Il "renzismo" tra rivoluzione e controrivoluzione

26 / 2 / 2015

L'ascesa al potere di Matteo Renzi non è un fenomeno contingente ed occasionale. Esso merita un'analisi approfondita, in quanto passaggio strategico di fase politico-istituzionale e strutturale da seconda a terza Repubblica.

Le ultime vicende di cronaca riguardanti la discussione delle riforme negli organi della rappresentanza sono delle manifestazioni di un processo di rivolgimento dell'operare del governo all'interno della governance europea. 

Le scene che ci ha regalato il dibattito in Parlamento, i silenzi e le debolezze delle altre figure istituzionali, parlano chiaro quando assistiamo all'accelerazione dell'approvazione delle riforme. L'uso indiscriminato della fiducia e dei decreti-legge, il silenziamento delle minoranze e dei partiti di opposizione, al di là del merito delle proposte legislative (che pure non è da poco), indicano una centralizzazione della decisione nelle mani del potere esecutivo.

Sul piano del ragionamento storico, nel nostro paese abbiamo visto il susseguirsi di figure di comando che vanno nella direzione di una centralizzazione del potere esecutivo, di una Repubblica Presidenziale, ovvero la cornice politico-istituzionale più adeguata nel momento di una ristrutturazione capitalistica in atto. Da Bettino Craxi a Berlusconi, fino agli esecutivi “senza elezioni”, senza consenso e senza “popolo” di Monti-Letta fino a Matteo Renzi.

Uno svuotamento del ruolo delle istituzioni rappresentative, il Parlamento in primis, assieme alla distruzione sistematica degli organismi intermedi tra Stato e società civile (sindacati, associazioni), accompagnano la crisi irreversibile della democrazia rappresentativa ed ancor più dello stesso concetto di rappresentanza, ridotta a mero simulacro, a corpo morto, senza vita, inesorabilmente putrescente e corrotto.

Matteo Renzi rappresenta, per alcuni versi, il completamento di questo processo, i cui passaggi storici nell'arco di 30-40 anni sono abbastanza nitidi. Con Renzi, la “passivizzazione delle masse” tipica di quello che Gramsci chiamava “rivoluzione passiva”, il decisionismo presidenzialista, lo svuotamento del Parlamento, il ruolo “cesarista” del Presidente del Consiglio, vero “dominus” totalitario è evidente in tutti i passaggi fin qui compiuti.

Lo stesso schema della nuova legge elettorale proposta dopo il patto del Nazareno va in questa direzione: il premio di maggioranza garantito al partito del Premier è tale da dare a costui un potere illimitato, per esempio nel decidere sul Presidente della Repubblica (cosa già avvenuta con l'elezione di Mattarella) e sulla composizione dei giudici della Corte Costituzionale. Insomma, nel potere esecutivo vengono assorbiti tendenzialmente tutti gli altri poteri, legislativo e giudiziario. 

Addio a Montesquieu e a tutte le sirene democratiche! Neppure Licio Gelli nel piano di “rinascita democratica” a base P2 avrebbe sperato tanto!

Si tratta di un “golpe bianco”, senza militari ma non per questo meno pericoloso.

Su queste basi, è interessante rivedere gli spunti di Gramsci sul “cesarismo” nelle note su Machiavelli nei “Quaderni del carcere”. Gramsci assume fino in fondo la metodologia marxiana di lettura delle “Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”, prima prova del materialismo storico applicato all'analisi di un frammento di storia.

Alla base di questa lettura del “politico” ci sono sempre il modo di produzione, le lotte di classe e le loro trasformazioni. La sfera del “politico”, seppure essa sia dotata di un'autonomia relativa e sebbene esso stesso non dipenda in maniera meccanicistica e deterministica dalla base economica, anzi possa esercitare su essa importanti retro-azioni, non può essere comunque compresa senza un'analisi dei rapporti di classe e produttivi a livello di struttura economica.

Però il Gramsci dei Quaderni offre spunti ancora più innovativi: il “cesarismo” diventa una figura del Politico, uno spunto di analisi che può applicarsi in particolari situazioni storiche, non certo uno schema sociologico, rigido e meccanico, piuttosto un invito ad analizzare dal punto di vista delle lotte di classe le situazioni concrete e mutevoli, per come si presentano di volta in volta storicamente, nei complessi rapporti tra rivoluzione e “controrivoluzione”.

Il “cesarismo” emerge nelle situazioni di crisi e d'emergenza, come “equilibrio-catastrofico” tra due forze che si trovano in situazione di stallo, ovvero dove nessuna delle due è in grado di vincere sull'altra ed il proseguimento della lotta potrebbe portare alla distruzione reciproca.

A questo punto, entra in gioco una “forza terza” che favorisce una delle due, ma in maniera arbitrale, in modo da superare la fase di blocco e di empasse senza che ciò implichi una loro distruzione. Questo “Cesare” (non necessariamente una persona fisica) naturalmente è una figura autoritaria, che centralizza il potere, ma non necessariamente militare, “golpista”: può essere anche un'oligarchia, un partito, un gruppo o gruppi di potere, ecc..

Secondo Gramsci il “cesarismo” si divide in due tipi: “progressivo” e “regressivo”.

Il primo può, seppur conservando tratti autoritari, spingere in avanti la storia, anche se con limiti e inevitabili mediazioni, dal punto di vista dell'innovazione e del progresso.

Il secondo, al contrario, cerca di restaurare i vecchi principi del dominio, anche se, precisa Gramsci, non ci può mai essere un puro e semplice ritorno al passato e le “controrivoluzioni” devono necessariamente assorbire e metabolizzare elementi innovativi.

Per inciso, Gramsci fa la distinzione paradigmatica tra Napoleone I e Napoleone III, come esempi delle due situazioni possibili.

Il “Cesare” ha sempre un ampio consenso, usa la propaganda diretta con il popolo, ha tratti carismatici, salta tutte le mediazioni, nonché gli organismi intermedi e come tutti i “Cesari” storici lascia formalmente inalterate le istituzioni repubblicane e le costituzioni, pur svuotandole nella sostanza.

Renzi incarna perfettamente la figura del “Cesarismo regressivo”: si pone come compimento del processo rivoluzione-controrivoluzione, formalizzando la rottura della dialettica tra lotte-crisi-ristrutturazione e la fine di ogni mediazione politico-sociale tra lotte di classe e sviluppo capitalistico. Ma qui è interessante notare una precisazione gramsciana valida anche oggi: la “rivoluzione passiva cesarista”, cioè l'imposizione dall'alto del comando con lo svuotamento di ogni opposizione, con la “passivizazzione delle masse”, la loro riduzione in “popolo amorfo”, la distruzione delle comunità di classe in una serie di atomi isolati - come si legge nel Jobs act - significa che pur nella crisi strutturale e irreversibile del modo di produzione capitalistico, le classi dominanti hanno ancora la possibilità di riprodurre meccanismi di comando sul lavoro, in assenza di una soggettività antagonista forte e determinata, in grado di costruire un'alternativa reale esistente.

L'assorbimento potenziale nell'esecutivo degli apparati istituzionali della Repubblica ha infatti un'altra faccia, che non si esprime soltanto nelle intimidazioni alle correnti dissidenti del PD, al superamento delle alleanze con il centro-destra e ai moniti al Presidente della Camera Boldrini. L'altro lato del cesarismo renziano è il disciplinamento del lavoro vivo e il conseguente attacco alle possibilità del darsi dei movimenti sociali. Qui sta l'atrocità del Jobs Act, contornata dalla rottura con la cinghia di trasmissione che rappresentavano i sindacati tradizionali.

Dal punto di vista strutturale viene portato a conclusione il ciclo di ristrutturazione capitalistica iniziato alla fine degli anni 70 nel nostro paese, come risposta di classe da parte del capitale e delle sue istituzioni alle lotte operaie e proletarie, le loro conquiste storiche, salario, diritti, autonomia, maggiori spazi di democrazia reale, potere sociale e politico del lavoro vivo. Questo processo si muove naturalmente nel rapporto crisi-ristrutturazione a livello globale, in cui l'Italia deve assumere un determinato ruolo nella divisione internazionale del lavoro, per quanto riguarda l'organizzazione della produzione, i rapporti di classe e di comando sulla forza lavoro e la gestione dei flussi finanziari. Va da sé che in questo processo di globalizzazione produttivo-finanziaria, come più volte rilevato, viene meno l'autonomia ed il ruolo decisionale degli stati nazione.

La "controrivoluzione" di cui si accennava parlando del cesarismo è quella rispetto al '68 e al ciclo di lotte degli anni '70. L'ideologia che li sottende è quella fornita dalle teorie neo-liberiste, la prassi consiste in una sistematica distruzione dell'organizzazione collettiva, sociale ed autonoma della "classe", della forza e potenza del lavoro vivo contro il capitale.

L'esecutivo del comando capitalistico nelle democrazie rappresentative deve essere man mano rafforzato e centralizzato, il "decisionismo" diventa il leitmotiv dei vari governi, in quanto imperativo categorico per un comando rapido, veloce, in grado di eseguire gli input del capitale finanziario globale, sempre mutevoli ed imprevedibili, così come i flussi del mercato, la flessibilità produttiva del modello post-fordista e la mobilità della forza lavoro.

Conditio sine qua non è l'assoluta disponibilità di una forza lavoro totalmente suddita, frantumata, corporativizzata, privata di qualsiasi autonomia politico-sociale. Non è forse questa l'essenza del Jobs act?

Il neoliberismo configura una nuova sovranità oligarchica (a tratti personalistica) in primo luogo finanziaria che mira ad assoggettare le nuove potenzialità del lavoro vivo nella nuova fase post-fordista, come la vecchia economia politica fu l'ideologia della borghesia capitalistica nella fase dell'accumulazione originaria. Ecco la traduzione tutta italica della governance europea!

Hic Rhodus, hic salta! Il nostro discorso, come quello più profondamente gramsciano, verte proprio sulla formazione di una nuova soggettività rivoluzionaria che, come dice il nostro, si foggia “molecolarmente” nelle lotte e nei conflitti o come, potremmo dire noi, nei molteplici punti di resistenza, aggregazione, progetti alternativi, a questo modo di produzione e ri-produzione, che attraversano l'essere sociale nella sua dimensione biopolitica.

L'unico antidoto al “renzismo” è un nuovo Potere costituente!