Il debito di cittadinanza

Utente: garbat
22 / 1 / 2012

La recente rivolta siciliana dei "forconi" offre tutti gli strumenti perché la nostra riflessione sulla crisi, si arricchisca di elementi di analisi materialistica su ciò che produce sulla dimensione sociale e produttiva, e politica, sul ruolo cioè che l'azione soggettiva può generare in termini di risposta collettiva ai suoi effetti.

Anche nella vicenda dei "forconi" vi sono aspetti generali e ricorrenti che vanno individuati: dalla Sardegna a Catania, dal nordest alla provincia toscana, emiliana, marchigiana, la composizione del lavoro che esplode e' quella del piccolo produttore o possessore dei mezzi di produzione per il conferimento di beni di prima necessita', agricoli o della pesca ad esempio, o per la fornitura di servizi, autotrasporti in primis. Sono le partite iva e le cooperative, le piccole aziende a conduzione familiare sotto i 15 dipendenti, le associazioni di categoria che sono al tempo stesso forme di organizzazione del lavoro, lobbies per la contrattazione sul mercato e sindacato per la negoziazione con i vari livelli di governo, almeno su tre dimensioni: regionale, nazionale ed europeo. Questo tipo di composizione del lavoro, che diremmo agricolo e autonomo di prima generazione, ha rapidamente introiettato su di se' tutte le tensioni scaricate dalla crisi sistemica: la corsa alla privatizzazione di beni e servizi, se prima conferiva un qualche potere negoziale a chi era chiamato, il privato appunto, a fornire in termini sussidiari ciò che lo stato non garantiva più come diritto, si e' trasformata in terreno della concorrenza pura su scala globale, senza alcuna mediazione. Lo stesso concetto di sussidiarietà, e' scomparso.

Il welfare, i servizi pubblici, il controllo delle filiere di produzione alimentare a favore di una qualità sociale garantita ai cittadini, sono stati trasformati da diritti a merci scarse, e il mercato ha preso il posto di ogni regolazione "politica" del sistema. Quelle che potevano essere viste come potenti "corporazioni" dei piccoli produttori, oggi sono diventate tribù in lotta contro il mondo per sopravvivere. I pescatori, gli autotrasportatori siciliani, i pastori sardi, i piccoli imprenditori del nordest, oggi sono l'esempio più eclatante di quella nuova figura antropologica che sta alla base della nuova era della crisi: l'homo indebitatus. Più e oltre il concetto di precarietà, che essendo divenuto generale e generalizzato risulta oggi quasi generico, ed e' ormai utilizzato come categoria dello spirito più che della materia, l'uomo indebitato e' il primo anello sociale, la prima pietra, su cui si fonda la società del debito, ovvero la nostra contemporanea forma di popolo.

Lo stato nazione sembra definito non più dalla lingua, dal popolo e dai confini, ma dal coefficiente debitorio impresso in ognuno dei suoi cittadini fin dalla nascita. Il "debito di cittadinanza" e' la misura comune dell'appartenenza, ed e' una marchiatura di "colpa", e non certo di opportunità . Dal debito di cittadinanza, che serve a definire le caratteristiche dell'assoggettamento al mercato e al sistema del capitalismo finanziario che ne costituiscono la "religione" come diceva Benjamin, si procede verso l'acquisizione soggettiva di un debito diseguale, stratificante e cucito addosso ad ognuno di noi. La differenza fra i due tipi di debito e' che il primo e' deciso politicamente dallo stato ed e ' il prodotto della negoziazione globale e speculativa sui debiti sovrani, e ha come conseguenza un vero e proprio deficit di politiche pubbliche, di diritti sociali, di giustizia e di eguaglianza. Più alto e' il debito di cittadinanza, e minore sarà la qualità della vita pubblica e della democrazia. Il secondo si traduce invece come accumulo soggettivo di debito e si trasforma rapidamente in povertà.

E' la storia anche della Sicilia, dove i pignoramenti di Equitalia sono uguali e  peggiori che altrove. L'uomo indebitato infatti consuma a credito e vive a rate. Dal punto di vista sistemico, esso come gli autotrasportatori, non può nemmeno più godere delle riduzioni sulle accise dei carburanti alimentate dai fondi regionali, o sul sostegno a pesca e agricoltura: i fondi europei che venivano utilizzati a tal scopo, sono stati impiegati altrove, e qui scatta la rivolta. Le tribù poi hanno le loro leggi e tradizioni: che la filiera del trasporto merci su gomma sia controllata da cosa nostra e' risaputo. Che Forza Nuova invece, come tento' di fare a suo tempo con la protesta delle quote latte al nord, provi a legittimarsi soffiando sul fuoco della protesta, e' un fatto concreto e di cui, senza alcuno stupore, bisogna prendere atto. La resistenza ai processi della pauperizzazione sociale e della crisi, come primo risultato ha quello di spingere verso la chiusura, l'autodifesa corporativa, etnica, escludente, e non conduce certo in maniera lineare verso il sol dell'avvenir. La questione e' sempre quella di una visione del mondo alternativa da proporre. Quando non ve ne e' traccia e tutto si risolve nella rabbia, o nella rivendicazione corta delle tribù di appartenenza, la destra peggiore, xenofoba, razzista, fondamentalista, e' sul suo terreno.

Ma le condizioni sociali che sono generate dalle politiche di crisi non si possono non affrontare. Che cosa significa dunque costruire il comune in queste condizioni? Quale e' l'alternativa alla società del debito e delle tribù? La Sicilia oggi ci parla drammaticamente dell'orlo del precipizio dal quale siamo costretti a guardare l'orizzonte. Ma non c'è altra strada che quella di guardare alla realtà: dobbiamo occuparci di ciò che ci accade attorno non perché sono "lotte" e quindi vanno sempre bene, ma perché potrebbero anche portarci verso qualcosa di peggiore, che in questa fase esse contengono insieme alla sacrosanta indignazione. Non c'è altra strada che quella dell'invenzione di nuovi paradigmi di eguaglianza e giustizia sociale che non nascono da nessuna astratta teoria ma dal ridisegnare continuo del territorio e delle relazioni sociali che lo innervano, nel locale che e' sempre globale allo stesso tempo, in mezzo ad un mare di contraddizioni dove niente e' scontato o lineare. La soggettività dunque, quella del comune dell'alternativa, comincia col non farsi facili illusioni sull' oggettiva risposta sociale alla crisi. La contraddizione e' l'orlo del precipizio su cui dobbiamo camminare.

 E' per questo che vorremmo ragionare sui forconi e su altro in termini di complessita' e contraddizione. Vorremmo ragionare onestamente sulla crisi, sulle risposte sociali che ad essa si contrappongono, abbandonando le facilonerie. Come primo atto concreto di una speranza che sappia già praticare il cambiamento.