Il governo dei bulli e il "bullismo" come sistema politico

19 / 7 / 2018

Non ci è certo sfuggito il termine usato dal finto premier del governo italiano, Giuseppe Conte, quando ha sostenuto di aver «bullizzato l’Unione Europea» nelle trattative sulla questione migratoria. A parte l’aspetto comico della faccenda, in cui il bullo immaginario lascia intendere di essere stato forte con i “deboli” rappresentanti degli Stati europei, mentre, semmai, è stato il contrario, ci soffermiamo sul termine usato: Ma come! Ovunque ci sono campagne di lotta contro il bullismo, a partire dalle scuole, e il capo del governo se ne esce con questo termine come se fosse un valore? Non ci stupiamo: se bullismo significa «forti con i deboli e deboli con i forti», irrisione e disprezzo rispetto ai corpi dei profughi lasciati morire, questo è proprio il governo dei bulli. Diciamo di più: è il bullismo elevato a sistema politico!

Al di là dell’episodio degno della commedia all’italiana e che può solo provocare amara ilarità, questo pone un problema estremamente serio: il problema del linguaggio come produzione di soggettività sociale e il suo carattere performativo. Non c’è dubbio che la controrivoluzione neoliberista, a partire da Berlusconi e attraversando tutti gli schieramenti della politica istituzionale, ha agito sul piano del linguaggio e della comunicazione. In che modo? In primo luogo destrutturando il linguaggio e l’immaginario sociale degli anni ’60 e ‘70: attorno alle lotte e ai movimenti di emancipazione di classe i valori performativi del linguaggio parlavano di eguaglianza, solidarietà di classe, rifiuto dello sfruttamento, nemicità contro i padroni e i loro governi. Una potente macchina desiderante si era messa in moto, l’utopia di un nuovo mondo si era fatta corpo sociale, dalle fabbriche ai quartieri, nelle strade, nelle piazze, in un flusso incontenibile di invenzioni comunicative: radio libere, stampa indipendente, espressioni artistiche, musicali, teatrali. E poi le scritte sui muri: «aumenti salariali uguali per tutti», «più salario meno orario», «riprendiamoci la vita e la città», «vogliamo tutto», «i Lama stanno nel Tibet», per citare alcuni noti esempi. Mai espressione fu più potente, ironica e irridente contro la miseria del compromesso storico e della politica dei sacrifici da parte del P.C.I. e del sindacato.

Un linguaggio che allora, nel decennio tra il ’68 e il ’77, diventò corpo collettivo, potenza di agire su una molteplicità di piani e dimensioni. Come diceva Marx «il linguaggio non è una sovrastruttura della coscienza, ma è questa stessa coscienza pratica e materiale». Detto altrimenti, il linguaggio produce soggettività sociale, attraversata dalle relazioni di potere, ma anche dalle potenzialità di liberazione: un campo di battaglia, uno scontro tra forze che implica tattiche e strategie, come in ogni guerra. La produzione della soggettività, infatti, va intesa nel duplice senso - ambiguo e contradditorio - che è insito nella stessa parola “soggetto”: in senso passivo sta a significare colui che è assoggettato, dominato, dipendente da una volontà esterna; in senso attivo esso contiene possibilità di autonomia, autodeterminazione, liberazione. In questo gioco di forze antagonistiche, tra dominio e libertà, si aprono faglie nel blocco del potere e la possibilità di creare una nuova narrazione. Nella misura in cui viene destrutturato e decostruito il linguaggio del nemico, è necessario costruire un nuovo linguaggio, una nuova invenzione delle forme di vita sociale e comunicativa.

La controrivoluzione neo-liberista - di cui il populismo è una variante estrema per la “naturalizzazione” di linguaggi fascisti, razzisti, sessisti in seno al “popolo” - opera in questo senso una vera e propria trasformazione antropologica, che ha come fondamento la “nazione bianca e patriarcale” da una parte, l’individualismo possessivo di atomi privi di legami sociali dall’altra. Si tratta di un classico circolo logico-linguistico-politico: la coesione degli individui-atomi sociali è garantita da un potere trascendente - capo carismatico, uomo forte, partito dell’ordine - che si erge a “rappresentante” del popolo e nel contempo forgia i dispositivi linguistico-comunicativi di questa stessa rappresentazione.  Il “rappresentante” crea il proprio “rappresentato”. La strategia razzista della Lega è stata costruita nel tempo, attraverso un’ossessiva e costante ripetizione di stereotipi che ha creato un’abitudine performativa, fino alla tragica «banalità del male» contro migranti, profughi, rom, come già profondamente descritto da Hannah Arendt parlando del nazional socialismo, dell’antisemitismo e dello sterminio degli Ebrei.

Il razzismo istituzionale, veicolato e rafforzato dal sistema mediatico, alimenta la xenofobia popolare e se ne serve per legittimarsi. Questo circolo vizioso, utile a deviare le ansie collettive e a catturare consenso, tende a ridurre migranti e minoranze a «nuda vita». Non è un caso che una delle invenzioni lessicali della nuova grammatica razzista sia “la preferenza nazionale”, architrave del tentativo di trasformazione in senso razzista della questione sociale, che accumuna i lepenisti francesi alla Lega e a tutti i neo-nazionalismi europei. In altre parole, la “preferenza nazionale” non è solo il mezzo con cui si cerca di proiettare sugli immigrati tutto il malessere che cresce nella società, ma può diventare anche lo strumento - apparentemente frutto delle necessità economiche dettate dalla crisi - con cui eliminare dal “corpo della patria” ogni traccia di “contaminazione straniera”.

Questo è solo un esempio di come un determinato lessico possa penetrare nel corpo sociale e  della centralità della questione per tutti i movimenti rivoluzionari nel post-fordismo, che implica una rinnovata capacità di intervento in tutti gli spazi, i luoghi, i momenti della riproduzione della vita sociale e relazionale. La battaglia culturale contro l’individualismo e la disgregazione del sociale diventa fondamentale, così come l’appropriazione di spazi, luoghi, punti di aggregazione - anche informali - nei quartieri, nelle periferie e ovunque dilaga la solitudine, la povertà la sofferenza individuale e collettiva. La ricostruzione di un senso di comunità, strappata dalle grinfie del populismo, è la precondizione essenziale per lo sviluppo e il potenziamento di un  movimento autonomo di classe in tutte le sue articolazioni.

C’è una contraddizione immanente nell’ideologia individualistica, che tutto il pensiero critico-materialista - da Marx in poi - mette in luce: non esiste l’individuo come sostanza data di per se stessa, bensì si determina solo nella relazione linguistica con l’altro, nell’incontro tra corpi. In altri termini, gli individui esistono solo in una forma di rapporti sociali. A maggior ragione, nella produzione post-fordista, non esiste il lavoro del singolo in quanto tale, bensì il lavoro socialmente combinato; la produzione dipende dall’intelligenza e sapere generale, dalla cooperazione sociale. È questa la base materiale del comune, mentre l’individualismo possessivo ne costituisce la corruzione e la degradazione. Questa contraddizione va approfondita, sul piano dell’inchiesta e della ricerca militante, ma anche sul piano antropologico e con la finalità etico-politica di costruire un nuovo corpo collettivo, una nuova umanità.

La naturalizzazione dell’individuo isolato come base dalla vita sociale svela un dispositivo tipico del nazional-liberismo populista. Consiste nella “naturalizzazione” delle differenze attraverso una doppia mossa: partendo dalle differenze biologiche naturali che caratterizzano tutto il mondo della vita, si opera uno spostamento su un altro piano, quello delle differenze costruite sul piano storico, sociale, culturale, che esprimono rapporti di dominio, inferiorità e superiorità, di genere, di razza, di classe, di esclusione-inclusione. Queste stesse vengono riportate alla natura immutabile e utilizzate come codificazione e grammatica del potere.

L’intreccio tra razzismo, sessismo, sfruttamento e asservimento del lavoro vivo, distruzione del mondo-ambiente ha un’unica origine: lo scambio tra il biologico e lo storico-sociale. Ancor più in profondità, il paradigma antropologico e culturale dell’Occidente e dello sviluppo capitalistico, che ne costituisce il culmine nella forma denaro-merce, si basa su un assioma di fondo: la separazione tra soggetto e oggetto, tra mente e corpo, tra uomo e natura, rompendo in maniera traumatica le interconnessioni con il mondo animale e più in generale con il mondo-ambiente in tutta la sua complessità. La natura oggettivata si può manipolare indefinitamente, senza riserve, mentre sugli animali-oggetti, non riconosciuti nella loro dignità e forme comunicative, possono esercitarsi le più orribili crudeltà. La loro sofferenza lascia indifferenti: non appartengono alla superiore specie umana. Da qui la «normale banalità del mal»e, la barbarie rispetto a profughi, migranti, soggetti deboli: basta considerarli non umani, come i nazisti con gli ebrei: e la loro sofferenza, la loro morte lascia del tutto indifferenti, senza riconoscimento, senza empatia, senza solidarietà.

Ecco perché l’irruzione sulla scena pubblica di soggetti dominati e disumanizzati, di minoranze oppresse e sfruttate, la loro presa di parola - per quanto ancora incerta, confusa, incompiuta (e non potrebbe essere altrimenti!) - ha un valore inestimabile per l’intera umanità: pone un problema davvero cruciale, etico-politico, non solo essere umani, ma divenire umani, divenire quello che siamo. Come dice Judith Butler: «alleanza dei corpi nell’insorgenza pubblica»; nelle piazze e nelle strade, dove il linguaggio non è solo il discorso verbale, ma mette in gioco l’intera sfera biopolitica, gli affetti, le passioni, i sentimenti, l’incontro, la prossimità e la cura verso gli altri.