Il limite, la pandemia, la rivoluzione

9 / 11 / 2020

«Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.

[...]e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo,sempre acquistando dal lato mancino».

Così Dante nel canto XXVI dell'Inferno fa parlare Ulisse, l'uomo che ha superato quello che per lui era «il limite» per eccellenza, le Colonne d'Ercole, in nome della ricerca di «virtute e canoscenza».

Almeno dall'Illuminismo in poi tutti i rivoluzionari e le rivoluzionarie che hanno letto queste parole si sono identificati in Ulisse. Superare il limite, andare oltre al consentito, cercare ciò che nessuno ha mai visto. Aveva un bello spiegarci il povero Dante che andava a finir male, molto male, che in fondo Ulisse era un ingannatore, uno che mentiva come respirava e che aveva seminato il Mediterraneo di cadaveri, sacrificando senza rimorsi amici e nemici per correr dietro ai propri personalissimi obiettivi e a volte persino alla sua semplice curiosità. E anche il suo ultimo ed efficacissimo discorso alla fine era servito solo a fare affogare i poveracci che l'avevano seguito. 

Ma che voleva 'sto reazionario medioevale di Dante? Come si è permesso di mettere all'inferno Ulisse? 

Ah cercare «virtute e canoscenza», oltre il limite!

Ah «il folle volo»! 

Così, per secoli. 

Oggi per la prima volta ci troviamo a capire che forse non funziona proprio così, che l'umanità non può più permettersi nessun «folle volo».

Oggi l'insorgenza globale contro il cambiamento climatico è il primo movimento rivoluzionario della storia, almeno dalla rivoluzione francese in poi, a lottare perché l'umanità si ponga un limite.

E questa è la ragione della sua oggettiva portata anti-capitalista. Per il semplice fatto che il capitalismo non può porsi un limite. 

Il suo funzionamento può essere riassunto nello schema D1– M – D2.

Dove D1 è il denaro investito, M la merce prodotta, D2 il denaro ottenuto come profitto. Così all'infinito. Naturalmente D2 deve essere sempre maggiore di D1. Ed è esattamente questo che rende il capitalismo insostenibile, che lo rende incompatibile con la sopravvivenza della vita sul pianeta, perché se i profitti possono crescere all'infinito le condizioni materiali che consentono la sopravvivenza degli esseri viventi hanno invece dei limiti precisi che non possono essere forzati.

Il «limite» rappresentato dalla crisi climatica non più ignorabile. La soluzione di capitalismo green non è realmente praticabile, non lo è perché non risolve neppure in minima parte il problema materiale, è solo puro marketing. Nessuna scoperta tecnologica, nessun efficientamento dei sistemi di produzione può consentire una crescita infinita. Il «limite» rimane. 

Ma occorre sempre aver presente che il capitalismo non è solo violenza perpetrata da un'oligarchia contro il resto dell'umanità e degli esseri viventi. Il capitalismo è anche la capacità egemonica di questa oligarchia. Un'egemonia che si basa sull'idea di un sistema capace di promettere benessere e ricchezza alla portata di chiunque. Non di tutti, ma potenzialmente di chiunque, cioè di qualcuno su tutti, e in tanti sperano di essere quel qualcuno. E gli altri? Fatti loro, si spera sempre di stare tra quelli a cui andrà bene.

Questa è stata la base su cui negli ultimi decenni si è sviluppato il volto odierno del fascismo: la thanatopolitica, la la politica della morte. Per anni esso si è riassunto nel «prima noi», ovvero nel «lasciamo crepare i migranti per mantenere il nostro benessere».

Con la pandemia questa soluzione fascista ha dilatato il proprio campo d'azione e si è trasformato in un'idea omicida di «libertà»:

«L'economia non può fermarsi».

«Chiudete i porti, aprite le discoteche».

«Lasciamo crepare vecchi e malati che io devo fatturare».

«Togliete i soldi ai dipendenti pubblici e dateli a me».

Sino all'esplicito «sacrifice the weak» brandito dai sostenitori di Trump. Si cerca così di scaricare il peso del «limite», che il Covid-19 ha reso dannatamente concreto per tutti, su altri, in modo da tenere per sé un'illimitata e spietata «libertà».

Questo atteggiamento è da un lato funzionale alla tenuta immediata di un sistema che non può fermarsi ma dall'altro distruttivo del sistema stesso, incapace di reggere all'acuirsi delle sue stesse contraddizioni. Tutto ciò che ha reso la pandemia ingestibile in tutti i paesi «occidentali», scuotendo le fondamenta del loro sistema economico, sociale e politico. 

A questo punto quale può essere l'alternativa? Quali le coordinate per un processo di cambiamento dal basso adeguato alla situazione e quindi rivoluzionario?

«Reddito e cura» diciamo. Ed è giusto. Abbiamo bisogno di entrambe. Abbiamo bisogno del reddito come soluzione immediata, come strumento di sopravvivenza. Abbiamo bisogno della cura, del prenderci cura delle nostre comunità sia nell'immediato, come azione concreta, sia nel lungo periodo come orizzonte strategico.

L'assunzione di quest'ultimo dato implica il fatto che dobbiamo risemantizzare completamente ciò che intendiamo come «prospettiva rivoluzionaria». La rivoluzione negli ultimi tre secoli è stata associata al concetto di «conquista». Conquista del potere, dei mezzi di produzione, del monopolio della violenza, del mondo intero. 

Occorre invece oggi fare i conti col fatto che non c'è più nulla da conquistare. Innanzitutto determinate funzioni dello stato e determinate forme della ricchezza capitalista sono semplicemente inutili ad un reale benessere per tutti e tutte, vanno quindi non espropriate ma semplicemente abolite, come fece la borghesia con gli obblighi feudali.

Ma sopratutto la società odierna, in primo luogo quella dei paesi a capitalismo più «avanzato», non va conquistata ma curata. Le logiche e le pratiche della standardizzazione, del comando dall'alto, della competizione individualista l'hanno straziata sino a renderla incapace di difendere la propria sopravvivenza dalla crisi ambientale e persino da una pandemia. L'hanno resa incapace di fare i conti con il «limite», cioè con la realtà materiale.

Noi non abbiamo quindi utopie belle e pronte da applicare, solo una prospettiva di massima entro cui muoverci. Essa consiste nell'insubordinazione e nella sollevazione contro la thanatopolitica. Questo è ciò che definiamo «aprire la crisi», ovvero dare organizzazione e prospettiva politica a tutte e tutti coloro che non accettano di essere «sacrificati» o che altri e altre lo siano.

Ma attenzione, le crisi non basta aprirle, occorre anche introdurre qualche elemento tramite cui possano trovare una soluzione concreta. E qui dobbiamo ricordare una regola ferrea di ogni processo rivoluzionario:

La sollevazione degli affamati non è rivoluzione, ma solo sommossa, facile da reprimere o da dirottare contro il primo capro espiatorio a disposizione. 

L'indignazione dell'inteligencija (il cosiddetto «ceto medio riflessivo») non è rivoluzione, ma solo chiacchiericcio colto o semi-colto.

Ma quando le due cose si incontrano e si fondono, allora abbiamo una rivoluzione.

Oggi in tutto il cosiddetto «Occidente» e sopratutto in Italia e in Europa esistono condizioni potenzialmente rivoluzionarie. E questo non solo perché aumenta il numero degli affamati e degli esclusi, ma perché sembra saltata la stessa possibilità di costruire durature mediazioni tra gli stessi ceti benestanti sul piano della democrazia borghese.

Guardiamo alla situazione della borghesia delle professioni. Il blocco sociale reazionario, costituito dall'alleanza tra i settori conservatori del grande capitale e della piccola- media borghesia proprietaria (quella che sguazza nello sfruttamento e nella rendita), di fatto la tratta esplicitamente da nemico: la colpisce nel portafoglio in mille modi, in alcuni paesi come l'Italia, la Spagna o la Grecia costringe i suoi figli e le sue figlie all'emigrazione e nel contempo la umilia e la deride quotidianamente. Ormai la tratta come in precedenza ha trattato la classe lavoratrice o i migranti. Pensate all'ultimo attacco di Trump ai medici accusati di «ricevere più soldi» per falsificare (a suo dire) il numero di morti per Covid-19, ma in generale all'atteggiamento anti-intellettuale e anti-scientifico di tutti i cosiddetti «sovranisti».

La borghesia della professioni, nella sua larga maggioranza, ha quindi interesse ad un cambiamento della situazione esistente. Finora l'ha perseguito affidandosi alla consueta pratica di delega ai partiti moderati o riformisti, ma i risultati non sono certo esaltanti e nulla lascia pensare che questa scelta potrà soddisfarla ancora a lungo. E questo non solo per la qualità delle classi dirigenti riformiste, ma per lo stesso meccanismo di funzionamento della democrazia borghese e dello stesso capitalismo. 

Abbiamo visto ad esempio cosa comporta il fatto che le politiche sanitarie vengano decise da politici (magari circondati da una corte di economisti liberisti) che non ne sanno nulla. E lo stesso potrebbe dirsi per scuola, università, ricerca, infrastrutture, ecc. 

Basta poi accendere la televisione per capire come la ricerca del profitto sia giunta al punto in cui non esistono più verità fattuali. Solo opinioni di cui si fa mercato per pochi voti o pochi punti di share, anche quando si parla della salute fisica e mentale della collettività durante la pandemia.

Come nella fase terminale del cosiddetto «socialismo reale» ormai l'ideologia dominante e le sue forme di organizzazione politica sono divenute un ostacolo allo sviluppo della cultura, della scienza e di riflesso al soddisfacimento dei bisogni basilari della società. Ma questa volta l'ideologia dominante è l'attuale declinazione del capitalismo. Il suo crollo potrebbe essere repentino come quello del Muro di Berlino, ma perché accada occorre che si affermi una nuova prospettiva nella gestione della società, capace di prospettare alle forze sociali ora compresse la possibilità del proprio pieno dispiegamento.

Per questo occorre risemantizzare anche un altro nostro vecchio slogan: quello sull'«alleanza tra ribelli e democratici», che non va intesa come semplice dialogo con questo o quel settore partitico-associazionistico del riformismo, ma piuttosto come creazione di una stabile alleanza tra le avanguardie consapevoli delle differenti classi che oggi hanno interesse in un cambiamento radicale e alla costruzione di processi decisionali nuovi.

Le alleanze sono naturalmente alleanze tra diversi, ovvero tra soggettività con obiettivi e pratiche differenti tra loro. Il fattore unificante può essere, oltre al basilare rifiuto della thanatopolitica, un cambiamento della sovrastruttura politica basato sulla prospettiva della confederazione di autonomie territoriali e sociali. 

Vale a dire, nella nostra concreta situazione, nell'abbattimento degli «stati-nazione», nella creazione di una reale comunità politica europea i cui processi decisionali siano decentrati. Cioè siano il meno possibile delegati agli imprenditori del marketing politico e il più possibile gestiti dai corpi sociali colpiti da un determinato problema, nonché dalle figure professionali con le competenze adeguate alla sua risoluzione. Di fatto tutto sta nel trovare il modo di far incontrare realmente le esigenze basilari della stragrande maggioranza dell'umanità con le expertise,cioè le conoscenze e competenze culturali e scientifiche utili al loro soddisfacimento.

Nell'immediato la sfida per un movimento che intende muoversi all'interno dei conflitti del nostro tempo è quindi quella di dare un'organizzazione e una prospettiva politica alla rabbia degli ultimi e degli esclusi. Dargli parole e obiettivi in modo che questa rabbia non possa essere messa all'angolo e repressa o manipolata, ma sia in grado di diventare esempio e opportunità per tutte le forze sociali che hanno interesse ad un cambiamento reale. Il cui fine non può non può che essere la creazione di una «forma politica entro cui la classe lavoratrice possa svolgere la propria emancipazione», per dirla con Marx. Vale a dire una democrazia effettiva, che trasformi lo stato da «dio incarnato» a semplice strumento pratico per la risoluzione di problemi concreti. E quindi una sovrastruttura politica costruita per la cura e non per la conquista, per il rispetto del «limite» anziché per il «folle volo».