Il mancato Principe - Le possibilità del no oltre il voto

Una riflessione dopo la vittoria referendaria del No, il premier Renzi si dimette, rimbalzo dell'euro ed instabilità di piazza affari, l'opposizione punta a nuove elezioni

5 / 12 / 2016

«Però la migliore fortezza che sia è non essere odiato dal populo; perché, ancora che tu abbi le fortezze e il populo ti abbia in odio, le non ti salvano […] biasimerò qualunque, fidandosi delle fortezze, stimerà poco essere odiato da’ populi»

Niccolò Machiavelli, Il Principe

Ci sono alcuni numeri a cui è difficile non dare ragione: la vittoria del NO al referendum costituzionale, che ha schiacciato con un imponente 59,1% il Sì, fermo al 41,9%, è incontrovertibile. Le truffe dei dati gonfiati ad hoc, addirittura falsati come nel caso del Ministero del Lavoro il settembre scorso, sull’occupazione e sulla crescita non sono possibili quando il Paese si spacca lungo una linea di demarcazione ben precisa. L’occasione del referendum ha infatti diviso la cittadinanza, sebbene non in maniera chirurgica, vista l’eterogeneità del fronte del rifiuto alla riforma costituzionale (e, in piccola parte, anche del Sì).

Il risultato di questa notte riflette una presa di posizione che, come è stato sempre fatto notare, comprende ed esula dall’intima questione giuridica della Carta del ’48. E’ stato rigettato un progetto sistemico neoliberale che materialmente ha già proceduto a demolire a colpi di ascia la serie di tutele e diritti sociali conquistati nel secolo scorso, e che avrebbe voluto procedere in questa direzione formalizzando le procedure e le norme per velocizzare questi cambiamenti. In poche parole, si è impedito a Renzi di far diventare ancore più autoritarie e centralizzate le istituzioni, come avrebbe voluto la sua aspirazione da principe contemporaneo. Non possiamo non contare, inoltre, la costruzione di un clima di terrore mediatico che gli organi di stampa, gli istituti finanziari, i leader politici fino alle personalità dello spettacolo, hanno contribuito a creare nelle scorse settimane pur di salvare l’opzione renziana. 

I dati sull’affluenza, anche in questo caso, parlano chiaro e registrano un boom di partecipazione al voto, in controtendenza con quanto accaduto alle elezioni europee, politiche e locali. È sintomo, questo, non solo della centralità delle tematiche referendarie, ma anche della volontà diffusa di esprimersi sull'operato dell'intero ciclo politico renziano e del partito democratico. 

Del resto, un fatto è chiaro: il voto di domenica ha fatto tremare quei pochi vertici del potere economico e politico in Europa, i quali auspicavano quella rottura dall'alto che avrebbe portato un potere esecutivo a divenire puro elemento di compatibilità tra le decisioni della troika ed i cittadini.

Da una prima analisi è possibile scorgere lo spaccato di società che ha identificato tutto questo con il voto di domenica, politicizzando senza mezzi termini la posta in palio. Nonostante sia molto complicato definire i soggetti in questione, attraverso delle lenti meramente di classe o generazionali, possiamo azzardare una prima lettura a questo proposito. Se è vero che più si abbassa l’età degli elettori, in particolar modo per le fasce giovanili (18-35 anni), meno la retorica renziana ha fatto presa, e allo stesso tempo non possiamo sottovalutare la convergenza con soggetti trasversali alla forza-lavoro contemporanea, che ha toccato diverse estrazioni anagrafiche. La delegittimazione di voto di Renzi è stata sancita da coloro che hanno avuto un’esperienza pari a zero delle garanzie costituzionali e giuridiche appartenenti ad un mondo del lavoro passato (studenti, lavoratori autonomi, dipendenti precari del pubblico, lavoratori occasionali dei voucher) e da coloro che l’hanno avuta, ma che hanno visto proprio tali tutele progressivamente sgretolarsi. Un fattore accomuna i due soggetti: il fatto che il loro orizzonte d’aspettativa futuro fosse annebbiato, oscurato dalla tendenza costante a vedere sempre un peggio rispetto alla propria condizione esistenziale. Un futuro nero che incombe continuamente sulle vite della maggioranza dei cittadini italiani (ed europei) appiattendo il presente, schiacciandolo nella morsa del curriculum da ingrandire con gli stage non retribuiti, dell’esperienza lavorativa da farsi, del trovare l’occupazione alternativa prima che il licenziamento per cause economiche faccia perdere quello vigente; un presente annullato e avvelenato dalle grandi opere e infrastrutture inutili che inquinano l’ambiente, devastano la natura, impoveriscono le comunità per i profitti di pochi. Geograficamente parlando, il NO ha registrato una vittoria schiacciante soprattutto al Sud e nei territori dove le lotte sociali hanno avuto un rapporto conflittuale diretto con il governo centrale, oppure dove le contraddizioni contemporanee si sono fatte più evidenti. Dalla Val Susa fino a Napoli, chi subisce soprusi militari, commissariamenti e impoverimento forzato ha presentato il suo conto al governo.

I sostenitori del SI, invece, si sono ridotti ad essere un raggruppamento di dirigenti e quadri di partito, di fedelissimi al voto per i democratici, assieme a chi nel mondo del lavoro può godere dei privilegi perché manager e/o datore di lavoro, oppure coloro che credono (e sperano) di uscire vincitori nella giungla della meritocrazia e della competitività di mercato. Sul suolo nazionale il SI continua a reggere nei presidi storici appartenenti al filo rosso PCI-DS-PD come la Toscana e l’Emilia Romagna, per quanto inizino a crollare alcuni fortini storici.

«Sono io ad aver perso, non voi», dichiara il premier in maniera poco convinta. Il tentativo di riutilizzare la personalizzazione in extremis nasconde la volontà di riciclare il Partito Democratico, l’operato del governo e l’eredità politica di questi due anni e mezzo. Al contrario, bisogna affermare con forza che la sconfitta appartiene alla totalità progettale e di proposta del PD: Renzi e il suo partito hanno perso la battaglia per riottenere un capitale di consenso – di fronte al popolo, di fronte alla sua sinistra e soprattutto alla sua destra, di fronte all’Europa. Le sue incursioni nelle stanze dei big europei per ottenere maggiore flessibilità sui conti pubblici avrebbero dovuto ricevere una spinta ulteriore verso un esito referendario favorevole. Le promesse ottenute sulla Legge di Bilancio avevano un unico scopo: accelerare nel Paese le riforme strutturali (vedi restrizione dei diritti) e la riqualificazione dell'intero sistema creditizio nazionale. 

Renzi ha annunciato le dimissioni subito dopo aver acquisito la certezza di aver perso. Dimissioni le cui conseguenze rimangono dubbie, tra possibile rivalsa di Renzi sull’altare della stabilità nazionale, a fronte degli attacchi dei mercati finanziari, o eventuali governi ad interim fino al 2018 – che confermerebbe la tradizione italiana di ovviare alle elezioni attraverso una decisione autoritaria del Presidente della Repubblica – per evitare sovrapposizioni tra due leggi elettorali. In entrambi i casi, alcune possibilità per il Partito Democratico di capitalizzare il suo SI rimangono aperte, cercando di fare leva sullo spauracchio dello spostamento a destra e sull’equilibrio finanziario. Possibilità utili non solo per ricevere un energico endorsement dall’Europa, ma anche per regolare i conti al suo interno. Intanto, la schizofrenia dei mercati ha già fatto cadere nella notte l’euro ai suoi minimi negli ultimi venti mesi senza nemmeno attendere l’apertura dei listini, nonostante in mattinata abbia ripreso tutto il suo valore.

D’altra parte, è chiaro che la bocciatura del governo del Partito Democratico è composta da diverse forze al suo interno. Non è mai stato rinviabile per motivi di tattica, tanto meno lo sarà adesso, il tempo di approfondire le differenze chi ha scelto di votare per il NO. Il carrozzone dei primi arrivati, tutti intenti ad autoproclamarsi i vincitori morali e politici del referendum, non può assolutamente partire in viaggio per il Belpaese strumentalizzando e appropriandosi indebitamente del rifiuto nei confronti del governo. Ciò a cui mirano la Lega di Salvini ed i 5 stelle di Grillo è l’alternanza di governo affermata sui corpi e sulle passioni tristi della peggiore xenofobia, della chiusura identitaria, del ritorno ad un passato mitico che garantisce stabilità. Nonostante gli inneggi all’Italexit e alla chiusura delle frontiere (come se adesso fossero estremamente permeabili), abbiamo visto dopo l’elezione di Trump e della Brexit che le oligarchie finanziarie si sanno adeguare bene anche alle «derive populiste ed autoritarie» facendo continuare a respirare senza problemi le borse. 

La costruzione dell’alternativa, invece, ci parla di altro, e si è espressa nei mesi di campagna elettorale all’interno dei comitati di base, di quartiere, nelle scuole, nelle università, nei luoghi vivi delle città, emergendo in maniera dirompente alla Leopolda ed il 27 novembre a Roma. Soltanto mettendo a valore questo percorso, che parla di contenuti specifici altri rispetto allo status quo e alla proposta di revisione costituzionale, si può evitare la retorica generalista assunta dalle destre e far vivere la progettualità dei movimenti. Certo, un compito non facile che ha visto solo l’inizio, ma che comunque ha costruito una sua legittimità affinché si diano poi veri spazi di movimento fuori dalla retorica evocativa. Il nodo dirimente sta all’interno di tutto questo: potranno le vertenze specifiche e le alternative praticate dai movimenti territoriali incarnarsi con potenza nei corpi che scenderanno in piazza? Potremo continuare a farne vivere la convergenza oltre la finestra referendaria e contro il ritorno neoliberale e gli usi di destra del voto di domenica?

L’espansione di questo desiderio deve occupare tutti gli spazi politici che si aprono grazie al lavoro fatto in precedenza, allargarli, potenziarli, renderli moltitudinari. L’occasione che si ha davanti è di dare un forte segnale di rottura con l’ordine neoliberale europeo, colpito ulteriormente dopo il voto, per affermare dal basso e in maniera radicale una nuova costituzione materiale, da far nascere nei conflitti, all’insegna dei diritti sociali, del welfare universale, della libertà dalla schiavitù del lavoro, della cittadinanza per tutti e della libertà di movimento. Un compito arduo che non può essere messo a lato in questi momenti cruciali in cui le opposizioni parlamentari al governo si rivendicano il voto.

Le fortezze delle Leopolde, delle cene di gala con Obama, delle strette di mano con Marchionne e Confindustria non sono indistruttibili: una breccia si riesce sempre a fare prima o poi. I molti sanno sempre quando vengono oppressi e soggiogati, e l’unico modo per non incorrere nella loro indignazione è non farsi odiare da loro. Perché fin dai tempi più remoti, si sa, un principe senza consenso che fa affidamento sulla sola autorità è un facile nemico da abbattere.