La conclusione del vertice
del G20 a Toronto era pressoché scontata. Il risultato
principale è stato non aver ottenuto nessun risultato, se non
l’obiettivo (irraggiungibile) di dimezzare il rapporto deficit/pil
entro il 2013. Non poteva essere altrimenti, nonostante tutte le
dichiarazioni in senso contrario, dal momento che, dopo oramai tre
anni dall’inizio della crisi, non è all’orizzonte una
strategia comune che consenta una governance mondiale dell’economia.
In altre parole, pur estendendo il summit dai tradizionali 8 paesi a
20, a conferma della multipolarità imperiale di oggi, non è
pensabile una sorta di “new deal istituzionale” in grado di
traghettare l’economia mondiale al di là del guado della
crisi. Diversi sono infatti gli interessi in gioco, non solo fra loro
inconciliabili, ma anche inerenti a diversi piani di analisi.
Proviamo a analizzare velocemente i fattori di instabilità
oggi presenti:
1. Instabilità del rapporto Cina-Usa.
Qui si gioca la partita più importante. La Cina sta diventato
un vincolo sempre più stringente per l’economia Usa, stretta
da un lato dall’instabilità dei mercati finanziari e
dall’elevato indebitamento pubblico (causa protrarsi guerre in
Afganistan e in Iraq) e privato (causa insolvenza) e, dall’altro,
dalla necessità di sviluppare un tasso di crescita in grado di
richiamare capitali dall’estero e sostenere i mercati borsistici.
Nel primi sei mesi di quest’anno, la Cina ha operato in attacco. A
partire dal gennaio 2010 ha ridotto la quota di titoli dei Stato Usa
riducendo di quasi il 50% la sua quota. Tale strategia finanziaria ha
obbligato la Federal Reserve Usa ad aumentare i tassi d’interesse
con il rischio di bloccare la debole ripresa economica in atto. Con
la liquidità ricavata, il governo Cinese ha sostenuto la
crescita economica cinese per far si che si collocasse al di sopra di
quella soglia (+6%) ritenuta minima per evitare il rischio di
un implosione sociale interna in seguito all’accresciuta
conflittualità di classe. Contemporaneamente, ha avviato una
penetrazione azionaria nelle grandi imprese Usa, modificando gli
assetti proprietari di molte multinazionali americane, a partire da
Ibm sino a Yahoo. Il governo cinese non sembra più orientato a
finanziare il debito pubblico Usa ma piuttosto a investire sul
capitale di rischio statunitense. Se da un lato ciò ha
favorito le ripresa degli indici azionari (soprattutto nel
periodo gennaio-aprile 2010), dall’altro segna un pesante
condizionamento dell’economia Usa e della sua politica monetaria.
Tale condizionamento è speculare a quello che gli Usa da anni
stanno attuando riguardo la dipendenza energetica della Cina, il vero
collo di bottiglia della crescita economica cinese. Il controllo Usa
di aree strategiche per il passaggio di oleodotti, che, via Tibet o
via trasporto marino, possono arrivare sino al Mar Giallo (Afganistan
e Iraq), svolge essenzialmente questa funzione. In altre parole: sia
Usa che Cina hanno problemi di governance interna: i primi sul lato
della stabilità economica, i secondi sul lato della stabilità
sociale. La situazione di instabilità, ovvero di
interdipendenza conflittuale, che ne deriva è a sua volta la
prima causa dell’impossibilità di una governance
socio-economica mondiale.
2. Instabilità nel rapporto
Usa-Europa. Per far fronte al rischio di eccessiva dipendenza dalle
scelte economico-strategiche della Cina, gli Usa si trovano nella
necessità di aumentare il valore del dollaro, con l’obiettivo
di richiamare capitale dall’estero e mantenere bassi i tassi
d’interesse per non appesantire l’onore del proprio debito
pubblico e commerciale. A tal fine, sarebbe auspicabile una
svalutazione dell’euro e una rivalutazione della valuta cinese
(yuan). Il primo obiettivo sembra
essere alla portata, da quando
l’attenzione dei principali operatori finanziari ha iniziato a
scommettere sul (presunto) rischio di default del bilancio pubblico
di alcuni paesi europei (Grecia, in primis). La conseguente
svalutazione dell’euro ha come effetto immediato un aumento del
ruolo del dollaro come valuta internazionale di riferimento, ruolo
messo in discussione dalla crisi finanziaria e dalla proposta cinese
(presentata nel G20 di Pittsburgh) di iniziare a pensare ad un
percorso di sostituzione del dollaro con un paniere plurimo di più
valute nell’arco dei prossimi 10-15 anni. Contemporaneamente, una
rivalutazione della valuta cinese avrebbe lo scopo non tanto di
aumentare le esportazione americane in Cina (che sono limitate) ma
piuttosto di creare un freno alla crescita cinese (via aumento dei
prezzi all’estero dei prodotti cinesi).
In nome di una maggior
stabilità finanziaria globale (di cui la Cina ha bisogno per
mantenere elevato il suo flusso di esportazioni), la Cina ha
formalmente accettato una rivalutazione dello yuan, ma nel concreto
ciò non si è ancora verificato. Ciò che invece
si materializzato negli ultimi due mesi è la svalutazione
dell’euro. Se fino a un anno fa, un rapporto di cambio stabile tra
euro e dollaro veniva ritenuto una condizione essenziale per uscire
dalla crisi finanziaria ed economica globale, oggi la situazione
appare del tutto mutata: il mantenimento dell’egemonia valutaria
del dollaro richiede il sacrificio dell’Euro e dell’Europa. Si
apre così un nuovo fronte di instabilità tra Usa ed
Europa.
3. Instabilità europea. A fronte di tale
situazione, si genera un terzo livello di tensione geo-economica
internazionale, la cui intensità dipende dalla capacità
dell’Europa a 27 di reggere la sfida. Ed è qui che si rivela
che il “re è nudo” e si manifesta tutta la fragilità
della costruzione economica dell’Europa di Maastricht. Non solo,
l’Europa è sprovvista di una politica fiscale comune –
fattore che quasi sicuramente avrebbe fatto desistere già operatori
finanziari Usa dal tentare un attacco speculativo contro l’euro –
ma è ritornata in auge il vecchio progetto (mai dichiarato
ufficialmente, ma sempre latente) di creare un’Europa a due
velocità: una prima Europa forte e stabile ancorata sull’asse
franco-tedesco, una seconda Europa lasciata in balia dei mercati
valutari con una valuta libera di fluttuare a seconda dei venti
turbolenti dell’instabilità finanziaria. La chiara
percezione della mancanza di una posizione economia e politica
unitaria e forte, in grado di intervenire in modo immediato e
risolutivo a sostegno della Grecia, ha evidenziato come gli interessi
nazionali, gerarchicamente definiti, siano ancora predominanti. Il
piano di intervento europeo di 500 miliardi, deciso dalla riunione
Ecofin dell’8 maggio, non ha sortito nessun effetto sul cambio
dollaro-euro. Ha invece costretto i paesi con i deficit pubblici più
elevati (causati soprattutto dagli interventi a fondo perduto, a
sostegno degli operatori finanziari più colpiti dalla crisi
dei subprime) a promulgare politiche fiscali restrittive del tipo
“lacrime e sangue”, con
la finalità di colpire –
ancora una volta – il mondo del lavoro e perseverare ulteriormente
nello smantellamento/privatizzazione dei servizi sociali di base
(previdenza, sanità, istruzione). In una logica del tipo “si
salvi chi può”, il summit di Toronto del G20 ha dato
l’imprimatur a questa scelta economica suicida, non a caso
richiesta e ottenuta dalla Germania della Merkel (la quale,
ricordiamolo, ha dato l’ok al piano europeo, solo a patto che i
vincoli del patto di stabilità di Maastricht vengano ribaditi
e resi più stringenti). Non occorre essere facili profeti per
immaginare che la conflittualità all’interno dell’Europa è
destinata ad aumentare.
4. Dulcis in fundo, l’instabilità
italiana. L’attuale crisi europea ha riflessi importanti sulla
situazione italiana. Non tanto perché l’Italia - provincia
dell’impero - possa essere soggetta a attacchi speculativi
superiori a quelli già in atto contro l’Europa mediterranea,
ma per ragioni di instabilità politica in seguito ad una
governance istituzionale autoritaria, più attenta a esaudire i
desiderata di un’oligarchia economica di tipo familiare e
corporativa. E’ vero che il rapporto debito
pubblico/Pil in
Italia è il più elevato d’Europa, ma è anche
vero che:
• buona parte del debito pubblico è detenuto in
Italia e ciò fa da scudo al rischio di default dell’Italia.
Occorre infatti rovesciare la retorica secondo la quale mediamente
ogni nascituro italiano si trova circa 30.000 euro di debito sulle
spalle. In verità si dovrebbe dire che ha un credito medio di
30.000 euro (tra l’altro detenuto in buona parte dal Nord-Italia
con relativo flusso di interessi attivi!);
• che il tasso
d’indebitamento complessivo dell’Italia (famiglie, imprese,
banche e Stato) è tra i più bassi d’Europa, proprio
per l’arretratezza dell’economia italiana. Ricordiamo che in
un’economia capitalistica (e non feudale) è l’indebitamento
che crea accumulazione e crescita. Nonostante l’enfasi mediatica
continui a denunciare l’eccessivo indebitamento (vedi i vari
Giavazzi e il sito Lavoce.info, nonché la Confindustria) , non
è quindi il rapporto debito/pil a creare
instabilità.
Piuttosto è la stessa instabilità
politica della compagine di governo ad attirare le attenzioni
speculative sull’Italia. Da un lato, la prospettiva di una doppia
Europa ringalluzzisce la Lega e Tremonti (non a caso passato nel giro
di due settimane dal negare la crisi ad enfatizzarla), in vista
di
una possibile futura secessione tra il Nord ricco e sano (dove le
regioni sono virtuose) e un Sud, al di sotto della linea gotica,
povero e fannullone (dove le regioni sono sprecone e spendaccione).
Berlusconi si trova così in mezzo tra la Lega e il duo
Fini-Napolitano che sull’integrità della patria fondano la
propria legittimazione. A vantaggio dei suoi grandi elettori
economici, non a caso, il presidente del Consiglio, con il suo solito
fare millantatore, si vanta di avere bloccato qualsiasi proposta di
intervento sui mercati finanziari (sia esso un’imposizione sui
profitti bancari o la tassazione sulle attività speculative).
Da questo punto di vista, la situazione politica italiana, nel
totale silenzio del Centro-Sinistra, può risultare
preoccupante. A meno che non si sia in grado di individuare
un’alternativa di welfare, sulla quale coagulare il malessere e la
micro-conflittualità sociale sempre più diffusa.
Il new deal impossibile
La crisi economica dopo il G20 di Toronto
5 / 7 / 2010