero potuti incappare in qualche brutta avventura anche sulle Alpi. Invece che un iceberg alla deriva, avrebbero potuto incontrare una slavina, o una frana, uno smottamento, un’alluvione improvvisa. E non solo in inverno o in autunno.

Istantanee estive

Commentando la torrida, feroce estate del 2003, che solo in Europa ha provocato almeno 20 mila morti soprattutto fra gli anziani, il professor Giampiero Maracchi, direttore dell’istituto di biometeorologia del Cnr di Firenze, che studia da anni i cambiamenti climatici in Italia, ha sostenuto che non si è trattato affatto di un episodio isolato, bensì di una tappa verso un deciso processo di “tropicalizzazione” del nostro clima, che sarà perciò sempre più segnato da “eventi estremi”. Un clima, insomma, davvero out of joint, “uscito dai gangheri” nei quali era rimasto a lungo imperniato garantendo la mitezza e la gradevole variabilità delle quattro stagioni celebrate da Antonio Vivaldi. Un clima “fuori dai gangheri” significa innanzitutto un clima incontrollabile, per certi versi imprevedibile, sicuramente più pericoloso per noi e per le altre specie viventi di quanto non lo sia mai stato. “Il pianeta si è riscaldato nel suo complesso”, ha sostenuto a caldo, è il caso di dirlo, Maracchi sul “Manifesto” del 6 agosto 2003, “ma l’aria calda si è accumulata nell’area intertropicale (cioè tra Atlantico, Americhe ed Europa e Africa occidentali, ndr) dove anche i mari sono diventati più caldi in superficie. Questo cambiamento si è prodotto negli ultimi dieci anni, ma continuerà. Per capire cosa succederà in futuro basta guardare, in piccolo, a cosa è successo negli ultimi anni. La scorsa estate (2002, ndr) ha iniziato a piovere ad agosto e non ha smesso fino a novembre. Ora (estate 2003, ndr) ci sono quaranta gradi. Nei prossimi anni continuerà così, con temperature particolarmente alte o basse. Aumenteranno le situazioni climatiche estreme”

Antropocene, il nostro tempo.

Cosa andavano in realtà a studiare al Polo Nord gli scienziati russi, e di cosa si occupano gli illustri glaciologi e meteorologi citati sopra? E a cosa alludiamo tutti noi, anche non specialisti, quando ripetiamo che “le stagioni non sono più quelle di una volta” sapendo benissimo che non si tratta affatto, che non si tratta più, di una battuta?Noi siamo la prima specie a essersi trasformata in una sorta di forza geofisica in grado di alterare il clima della Terra, ha detto Edward O. Wilson, il fondatore della sociobiologia. Detta in altri termini, l’uomo è diventato un fattore, anzi un attore, ecologico globale. Proprio per questo, Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica 1995 (insieme a Sherwood Rowland e Mario Molina è stato premiato per le ricerche sugli effetti dei clorofluorocarburi, i micidiali Cfc, sulla fascia d’ozono), ha proposto di ribattezzare Antropocene il periodo geologico apertosi con la Rivoluzione industriale della seconda metà del 1700. Attualmente stiamo ufficialmente vivendo nel periodo chiamato Olocene, iniziato 10-12 mila anni fa con la Rivoluzione agricola (o Neolitica). Crutzen, raccogliendo l’adesione di molti scienziati, ha proposto il nome di Antropocene proprio per sottolineare il peso determinante e l’impatto globale delle attività umane sul pianeta.“Sulla Terra il cambiamento ambientale è vecchio quanto il pianeta: circa 4 miliardi di anni. Il genere Homo, cui apparteniamo, ha modificato l’ambiente terrestre nei circa 4 milioni di anni della sua esistenza. Ma mai come nel XX secolo. E’ probabile che asteroidi e vulcani, al pari di altri agenti astronomici e terrestri, abbiano prodotto cambiamenti ambientali più radicali di quelli cui abbiamo assistito nella nostra epoca. Non però gli uomini”, ha scritto lo storico John R. Mc Neill nel suo affascinante racconto della storia dell’ambiente nel Novecento, Qualcosa di nuovo sotto il sole (Einaudi, 2002): “E’ la prima volta, nella storia dell’umanità, che abbiamo modificato gli ecosistemi in maniera così profonda, su tale scala e con tale rapidità. E’ una delle rare epoche della storia della Terra in cui si è assistito a cambiamenti di tale portata e intensità. (…) Inconsapevolmente il genere umano ha sottoposto la Terra a un esperimento non controllato di dimensioni gigantesche. Penso che, col passare del tempo, questo si rivelerà l’aspetto più importante della storia del XX secolo: più della seconda guerra mondiale, dell’avvento del comunismo, dell’alfabetizzazione di massa, della diffusione della democrazia, della progressiva emancipazione delle donne”.E’ l’intera storia dell’umanità, in effetti, a rappresentare una minuscola frazione della storia del nostro pianeta, e quindi gli effetti della ancor minore frazione di tempo definibile come Antropocene risultano tanto più dirompenti. Basta osservarli secondo quel noto giochino di simulazione compiuto una volta da un astronomo, che ha provato a  comprimere l’intera storia del pianeta Terra, 4 miliardi e mezzo di anni circa, sulla scala di un solo anno. Secondo questa simulazione, se a gennaio, su un braccio esterno della Via Lattea, si forma il Sole, a febbraio si forma la Terra, ad aprile i continenti emergono dalle acque, a novembre appare la vegetazione, a Natale si estingue il regno dei grandi rettili, alle 23 del 31 dicembre compare l’uomo di Pechino, a mezzanotte meno dieci l’uomo di Neanderthal, nell’ultimo mezzo minuto si svolge l’intera storia umana conosciuta, nell’ultimo secondo di questo mezzo minuto gli uomini si moltiplicano per tre o quattro volte e consumano quasi tutto quello che si era accumulato nei millenni precedenti.L’Antropocene non è che un batter di ciglia, su questa scala. Ma tanto più ne risulta evidente l’impatto, tanto più esaltata la potenzialità produttiva. E anche quella distruttiva, se è vero che secondo diversi scienziati stiamo forse per avvicinarci al rischio di una nuova estinzione di massa. L’ultima grande estinzione, la quinta della serie sul nostro pianeta, è avvenuta 65 milioni di anni fa, ed è stata quella dei dinosauri. Ma la sesta rischia di essere alle porte. Lo ha scritto “Science”, la prestigiosa rivista scientifica, all’inizio del 2004, sulla scorta di un grande studio svolto in Gran Bretagna che ha misurato la progressiva scomparsa o la drastica diminuzione negli ultimi vent’anni - oltre che dei ghiacciai e delle nevi - di molte specie animali (il 71 per cento delle specie di farfalle, il 54 per cento di quelle degli uccelli, ad esempio) e negli ultimi quarant’anni la riduzione del 28 per cento di quelle delle piante. Sono gli allarmanti segnali di un mutamento in corso nelle condizioni ambientali, derivante in particolare dal cambiamento climatico, cioè dal surriscaldamento del pianeta prodotto dalle attività umane, dal dissennato aumento delle emissioni gassose di origine industriale e dall’uso di combustibili fossili (gas, carbone, petrolio) e dalle altre fonti di incontinente polluzione diurna e notturna che, insieme all’acqua all’aria e alla terra, investono l’atmosfera. Cioè lo scudo e il filtro – questo l’atmosfera è: scudo e filtro – che rende possibile la vita sul nostro pianeta.

Il ciclo della vita.

La nostra vita dipende dal giusto equilibrio tra il calore del Sole e l’atmosfera terrestre. Il clima in cui viviamo è il frutto di questo rapporto. Il calore del Sole, dopo un viaggio di circa 150 milioni di chilometri, giunge sulla Terra e si diffonde in modo diseguale, dividendo il nostro pianeta in cinque grandi zone climatiche: il circolo polare artico, il tropico del cancro, l’equatore, il tropico del capricorno, il circolo polare antartico. Il grado di presenza e la circolazione dell’energia solare determinano i climi locali: dalle zone equatoriali, più irrorate dal Sole, l’aria calda muove verso i poli; dai poli, l’aria fredda muove in senso opposto. E’ la quantità di calore che investe una zona a stabilire la “stagione”, cioè il clima che la caratterizza in un determinato periodo e che dipende, in natura, dall’inclinazione della terra sul proprio asse (che è pari a circa 23, 5 gradi) e dall’orbita che compie, lungo 365 giorni, attorno al Sole.Per giungere sulla Terra, nella parte terminale del suo viaggio il calore del Sole attraversa l’atmosfera, un involucro gassoso in realtà sottilissimo e che contiene soprattutto azoto (per il 78%) e ossigeno (21%) oltre a piccole quantità di altri gas (tra i quali argon, anidride carbonica, neon, elio, idrogeno, ozono, cripton). Senza questo involucro quasi nessuna specie di vita potrebbe resistere. Il calore del Sole, filtrandovi, viene mitigato. I corpi celesti che lo attraversano, come le meteoriti, o come gli stessi satelliti in caduta, vengono sbriciolati dall’alta temperatura o dall’attrito con le molecole dei gas.La circolazione atmosferica – prodotta da miliardi di molecole in continuo movimento, le cui incessanti collisioni determinano i diversi livelli di pressione – è all’origine dei diversi fenomeni meteorologici (il vento, la pioggia, la neve, il bel tempo eccetera). Quasi tutti questi fenomeni si svolgono soprattutto in uno dei cinque strati sovrapposti dell’atmosfera (che sono, salendo: la troposfera, la stratosfera, la mesosfera, la termosfera e, a partire da poco più di un centinaio di chilometri sopra le nostre teste, l’esosfera che poi si dissolve gradatamente nello spazio). Nello strato più vicino a noi, la troposfera (una fascia che va dal suolo a un’altezza tra gli 8 e i 16 km a seconda dell’energia solare che vi giunge, più ridotta ai poli e più intensa all’equatore), sono presenti i 3/4 di tutti i gas e quasi tutto il vapore acqueo e appunto hanno luogo i fenomeni che principalmente generano le variazioni del tempo. Come ogni cosa in natura, tutti gli strati atmosferici si influenzano a vicenda e tutti insieme influenzano la vita sulla Terra. In particolare, nella stratosfera (una fascia di 10 km sopra la troposfera), è presente la fascia d’ozono (o ozonosfera) che assorbe la componente più pericolosa delle radiazioni ultraviolette del Sole, che così giungono a noi mitigate e sopportabili, e anzi benefiche.Una volta giunto sulla Terra il calore solare viene accumulato e distribuito in maniera diseguale tra le masse continentali e le masse oceaniche. Queste ultime infatti si riscaldano o si raffreddano molto più lentamente delle prime. Gran parte dei fenomeni meteorologici dipende dallo scambio di umidità tra oceani, suolo terrestre, vegetazione, nuvole, cioè dal ciclo dell’acqua. A questo ciclo idrologico gli oceani contribuiscono con l’evaporazione (che determina per il 90 % l’umidità dell’atmosfera). E’ il Sole, come sempre, a fornire l’energia per l’evaporazione (o, nel caso di laghi, fiumi, suolo, vegetazione, per l’evapotraspirazione) che fa salire le molecole d’acqua sotto forma di vapore fino alla troposfera. Il vapore acqueo, condensando, forma poi le nubi le cui precipitazioni, solide o liquide, vengono assorbite dal suolo e dalla vegetazione, concorrono a formare i fiumi e, attraverso la falda sotterranea, giungono al mare. E’ così che il ciclo riparte sempre. E’ così che si stabilisce naturalmente l’equilibrio del clima, nell’alternanza delle stagioni. Ed è esattamente questo equilibrio che rischia oggi di venir meno, alterato dalle attività umane. Questa è la vera, radicale, sconvolgente novità del nostro tempo.

Segni del cielo e segni del tempo.

Il clima è mutevole, in natura. Varia con le stagioni, i luoghi, le epoche. Ere glaciali, grandi o “piccole”, si sono sempre alternate, in milioni di anni, a ere più calde. Questi mutamenti, lentissimi, hanno prodotto ogni volta graduali adattamenti delle specie, anche se alcune non hanno potuto o saputo farlo e perciò si sono estinte (come nel caso più celebre, dei dinosauri). La rivoluzione industriale e tecnologica, lo sfruttamento a fini energetici delle risorse fossili (petrolio e carbone soprattutto), hanno però cambiato radicalmente la questione. I tempi del mutamento si sono fatti molto più rapidi rendendo impossibile il progressivo adattamento di molte specie e insidiando drammaticamente la nostra stessa capacità di reagire alle conseguenze dei processi che abbiamo avviato. Oggi grandi quantità di gas che trattengono il calore prodotto dalla Terra – producendo l’effetto serra – influenzano in modo crescente la temperatura media, le precipitazioni, i fenomeni meteorologici nel loro insieme. E ciò accade con una velocità che rischia di diventare incontrollabile, mutando la funzione stessa dell’atmosfera, trasformandola da scudo o filtro protettivo in una specie di soffocante cappa chiusa sopra di noi.E’ quello che accade appunto con i cosiddetti “gas serra”. Anidride carbonica (CO2), metano (CH4), ozono (O3) e altri gas che di solito sono moderatamente presenti nell’atmosfera e che, trattenendo i raggi solari riflessi dalla superficie terrestre, contribuiscono a mantenere tiepido il pianeta, che altrimenti avrebbe una temperatura più bassa di 33 gradi centigradi (con una media di – 15) e sarebbe quindi costantemente ghiacciato, per effetto delle attività umane (produzione energetica e industriale, deforestazione, uso di fertilizzanti chimici) stanno progressivamente aumentando. Aumenta, perciò, la loro capacità di imprigionare le radiazioni solari riflesse dalla superficie terrestre. Al livello del suolo la temperatura tende così a salire. Sull’effetto serra influisce in modo determinante il carbonio emesso dalle attività umane (stimabile in circa 30 miliardi di tonnellate annue di anidride carbonica, corrispondenti a circa 9 miliardi di tonnellate di carbonio, 6 delle quali derivanti dall’impiego di combustibili fossili e 3 dalla deforestazione). Per quanto assai maggiore di quello prodotto dalle attività umane, il carbonio generato naturalmente (circa 200 miliardi di tonnellate annue, derivanti dalla respirazione delle piante e dai processi fisico-chimici che avvengono negli oceani) viene smaltito con la fotosintesi e con gli stessi processi fisico-chimici negli oceani, che assorbono più carbonio di quanto ne emettano. Quello prodotto dalle nostre attività invece va accumulandosi nell’atmosfera al ritmo di circa 3 miliardi di tonnellate l’anno. Secondo l’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC), la commissione di scienziati creata nel 1988 dall’Organizzazione meteorologica mondiale e dal programma per l’ambiente delle Nazioni Unite, che ha pubblicato nel 2002 il suo Terzo rapporto sul riscaldamento globale, sono ipotizzabili tre diversi scenari sulla base dei dati relativi all’aumento delle emissioni di anidride carbonica, della temperatura media e del livello del mare. Secondo l’IPCC, se si proseguirà con l’andazzo attuale la concentrazione di CO2 e degli altri gas serra nell’atmosfera diventerà nel 2100 doppia rispetto ai livelli dell’era preindustriale, con un aumento della temperatura media globale di 2 gradi centigradi rispetto al 1990. In seguito allo scioglimento dei ghiacci artici, antartici e della Groenlandia, il livello del mare – già aumentato negli ultimi cento anni di 20-25 centimetri – potrebbe crescere ancora di circa mezzo metro nel prossimo secolo, con effetti sconvolgenti sulle città e i territori costieri.Lo stesso strato di ozono che lassù, tra la stratosfera e la mesosfera, ci protegge dalle radiazioni ultraviolette, è da tempo sotto aggressione. Verso la metà degli anni’70 sopra il Polo Sud è stata osservata per la prima volta una consunzione e poi un vero e proprio “buco” nell’ozonosfera. Un “buco” che nel 1996 ha raggiunto l’estensione di 20 milioni di km quadrati e che più di recente è stato osservato anche al Polo Nord. E’ un effetto dell’attacco all’ozono da parte del cloro, diffuso nell’atmosfera dai composti chimici o clorofluorocarburi (CFC) utilizzati come refrigeranti (specie nei condizionatori d’aria e nei frigoriferi) o come propellenti delle bombolette spray. Il cloro, colpendo l’ozono presente nella stratosfera, lo trasforma in ossigeno molecolare, assottigliandone lo strato e infine aprendovi i “buchi” dai quali i raggi ultravioletti del Sole (gli UV-B) penetrano fino alla Terra, con effetti nocivi sia sulla vegetazione, poiché ne turba la fotosintesi e interferisce con la formazione del plancton (basilare nella catena alimentare), sia sulla nostra salute (provocando danni alla vista e tumori della pelle).Un caso opposto di rischio derivante da alterazioni dell’ozono riguarda non la sua consunzione negli strati superiori dell’atmosfera bensì il suo accumularsi e ristagnare a basse quote. E’ ciò che avviene quando l’atmosfera, satura di ossidi di combustione (da azoto, carbonio, fosforo), soprattutto d’estate, provoca quelle difficoltà respiratorie che fanno scattare gli ormai ricorrenti “allarmi ozono”. Allarmi in genere fronteggiati nient’altro che con divieti di circolazione e con gli inviti a bambini e anziani a restare in casa durante le ore più calde. Palliativi, dunque.Effetto serra, consunzione dello strato di ozono, allarme per l’ozono ristagnante a bassa quota, non sono che gli aspetti più recenti e inquietanti e a rischio di irreversibilità (almeno in tempi storici) del più generale inquinamento dell’atmosfera, che è da sempre un portato delle attività umane ma che mai aveva raggiunto le dimensioni globali e l’onnipervasività odierne. La consapevolezza di questo rischio ha tardato a farsi strada e nemmeno oggi si può dire che, al di là delle dichiarazioni di principio, si sia davvero compiuta una presa di coscienza adeguata dei guasti già prodotti e di quelli ancora più grandi che incombono su di noi e sull’intero pianeta. Fino a non molto tempo fa, nella coscienza comune, “inquinamento” significava soprattutto sporcizia e smog. Poi si è capito che “inquinare” significava anche sprecare risorse spesso non rinnovabili, bruciare in una corsa alla massima produttività e al più avido consumo ciò che si era formato in milioni di anni, a partire dai combustibili fossili. Ma la stessa miopia è stata ed è tuttora applicata anche ad altri beni. Ad esempio, su una scatola di sale da cucina di una marca molto diffusa si può leggere: “Questo sale di rocca ha più di 200 milioni di anni. Si è formato con un lento antichissimo processo geologico nelle più remote vette delle montagne tedesche. Consumare entro aprile 2003” (citato in “Internazionale”, n. 460, ottobre 2002). Una straordinaria esemplificazione, si potrebbe dire, del nostro rapporto con tante risorse primarie!In tempi recentissimi, poi, si è cominciato a capire che “inquinamento” è in realtà ben altro, che nessuna dimensione della biosfera sfugge ormai al “guasto” crescente, neppure quella più remota, dalla quale dipende la nostra stessa sopravvivenza. Neppure il cielo sopra di noi. Nel libro di Giobbe c’è un’espressione che allude alla durata lunga, alla perennità anzi, al tempo che travalica i limiti umani: “Finchè durano i cieli”. L’espressione biblica significa che qualcosa che durerà “finchè durano i cieli” durerà per sempre. Ma come potremmo dirlo, oggi, quando i “cieli” sono anch’essi posti a repentaglio, a rischio di consunzione e appannamento e strappo? L’epoca che sta snaturando il tempo, mina le basi delle nostre certezze, fondate su millenarie convinzioni. Quando i farisei, per metterlo alla prova,  chiesero a Gesù che mostrasse loro un segno del cielo, egli rispose: “Quando si fa sera voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?.

Bush e le nevi del Kilimangiaro

Si potrebbe dire, oggi, che per molti versi interpretare l’aspetto del cielo e distinguere i segni dei tempi sono la stessa cosa. E che a non saper leggere né l’uno né gli altri sono, purtroppo, molte personalità che hanno grande potere e influenza sul nostro ambiente, e quindi sulle nostre vite, a cominciare dalla guida della potenza leader dell’attuale ordine mondiale. “Mentre i giornali scrivono che la calotta di ghiaccio del Kilimangiaro si sta sciogliendo e che i ghiacciai della Groenlandia si stanno sfaldando, il governo statunitense dice che i suoi consulenti scientifici devono approfondire le ricerche prima di compiere qualsiasi passo per ridurre i gas a effetto serra. Gli scienziati hanno risposto di aver già fatto tutte le ricerche possibili.”, ha scritto “The Guardian” in un’inchiesta sulla progressiva eliminazione delle leggi a protezione dell’ambiente da parte dell’amministrazione Bush: “L’atteggiamento della Casa Bianca nei confronti del riscaldamento globale è stato così riassunto dal giornalista Mickey Kaus: ‘Non è vero! E non possiamo farci niente!’. Invece tutti i politici americani sono terrorizzati dal fatto che è vero e che potrebbero trovare qualche soluzione, ma il prezzo da pagare per l’industria e lo stile di vita americano sarebbe enorme”. All’inizio del 2003, Michael Meacher, ministro per l’ambiente di Bush, ha dichiarato: “Nel nostro mondo c’è tanto di sbagliato. Ma la situazione non è grave come crede la gente. E’ molto peggio”. E ha elencato cinque grandi minacce alla sopravvivenza del pianeta: mancanza di acqua potabile, distruzione delle foreste e delle terre cotivabili, riscaldamento globale, abuso delle risorse naturali e incremento demografico fuori controllo. Poco dopo, Michael Meacher è stato sollevato dal suo incarico da George W. Bush, capo del “primo governo della storia moderna”, ha scritto “The Guardian”, “ad aver sistematicamente respinto i sistemi di controllo e verifica imposti dalle politiche ambientali adottate una generazione fa dalle società occidentali” (gli articoli del “Guardian” sono stati ripresi da “Internazionale” n.532 del 26 marzo 2004).

Primavere silenziose

Alle origini della moderna sensibilità ecologista c’è proprio la capacità di leggere i segni del cielo – il clima, le stagioni – come segni del tempo – della cultura e della mentalità dominante, degli stili di vita, dei modi di produzione e di consumo. Nella primavera del 1958, Rachel Carson, ecologa e biologa marina, ricevette una lettera dal New England. L’autrice era Olga Owens Huckin, una signora della classe media che nel tempo libero amava preparare birdcackes, i dolcetti di frutta, semini e strutto, di cui vanno ghiotti gli uccelli. Nel giardino della signora, però, da qualche tempo nessun uccello veniva più a mangiare. “Cara dottoressa, dove sono finiti?”, scrisse Olga, “Perché non cantano più?”. Rachel Carson, colpita, si mise a studiare il caso, a raccogliere dati, e quello che scoprì è davvero all’origine dell’ambientalismo moderno.   “D’improvviso un influsso maligno colpì l’intera zona, ed ogni cosa cominciò a cambiare. La popolazione cadde sotto una diabolica magia; il pollame fu decimato da misteriose malattie; i bovini e le pecore si ammalarono e perirono. Dappertutto aleggiava l’ombra della morte. Ogni giorno, nelle campagne, i contadini parlavano di malanni che colpivano le loro famiglie. Nelle città i medici erano costretti a far fronte sempre più spesso a malattie nuove che colpivano i loro pazienti. (…) Si trattava d’una singolare epidemia. Gli uccelli, per esempio: dov’erano andati a finire? Molta gente ne parlava con perplessità e sgomento; nei cortili non se ne vedeva più uno in cerca di cibo. I rari uccellini che si potevano vedere erano moribondi; assaliti da forti tremiti, non potevano più volare. La primavera era ormai priva del loro canto. Le albe, che una volta risuonavano del gorgheggio mattutino dei pettirossi, delle ghiandaie, delle tortore, degli scriccioli e della voce di un’infinità di altri uccelli, adesso erano mute; un completo silenzio dominava sui campi, nei boschi e sugli stagni (…)”: la scienziata che Rachel Carson era, in Silent Spring (pubblicato nel 1962, edito in Italia da Feltrinelli; brani della lettera della signora Olga Owens Huckin sono citati in un bell’articolo di Danilo Selvaggi apparso su “Alias”, supplemento del “Manifesto” del 27 luglio 2002) non raccontava gli effetti di una piaga biblica o di una stregoneria. “Nessuna magia”, scriveva, “nessuna azione nemica aveva arrestato il risorgere di una nuova vita: gli abitanti stessi ne erano colpevoli”. Descriveva invece, certo con una impressionante forza anche letteraria, gli effetti dell’uso del Ddt, e dei pesticidi, dell’agricoltura chimica, sulla natura e sui suoi cicli, evidenziando il nesso tra i veleni irrorati su piante e terreni e i guasti sulla vita nel suo insieme. Il silenzio, cioè la scomparsa, dei pettirossi del New England, studiato dalla Carson, divenne il caso paradigmatico che spiegò molto di ciò che stava accadendo alla Terra.

Lucciole

Con un approccio diverso, poetico-antropologico si potrebbe dire, Pier Paolo Pasolini nel celebre “articolo delle lucciole” (apparso sul “Corriere della Sera” il primo febbraio 1975, ora raccolto in Scritti corsari, Garzanti editore), poco più di un decennio dopo descrisse qualcosa del genere a proposito delle nostre campagne. “Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più”. Pasolini cercava, in effetti, di descrivere un fenomeno più vasto: la comparsa di “un nuovo tipo di civiltà, totalmente ‘altra’ rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale” e di “una nuova epoca della storia umana: di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche”. Da qualche parte, in verità, dopo quegli anni, è stata segnalata la ricomparsa delle lucciole, segno di una più marcata attenzione all’ambiente che localmente ha dato esiti positivi (e segno della forza della denuncia di Pasolini, capace di violare il muro di ottusità e interessi che aveva favorito, tra l’altro, la scomparsa delle lucciole per una sola delle quali, scriveva Pasolini, “io darei l’intera Montedison”). Purtroppo, non esiti globali. Anzi.

Rondini

E’ di questi anni, ad esempio, la denuncia della riduzione del numero e del preoccupante cambiamento di abitudini delle rondini, altri animali simbolici, segni primaverili per antonomasia, secondo la scienza almeno quanto secondo i proverbi. All’inizio della primavera del 2001 a un importante convegno internazionale tenutosi ad Ancona ha lanciato un preciso allarme sul loro continuo calo in Europa: siamo ormai al 40 – 60 per cento di presenze in meno. Si tratta di un decremento che si deve, in primo luogo, alla trasformazione delle campagne invase dai pesticidi, omologate dalle monocolture, e dove diminuiscono sempre più stagni e zone umide. Ora si aggiunge il surriscaldamento. La siccità che ne deriva rende difficile o impossibile costruire i nidi di fango e paglia, così come abbeverarsi durante i lunghi voli migratori. Le rondini nate in Europa, prima di partire verso l’Africa dove sono solite svernare (poiché hanno bisogno di vivere a 25-30 gradi), sostano e fanno il pieno d’acqua e di cibo in quelle zone umide la cui progressiva scomparsa colpisce al cuore le loro abitudini e necessità vitali. Gli effetti di questa situazione sono davvero singolari. Da un lato, e drasticamente, viene ridotto il numero delle rondini a causa dell’ambiente e del clima ostili. D’altro lato, è sempre più difficile il rifornimento per le lunghe rotte migratorie, al punto che si segnalano ormai spesso casi di rondini che restano a svernare in Italia per non affrontare un viaggio che non hanno più la forza e le riserve per fare. Uno stravolgimento di abitudini che, essendo la rondine uno straordinario indicatore biologico (una “specie-bandiera”, come ricorda il grande etologo Danilo Mainardi, in La strategia dell’aquila, Mondadori, 2000), allude in realtà al precario stato di salute generale del nostro ambiente, per raccontare il quale sarebbero necessari molti più esempi di “storia scritta dall’altra parte della barricata, quella degli sconfitti: alberi e animali, paludi e montagne, piegati al volere dell’uomo, dominatore e tiranno”, come scrive – tuttavia ricordando che ”l’ultima a morire è la speranza” - uno dei padri dell’ambientalismo italiano, Fulco Pratesi, in un testo significativamente rivolto a ragazzi e ragazze (Dalle caverne ai grattacieli. Gli italiani e l’ambiente, Laterza ragazzi, 1996).La percezione di questa precarietà, dell’insidia profonda e radicale che mette in causa il nostro futuro, si è fatta più acuta negli ultimi anni. Altri dati e altre esperienze hanno rivelato il pericolo con forza a volte sconvolgente. La torrida estate del 2003, con le migliaia di vittime provocate in Europa, o le inondazioni dell’autunno precedente, che hanno messo in ginocchio l’Europa centrale e orientale soprattutto, ma che hanno riguardato innumerevoli località in diversi continenti, il continuo manifestarsi di eventi climatici estremi, hanno drammaticamente mostrato a tutti che qualcosa di grande e di preoccupante sta accadendo.

Le guerre del clima

All’inizio del 2003 Il Worldwatch Institute di Washington ha pubblicato il suo annuale rapporto State of the World. Dal 1998, secondo gli scienziati e i ricercatori dell’autorevole istituto, lo scioglimento dei ghiacci risulta più che raddoppiato. Nella penisola di Larsen nell’Antartico, a conferma di questo dato, sono già crollati in mare 3250 chilometri quadrati di ghiacciai. A questo ritmo, secondo le previsioni, il livello dei mari potrebbe aumentare di 27 centimetri entro il 2100 (altre previsioni giungono fino a mezzo metro). Per ogni millimetro di innalzamento dei mari, è stato teoricamente accertato, scompare in media un metro e mezzo di costa. Se davvero si realizzasse almeno un innalzamento di 27 centimetri le acque avanzerebbero nell’entroterra di 405 metri (anche se questo calcolo andrebbe poi verificato localmente, in base alla diversa conformazione dei territori interessati). Un tale innalzamento comporterebbe la scomparsa di intere città costiere – l’Alto Adriatico, la Costa Atlantica degli Usa, l’Olanda e il Giappone sarebbero ad alto rischio - e sarebbe accompagnato da altri fenomeni anche di natura sociale, in parte peraltro già in atto. Dei 6,2 miliardi di persone che abitano la Terra, secondo il Worldwatch Institute 1,2 miliardi vivono in assoluta povertà, 2,5 miliardi rischiano di prendere malattie come la malaria, mentre più di cinquemila bambini muoiono ogni giorno per cibo, acqua e aria inquinati. Il modello prevalente di sviluppo (“insostenibile”) ha poi completamente ridisegnato la geografia della popolazione mondiale creando sconfinate megalopoli circondate da bidonville prive di acqua, elettricità e servizi igienici dove vivono oltre un miliardo di persone.Gli effetti patologici del cambiamento climatico sono stati in particolare al centro, nel dicembre del 2003, della nona conferenza internazionale sul clima tenutasi a Milano nel corso della quale l’Organizzazione mondiale di sanità (Oms) ha presentato un importante studio (svolto, però, prima della torrida estate del 2003 che nella sola Europa ha fatto oltre 20 mila morti). Il surriscaldamento, secondo l’Oms, provoca già 150 mila morti l’anno e questo numero raddoppierà entro il 2030 a causa dell’aumento ulteriore della temperatura. Alluvioni improvvise, lunghe siccità, aumento degli eventi meteorologici estremi, aumento della temperatura media creano un ambiente favorevole alla contaminazione dell’acqua e del cibo e agevolano lo sviluppo di infezioni, di malattie portate da insetti e roditori, oltre che del disagio e delle patologie provocate direttamente dal caldo. Già oggi si registrano aumenti dei casi di diarrea (2,4 per cento), di malaria (2 per cento), di salmonella, di dengue, di encefalite, con un’area a rischio che potrebbe giungere a coinvolgere oltre metà della popolazione mondiale.Ma se la nostra specie non se la sta passando bene, agli altri animali per molti versi sta andando anche peggio. Ogni anno, secondo State of the World 2003, 140 mila km quadrati di foreste tropicali scompaiono mentre “il pianeta sta vivendo la più massiccia ondata di estinzioni animali da quando i dinosauri sono stati spazzati via, 65 milioni di anni fa”. Secondo un rapporto pubblicato all’inizio del 2004 dall’autorevole rivista scientifica “Nature”, il riscaldamento globale potrebbe portare all’estinzione di un milione di specie animali  e vegetali entro il 2050. Quasi un terzo, cioè, degli animali e delle piante che oggi vivono sulla Terra. Una “minaccia senza precedenti alla biodiversità del pianeta”, secondo Extinction Risk From Climate Change, lo studio più esteso e rigoroso finora realizzato sugli effetti in atto e su quelli virtualmente attesi dei mutamenti climatici prodotti dall’effetto serra sulla base dei dati raccolti dall’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite, che ipotizza un aumento di temperatura media globale da 1,4 a 5,8 gradi centigradi entro il 2100. Lo studio ha disegnato tre scenari: quello più “confortante” prevede l’estinzione “solo” del 18 per cento delle specie vegetali e animali della Terra, quello di media gravità l’estinzione del 24 per cento e quello più cupo la scomparsa del 37 per cento delle specie.Ma il rapporto forse più sconvolgente sugli effetti dei cambiamenti climatici non  è stato predisposto da un’agenzia per l’ambiente o da un’associazione ecologista. Il 26 gennaio 2004 il settimanale statunitense “Fortune” ha pubblicato un articolo su un rapporto segreto del Pentagono, di cui era entrato in possesso. Secondo questo rapporto, commissionato dal consigliere alla difesa Andrew Marshall – un uomo di 82 anni, una specie di mito al Pentagono, che da anni influenza fortemente gli orientamenti dei militari americani – nei prossimi vent’anni il cambiamento del clima potrebbe provocare una catastrofe su scala planetaria, con milioni di vittime causate, oltre che dall’ambiente dissestato, da nuove guerre provocate proprio da quel dissesto. In tutto il mondo, secondo il Pentagono, si scateneranno infatti gravissimi disordini e guerre e conflitti anche di tipo nucleare. La rapida, drastica alterazione del clima, infatti, può portare l’intero pianeta in piena anarchia, con i diversi stati spinti a dotarsi di armi nucleari per difendere o procurarsi le sempre più scarse risorse alimentari, idriche ed energetiche. Si tratta di una minaccia all’ordine e alla sicurezza molto più grave di quella del terrorismo. “L’esistenza umana tornerà a essere condizionata dalla guerra”, conclude il Pentagono. Secondo i due estensori del rapporto - Peter Schwartz, consulente della Cia ed ex responsabile della pianificazione del gruppo Royal Dutch/Shell, e Doug Randall, del Global business network, con sede in California - il cambiamento climatico “non dovrebbe essere oggetto del solo dibattito scientifico, ma dovrebbe diventare una questione rilevante per la sicurezza nazionale”.Elaborato all’interno dell’amministrazione statunitense, il rapporto del Pentagono è “uno schiaffo morale per l’amministrazione Bush, che ha ripetutamente negato l’esistenza stessa del cambiamento climatico”, ha scritto “The Observer” rilanciando in Europa lo scoop di “Fortune”. La pubblicazione ha così dato fiato alle critiche di molti scienziati che da tempo attaccano Bush per le sue posizioni in questa materia e anche perché censurerebbe dati e notizie che confermano le preoccupazioni degli ambientalisti. Di recente, decine di scienziati, tra i quali venti premi Nobel, hanno lanciato una precisa accusa in questo senso con una lettera aperta e con un rapporto di 46 pagine. In particolare, il rapporto rimprovera all’amministrazione Bush di avere ordinato di cambiare e poi di eliminare tutta la sezione dedicata al riscaldamento globale della relazione sull’ambiente 2003 dell’Ente statunitense per la protezione ambientale (Epa). Lo stesso rapporto del Pentagono è stato tenuto nascosto per mesi. Oggi che è stato reso pubblico, però, sono in molti a sperare che qualcosa possa cambiare. “Se il Pentagono manda questi segnali, il documento è veramente importante”, ha dichiarato all’Observer sir John Houghton, ex direttore generale dell’Ufficio meteorologico. “Da una parte c’è il presidente secondo cui il riscaldamento globale è una frottola; dall’altra, oltre il fiume Potomac, c’è il Pentagono che si prepara alle guerre del clima. Se Bush ignora anche il suo governo su questo argomento c’è veramente da avere paura”, ha osservato Rob Gueterbock di Greenpeace. “E’ una faccenda poco allegra”, conferma Randall, co-estensore del rapporto del Pentagono. “Si tratta di una minaccia alla sicurezza nazionale senza precedenti, perché non c’è un nemico contro cui puntare le armi e noi non possiamo controllare in alcun modo la catastrofe”, ha ammesso. (L’articolo di “Fortune”, parzialmente riprodotto da “The Observer”, viene ripreso in “Internazionale” n. 528 del 27 febbraio 2004, che ripropone anche un articolo del “Philadelphia Inquirer” sulle accuse di molti scienziati all’amministrazione Bush. Anche il rapporto dell’Università di Leeds sul rischio di estinzione di molte specie è stato ripreso da “Internazionale”, n. 522 del 16 gennaio 2004)

Fuori dai gangheri

In realtà il presidente George W. Bush, fanatico difensore dei privilegi del suo paese (“Il sistema di vita americano non è negoziabile”, ha dichiarato più volte), continua pervicacemente a ignorare, a negare cosa sta succedendo. Non è lo stesso Bush che, contro gli incendi di boschi e foreste, ha proposto di tagliare gli alberi? Questa miopia disperante, o questa protervia, sono esse stesse parte del dissesto ambientale. Concausa dello squilibrio, come ogni egoismo e insipienza umana, ne sono diventate anche un effetto, poiché la paura di dover cambiare e l’incapacità di immaginare un modo per farlo tendono a paralizzare nella rimozione del problema coloro che dovrebbero assumersi questa responsabilità. Non depreca forse Amleto, considerando come il tempo sia out of joint, il destino di chi sia nato per rimetterlo in sesto? (“The time is out of joint; O cursed spite / That ever I was born to set it right!”, cioè: “Il tempo è uscito dai gangheri; - O dannata sorte, che proprio a me tocchi esser nato per rimetterlo a posto”. E’ tuttavia da escludere che George Dabliù senta su di sé questa responsabilità, questa missione – e anche quelle di cui si sente investito, sarebbe meglio che lasciasse perdere…).Fuori dai gangheri, intanto, il clima produce fenomeni che vanno sconvolgendo gli equilibri consolidati del pianeta, come dimostrano senza dubbio alcuno le conclusioni delle numerose ricerche condotte e coordinate dal più importante programma scientifico sul cambiamento globale – l’International Geosphere Biosphere Programme (IGBP) dell’International Council for Science (ICSU), l’organizzazione di tutte le unioni scientifiche del mondo – oggi accessibili nel volume curato da Lester Brown, Bilancio Terra. Gli effetti ambientali dell’economia globalizzataScience sono pienamente in corso anche in Europa e anzi, per molti aspetti, nel nostro continente in modo più intenso e accelerato. Se infatti nell’ultimo secolo la temperatura del pianeta è aumentata di 0,6 gradi, in Europa è aumentata di 0,8 gradi, con un’accelerazione ulteriore negli ultimi decenni, che spinge a ipotizzare un aumento di 1,4 gradi in un secolo. Gradi che però balzerebbero molto più all’insù se misurati sul trend degli ultimi dieci anni. I dati e le ipotesi di Berna confermano gli scenari tratteggiati dall’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) sul nesso tra cambiamenti climatici e modello industriale alimentato da combustibili fossili. La peculiare situazione europea, la sua maggiore gravità rispetto al quadro planetario medio, secondo questo studio, dipende dall’influenza termica della grande massa continentale eurasiatica e dal limitato ruolo moderatore svolto dagli oceani, che accentuano l’effetto di riscaldamento. (Edizioni Ambiente, 2003). In breve, i soli dati relativi al mutamento climatico, disegnano la seguente sequenza. L’aumento della temperatura media tende a sciogliere i ghiacci e a far crescere il livello dei mari, mettendo a repentaglio città costiere ed entroterra. L’aumento della massa d’acqua dolce causato dallo scioglimento dei ghiacci, rischia di bloccare la corrente del Golfo che mitiga il clima tra Atlantico ed Europa: ne potrebbe derivare un clima di tipo siberiano in Gran Bretagna e in parte dell’Europa del nord. Viceversa, siccità e aridità cominciano ad avanzare in molte aree oggi fertili in Asia, Africa ed Europa e il ciclo dell’acqua rischia di venire sconvolto. La maggiore evaporazione tende a far aumentare la frequenza e la violenza degli uragani e la siccità ad alternarsi ad alluvioni improvvise. I grandi sistemi urbani, così, rischiano di trovarsi in condizioni sempre più pesanti, con la necessità di usare energia per fronteggiare la temperatura crescente in un circolo vizioso che rappresenterebbe a sua volta una trappola infernale. Tutti questi fenomeni, secondo un recente studio dell’Università di Berna pubblicato dall’autorevoli.

Protocolli e fughe

Naturalmente, ciò che solo oggi un’opinione pubblica più vasta sembra comprendere - malgrado l’ineffabile, stolido Bush, capofila di una pletora di potenti ugualmente indifferenti alle sorti dell’ambiente - era stato visto tempestivamente da alcuni che a lungo, in solitudine, hanno cercato di lanciare l’allarme. E’ la storia dell’ambientalismo, soprattutto, ma è anche la storia di esperienze di agenzie, reti, movimenti, perfino istituzioni locali e internazionali. Il primo grande appuntamento che si è occupato specificamente dei cambiamenti climatici è stata la Prima conferenza mondiale sul clima, convocata nel 1979 a Ginevra su iniziativa della Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) con la partecipazione di numerosi scienziati di diverse discipline. Altre conferenze internazionali hanno seguito quella fino a giungere nel 1990, ancora a Ginevra, alla Seconda conferenza mondiale sul clima. Poco prima, nel 1988, l’ONU aveva deliberato la costituzione della Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico (IPCC), composta da 2500 scienziati ed esperti. Tuttavia, il primo vero strumento di intervento con valore legale su scala internazionale è stata la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, approvata dopo lunghe trattative nel maggio del 1992 e presentata nella Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno del 1992. Sottoscritta da 181 Stati (più la Comunità europea), ratificata in 50 paesi, è entrata in vigore nel marzo 1994. E’ costituita da una serie di principi e di impegni generali tesi all’obiettivo di fondo: stabilizzare i gas serra a un livello tale da impedire pesanti interferenze sul clima. Altri atti importanti sono stati la Convenzione di Vienna a difesa dello strato di ozono (1985) poi integrata dal Protocollo di Montreal (1987) sulla riduzione dei clorofluorocarburi (CFC) entrato in vigore nel 1989, sottoscritto da 100 Stati (più la Comunità europea). Con questi e altri atti e trattati si è andata delineando una sorta di giurisprudenza internazionale sull’ambiente, anche se ancora vaga e limitata agli Stati che volontariamente vi aderiscono. I quali, poi, non sempre si attengono a quanto hanno sottoscritto. Proprio le vicende della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico lo dimostrano. I sottoscrittori riconoscono che i paesi più industrializzati hanno maggiori responsabilità sull’inquinamento del pianeta e dunque dovrebbero agire con maggiore incisività degli altri. E’ stato calcolato infatti che l’uso di combustibili fossili – in Europa, Nordamerica, giappone e pochi altri paesi industriali – ha prodotto l’emissione di circa 850 miliardi di tonnellate di anidride carbonica che vanno sommati ad altri 370 miliardi provocati dalla deforestazione. Questi paesi sono tuttora responsabili del 75 % delle emissioni globali di anidride carbonica e primi fra tutti sono gli Stati Uniti i quali, pur avendo una popolazione equivalente a meno del 5% di quella mondiale, producono il 25% delle emissioni totali di anidride carbonica (tutto quello che insieme emettono oltre 100 paesi in via di sviluppo, la cui popolazione costituisce l’80 % di quella mondiale). La Convenzione quadro del 1992 impegnava i paesi sottoscrittori a stabilizzare entro il 2000 le loro emissioni ai livelli del 1990. Fallito l’obiettivo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite convocata nel giugno 1997 per verificare l’applicazione dell’Agenda 21 predisposta al vertice di Rio del 1992 (cioè l’insieme degli atti e delle azioni necessarie a ogni livello, su scala globale e locale, per dar seguito agli impegni assunti con la Convenzione quadro nella prospettiva del XXI secolo) ha posto l’obiettivo di ridurre entro il 2005 del 20 % le emissioni rispetto al 1990. Ma è proprio in questa occasione che è emersa con nettezza l’opposizione di importanti paesi, a cominciare dagli Stati Uniti (con Canada, Australia, Giappone), ad assumere impegni davvero vincolanti. A questi paesi si sono affiancate le grandi lobbies petrolifere (compagnie private e paesi dell’OPEC) timorose di un calo dei consumi petroliferi. L’Unione Europea ha avuto una posizione diversa, favorevole al fatto che i paesi industriali si impegnino a ridurre le proprie emissioni di gas serra del 15% entro il 2010 rispetto al 1990. E’ in questo quadro di confronti e discussioni che si è arrivati nel 1997 a firmare il “Protocollo di Kyoto”, come strumento tecnico attuativo della Convenzione sui cambiamenti climatici. Il Protocollo fissa i limiti delle emissioni che bisognerebbe rispettare per non aggravare il quadro dei cambiamenti climatici. Suscitando nuove speranze, Kyoto si è data l’obiettivo del 5,2 % di emissioni in meno  di gas serra rispetto al 1990, da perseguire entro il 2008-2012. E’ stato però ben presto chiaro che di quel Protocollo non si sarebbe fatto gran che. Per avere valore, infatti, è necessario che il testo venga ratificato da almeno il 55% dei paesi firmatari le cui emissioni siano pari almeno al 55% del totale. Dopo aver tentennato ed eluso il problema già con l’amministrazione Clinton, con l’avvento al potere di George W. Bush gli Stati Uniti hanno dichiarato apertamente di non voler ratificare il Protocollo. Di fatto, insomma, dopo e malgrado gli impegni di Kyoto (e dopo, nel settembre 2002, di Johannesburg, sede del nuovo “World Summit on Sustainable Development” delle Nazioni Unite) le cose sono in realtà peggiorate. Nel frattempo, come abbiamo visto, nuovi dati e nuove proiezioni di scenario hanno confermato le angoscianti previsioni sui mutamenti climatici. Tra queste, l’evidente crescita di vere e proprie migrazioni determinate dai mutamenti del clima. Come ha scritto Norman Myers (in Esodo ambientale. Popoli in fuga da terre difficili, Edizioni Ambiente, 1999), “il risultato è lo sradicamento di gruppi umani, costretti a lasciare la loro terra per andare incontro a condizioni di vita povere ed estremamente precarie”.

Un recentissimo panorama del rapporto tra crisi ambientale e  conflitti sociali, con una sorta di avvincente “catalogo” delle resistenze in corso è presente in  La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel Sud del mondo, di Marina Forti (Feltrinelli, 2004), che si conclude con le parole di Medha Patkar, appunto la signora che guida la resistenza contro le dighe degli abitanti della valle di Narmada in India, parole che valgono per tutte le popolazioni indigene del pianeta, le più insidiate oggi: “Le risorse naturali si difendono attraverso una democrazia popolare e partecipativa, dove le comunità indigene, gli abitanti della foresta o le comunità rivierasche siano trattate come parte eguale nella società, con diritti economici, sociali e politici”.

In questi anni si è anche andato sempre più evidenziando il nesso che lega lo stato di degrado del pianeta e le trasformazioni in corso nel clima non solo alle grandi attività umane, produzione industriale e sfruttamento dei combustibili fossili in primis, ma anche agli stili di vita, a cominciare dai consumi. Non  a caso l’ultimo rapporto del Worldwatch Institute, State of the World 2004 (Edizioni Ambiente, 2004, a cura di Gianfranco Bologna) è tutto incentrato sui consumi, anzi sulla “società dei consumi e i suoi effetti sui sistemi naturali e sui sistemi sociali del mondo” e sugli “obiettivi di promozione di modelli di consumo e produzione che riducano gli stress ambientali e siano nel contempo capaci di rispondere ai bisogni di base dell’umanità”. Allo stesso vertice di Johannesburg, il tema si è posto con nuova forza, in particolare nell’ambito del piano d’azione infine approvato, con un punto specifico intitolato Cambiare gli stili di vita non sostenibili di produzione e consumo. Vi si legge: “Per ottenere lo sviluppo sostenibile globale devono aver luogo cambiamenti fondamentali nel modo in cui le società producono e consumano. Tutti i paesi dovrebbero promuovere stili di consumo e di produzione sostenibili, particolarmente i paesi sviluppati”.

L’accento posto con nuova forza sul tema dei consumi allude alla responsabilità collettiva, al fatto che ognuno di noi contribuisce al degrado ambientale complessivo ma anche al fatto che ognuno di noi, dunque, può attivamente e quotidianamente contribuire a un mutamento di prospettiva, a un’inversione di tendenza anche solo a partire dal proprio stile di vita (indicazione preziose e concrete, anche per  modificare i propri stili di vita, si possono trovare in un libro di F. Gesualdi, Guida al consumo critico, Emi, 2003, mentre su tutta la realtà del “commercio equo e solidale”, cioè il settore di mercato che sta rispondendo all’esigenza di “consumi critici e consapevoli”, si veda il recente La crisi di crescita di L. Guadagnucci e F. Gavelli, Feltrinelli, 2004) E’ un richiamo fondamentale poiché l’insieme dei nostri atti e delle nostre scelte può veramente influire sui grandi processi, può condizionare i mercati e i sistemi e i contenuti della produzione come pure i sistemi politici ed economici. L’opinione pubblica, come si è visto anche nella recente crisi internazionale sull’Iraq, è davvero una “superpotenza” dalla quale è sempre più difficile prescindere. La difesa della pace e della sicurezza internazionale passa anche per un cambiamento radicale degli stili di vita e per una richiesta forte, non più eludibile, di un mutamento degli attuali processi produttivi ed energetici. Consumi e stili di vita dipendono spesso da noi, dalla nostra capacità di sottrarci alle suggestioni pubblicitarie e conformistiche e a riprenderci la capacità di scelta, di autodeterminazione. Da noi, anche, dipende la possibilità di una svolta che imponga la fuoriuscita dal distruttivo, dissipativo, energivoro modello attuale. Ha scritto Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute e ora direttore dell’Earth Policy Institute: “La chiave per ripristinare la stabilità climatica è passare da un’economia energetica che dipende dai combustibili fossili a una basata su fonti energetiche rinnovabili e sull’idrogeno. L’evoluzione tecnologica delle turbine eoliche – che ha abbassato i costi dell’elettricità generata dal vento, al punto che questa si propone come fonte di energia ideale per produrre idrogeno dall’acqua – e dei motori a celle a combustibile hanno posto le basi per una totale ristrutturazione dell’economia energetica mondiale. Questo cambiamento è in atto, ma non sta avvenendo a una velocità sufficiente a evitare l’accumulo in atmosfera di quantità di CO2 tali da alterare il clima” (in Bilancio Terra, cit.).


Da Kyoto a Venezia


A dimostrazione di quanto insufficienti siano gli sforzi in atto, e di quanto forti siano invece le resistenze di poteri e interessi legati all’attuale modello di sviluppo, basti considerare gli esiti delle ultime due grandi occasioni internazionali di confronto su questi temi, il vertice mondiale di Johannesburg dell’agosto-settembre 2002 e la nona conferenza internazionale sul clima tenutati a Milano nel dicembre 2003. Entrambi i summit hanno girato intorno alla questione della ratifica del Protocollo di Kyoto, ed entrambi, su questo punto, non hanno avuto soluzione. La “scheda finale” di Johannesburg è presto compilata: un piano d’azione, articolato in 65 pagine e in 152 punti, che elenca una serie di obiettivi quasi mai seguiti da precisi impegni e scadenze; il reiterato rifiuto degli Stati Uniti, di gran lunga i maggiori “consumatori di ambiente” del mondo, di assumere impegni concreti nel contesto internazionale; l’abbandono del vertice da parte delle maggiori associazioni ambientaliste; la genericità assoluta degli impegni assunti sulle energie rinnovabili; il generico impegno a dimezzare entro il 2015 il numero delle persone che non hanno accesso all’acqua potabile; la conferma dell’intenzione dei paesi ricchi di destinare lo 0,7 % del loro PIL agli aiuti per lo sviluppo senza tuttavia eliminare le sovvenzioni agricole che danneggiano i paesi in via di sviluppo. Insomma, un sostanziale fallimento. La cosa più significativa annunciata a Johannesburg 2002, in realtà, era un tardivo frutto di Kyoto 1997, cioè l’annuncio che era stata raggiunta l’intesa per la ratrifica del trattato internazionale sulle emissioni di gas serra. Un annuncio che avrebbe avuto da solo più peso di tutte le 65 pagine e dei 152 punti del piano d’azione approvato. Peccato che solo un anno più tardi, a Milano appunto, alla nona conferenza internazionale sul clima, quell’annuncio sia stato smentito. Scontata la defezione degli Stati Uniti, si puntava molto sulla ratifica da parte della Russia (grande inquinatore anch’essa, fin dai tempi dell’Unione Sovietica, la cui eredità è drammatica anche sotto il profilo ambientale), ratifica che avrebbe consentito da sola il raggiungimento del numero di adesioni necessario per far entrare in vigore il Protocollo. A Milano la Russia si è ben guardata dal confermare questo annuncio, rinviando ogni decisione a dopo le elezioni presidenziali previste per la primavera del 2004. Nel frattempo, nella stessa Unione Europea, che aveva dichiarato di voler comunque procedere sulla strada di Kyoto anche in assenza delle adesioni statunitense e russa, si sono aperti dubbiosi varchi, con Italia e Spagna determinate a rallentare il passo e, semmai, a rivisitare Kyoto per alleggerirne le prescrizioni e gli impegni. Per inciso, le emissioni serra dell’Italia continuano a crescere. Se per onorare gli impegni europei a fronte del protocollo di Kyoto l’Italia dovrebbe tagliare le emissioni di gas serra del 6,5 % entro il 2012 rispetto al 1990 finora le ha invece aumentate nella stessa misura in cui avrebbe dovuto ridurle. A fronte del nuovo sostanziale fallimento, i piccoli passi in avanti settoriali compiuti hanno solo il merito di segnalare come, anche in assenza di prevalenti politiche ufficiali determinate ad applicare le linee di Kyoto (e di Rio), vi siano appunto esperienze che tenacemente e, spesso, creativamente, continuano a muoversi in una direzione nuova pur tra difficoltà e insidie di ogni genere. Ad esempio, basti pensare come a Milano si sia deciso di riforestare per assorbire CO2 ma come, nel contempo, sia stata avanzata la proposta di creare alberi geneticamente modificati. Oppure al fatto che a fronte della decisione di finanziare con un fondo speciale per i cambiamenti climati i paesi poveri si sia infine stanziata una vera miseria, 410 milioni di dollari (396 dei quali stanziati dall’Europa). Per il resto, anche Milano conferma che il solo strumento che apra qualche prospettiva, rimane, con tutti i suoi limiti, il Protocollo di Kyoto. Anche per questo, neppure gli ambientalisti se la sentono di dichiararlo definitivamente fallito. Semmai, la questione ritorna prepotentemente a porsi sul piano politico. C’è una enorme disparità di mezzi e di forza tra gli organismi, i poteri, gli interessi che difendono l’attuale sistema (sia pure parlando di graduali cambiamenti…) e la capacità di influire dell’ambientalismo. Né Greenpeace o il Wwf, né i Verdi o altre forze politiche sensibili alla questione dell’ambiente, né istituti come il Worldwatch o organismi come l’IPCC, né i governi di paesi diversamente orientati riescono ancora a bilanciare o a superare il peso di organismi come il WTO (l’Organizzazione Mondiale del Commercio), delle compagnie petrolifere o del governo degli Stati Uniti e neppure a convincere a spostarsi da questo lato – quello delle alternative energetiche e delle “buone pratiche” ambientaliste – governi come quello russo o cinese o indiano, che pure hanno grandi responsabilità sullo stato di crisi ecologica del pianeta, di cui registrano spesso gli effetti sconvolgenti anche sul proprio territorio.

E’ dunque urgente un forte e globale rilancio politico della questione energetica e ambientale, all’altezza vertiginosa e ineludibile di una sfida come quella apertasi con l’avvio del mutamento climatico giunto oggi a un punto di svolta drammatico. L’Unione europea può giocare un ruolo importante in questa crisi. Può, intanto, riconoscerla pienamente, senza negarla o sottovalutarla. Può davvero decidere di procedere unilateralmente sulla via di Kyoto, malgrado il freno di Italia e Spagna, anzi costringendo anche i governi di questi paesi a seguire questa linea (compito reso più facile dal cambiamento politico realizzatosi in Spagna con la vittoria del socialista Josè Luis Rodriguez Zapatero alle recenti elezioni politiche, svoltesi sotto il  segno tragico del terribile attentato di Madrid). Può dar vita a una sorta di Patto di stabilità europeo per il clima, dimostrando di saper valutare l’ambiente almeno importante quanto l’economia. Può impegnarsi a dar vita a una Organizzazione Mondiale dell’Ambiente, capace di bilanciare il peso e l’influenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Oggi abbiamo un mercato ormai globale, e organismi globali che lo sostengono (praticamente senza limiti e acriticamente, tutti allinati al pensiero unico neoliberista), ma non abbiamo organismi o istituzioni che tutelino l’ambiente con pari efficacia e autorevolezza. Può, ancora, l’Unione europea, sostenere le amministrazioni locali, le città, che decidano di seguire le “buone pratiche” che Rio e Kyoto e Johannesburg consigliano e che localmente possono dar buoni frutti (ma molti luoghi segnati da buone pratiche possono dare anche buoni esiti globali). Una delle città più esposte ai cambiamenti climatici, per molti versi anzi la città simbolo del rapporto tra specie umana e ambiente, Venezia, che da tempo si è impegnata  sviluppare “buone pratiche” ha tenuto di recente una conferenza sul clima (“Cambia il clima, cambia Venezia”, dal 22 al 28 marzo 2004). Nel corso del Novecento a Venezia si è registrato un aumento di 23-24 centimetri del livello medio del mare per l’effetto combinato della crescita globale del livello delle acque sul pianeta e dello sprofondamento per subsidenza del sottosuolo, aggravato dall’estrazione di acqua per le industrie di Marghera, le cui emissioni sono responsabili inoltre del grave stato di degrado e inquinamento del territorio lagunare, e non solo data la portata di quelle emissioni. . .(continua)