Il Messia

12 / 2 / 2021

Al di là di come andrà a finire la formazione del nuovo governo Draghi , su cui convergono tutte le forze politiche, ”destra” e “sinistra”, ex-sovranisti e post-socialdemocratici (tranne Giorgia Meloni che conta di catturare ampi consensi) ci sono molti aspetti dell’intricata vicenda che vale la pena di sottolineare. 

La figura di Draghi parla da sé: uomo di punta del capitalismo finanziario e protagonista assoluto della lunga serie di disastri che la governance ordoliberale si è trascinata dietro in tutti questi anni. Privatizzazioni, austerità, fiscal compact, il meccanismo perverso del debito, lo smantellamento del welfare. O meglio, si tratta di un welfare paradossalmente rovesciato, un welfare “privatistico” in cui gli Stati e la finanza pubblica dovrebbero farsi garanti del debito privato di banche e imprese, aumentare la liquidità e l’accesso al credito. Ma per chi? Apparentemente, le tonalità keynesiane dell’ultimo Draghi, in cui si avverte la necessità di aprire le casse per garantire maggiore potere d’acquisto alle masse popolari, incrementare i consumi e rilanciare gli investimenti potrebbe avere una sua suggestione. 

Ma attenzione: la forma di dominio di classe della finanza si fonda proprio sul meccanismo del debito e la sua riproduzione ad infinitum. Certo, Mario Draghi è un agente del capitale finanziario che ragiona strategicamente, che ha come obiettivo la salvezza del capitalismo e della sua classe dominante dalla catastrofe economica e politica da essi stessi provocata ed emersa prepotentemente con l’emergenza Covid-19. La suggestione neo-keynesiana è pura finzione retorica, uno specchietto assai scontato per le allodole.

Nelle ultime proposte fatte al congresso di Comunione e Liberazione a Rimini , ma anche nelle dichiarazioni al Financial Times dello scorso marzo, il liberismo di Draghi emerge ancora una volta nella forma che ha sempre avuto, differente dal liberismo dei Chigago boys - da Reagan a Thatcher - sintetizzato nella loro formula «meno stato, più mercato». Al contrario, per Draghi e seguaci, la formula sarebbe «più Stato e più mercato», privatizzare gli utili, socializzare le perdite. Come detto, si tratta di un keynesismo privatistico che, con qualche modifica necessaria, riproduce l’esistente per riavviare l’accumulazione di un capitalismo strutturalmente in crisi.

I toni messianici e salvifici delle numerose trombe che hanno salutato l’arrivo del “salvatore” per un governo di salvezza nazionale a guida “tecnica” riproducono la stessa formula che svuota completamente la democrazia parlamentare e la “sovranità del popolo”, in nome dello stato di eccezione, del decisionismo, della concentrazione del potere esecutivo. Il “governo del presidente”, come si suole dire, rappresenta bene questo passaggio anche sul piano semantico: non dovrebbe essere ,al contrario, il “presidente del governo”?

Il rovesciamento di Keynes è tipico dell’ordoliberismo di matrice tedesca ed europea: lungi dal negare la funzione dello Stato e dell’intervento pubblico, esso va comunque ri-funzionalizzato e “costituzionalizzato” a totale servizio dell’impresa, del mercato e della competitività. Economia sociale di mercato altamente competitiva: questa la formula magica degli ordoliberisti, i nuovi alfieri del capitalismo e della post-democrazia autoritaria. La concorrenza deve essere posta alla base non solo del mercato, ma anche dell’ordine politico e in nome dell’”interesse generale” viene ripensata la stessa idea di quella “sovranità popolare” che è alla base degli stati moderni e della democrazia rappresentativa.

In tale prospettiva si riconosce come necessario uno Stato forte governato da élite competenti, i governi tecnici, le cui decisioni sono indiscutibili e incontrovertibili, che devono poter agire indisturbati, senza interferenze e mediazioni, sotto il ferreo controllo delle agenzie di rating e della comunità finanziaria internazionale. 

Non è un caso che si riaccenda oggi il dibattito sullo stato di eccezione, che ha attraversato gli anni ’20 e ’30, dalla crisi della repubblica di Weimar all’ascesa del fascismo e nazional socialismo. Ma la variante “dittatoriale”, nata dalla crisi della democrazia parlamentare, come acutamente osservato da Gramsci nei Quaderni e anche, pur sul piano opposto, da Max Weber, non è l’unica. Possono infatti sorgere proprio governi tecnici e forme di potere tecnocratico e decisionista, con una concentrazione enorme di poteri nell’esecutivo a difesa degli interessi delle classi dominanti.

Non è un caso che nei discorsi di Draghi, come di altri, si rievochi il concetto della guerra e la sua terminologia: come nel dopoguerra, dopo la distruzione viene la ricostruzione, anche se il Recovery Found non è il Piano Marshall!

I «privati non hanno colpa» dice Draghi, come se l’emergenza Covid e la crisi economico-sanitaria fossero qualcosa di “naturale” e non l’effetto di questo modo di produzione e delle politiche neo-liberiste che lo sostengono. È come se chi è causa del male si ponga come curatore del male stesso. 

In realtà, l’avvento del governo Draghi è il trionfo dell’Europa delle banche e del potere della finanza, ma allo stesso tempo fissa in maniera chiara e ineludibile la fine dello Stato Nazione, dotato di una propria sovranità e autonomia. Il crollo delle ideologie sovraniste, Lega in testa, e delle loro mistificazioni lo stanno a dimostrare. Tutti proni ai diktat dell’Europa, alle “condizionalità” cui sono sottoposti i fondi europei, senza se e senza ma. Ma il compimento di questo processo contribuisce a fare chiarezza dal punto di vista di classe: solo i movimenti di lotta anticapitalista che si collocano sul piano europeo a questa altezza della contraddizione, possono rappresentare l’unica vera “salvezza”. Il programma minimo non può che essere basato su alcuni pilastri: la riappropriazione della ricchezza prodotta dalla cooperazione sociale e un reddito incondizionato di base sganciato dal lavoro, non solo in termini monetari, ma come accesso a beni e servizi, al diritto alla cura e alla salute, alla casa, a una vita degna.

Le lotte moltitudinarie contro i cambiamenti climatici, la questione della cura, della formazione e della scuola, del reddito sono le uniche in grado di bloccare la riproduzione del capitale in questa fase cruciale e contengono, tutte insieme, un grande potenziale per riaprire un potente ciclo conflittuale.