Il "se puede" che spacca la Spagna

La chiusura delle urne consegna la certezza della fine del bipartitismo in Spagna e l'attestarsi di Podemos come terza forza politica del Paese. Una #remontada che parte dai territori.

21 / 12 / 2015

“Abbiamo chiuso una fase storica del nostro paese, la fase del bipartitismo”, si legge nella dichiarazione di Iñigo Errejón più ritwittata dall’account di Podemos. Il numero due del “partito viola” è solo il primo a dire ciò su cui non possono che concordare tutti i politici e gli analisti, perché in effetti è la prima elezione dal crollo del franchismo i cui risultati non consegnano una maggioranza assoluta ad un’unica formazione politica. Con un’affluenza al 71%, il Partido Popular di Rajoy, premier uscente, ha raggiunto la maggioranza dei seggi (123) ma ha registrato un calo impressionante in termini di voti rispetto a quattro anni fa. Il Partido Socialista, seppure ha avuto un calo di consenso minore a quello dei Popolari dalle ultime elezioni, si presenta fortemente ridimensionato (90 seggi), rimanendo comunque il secondo partito del Paese. La novità che interrompe la continuità naturale del turnismo, cioè la più becera tradizione di alternanza tra i popolari ed i socialisti che esclude un posizionamento fuori dal centro da loro rappresentato, è indubbiamente data da Podemos. Il partito di Pablo Iglesias si attesta, in coalizione con le liste di En comù Podem, Compromìs-podem-es-el-momento e En marea, 69 seggi costituendo uno degli elementi per il quale “la notte che si sta vivendo – continuava Errejón nella sua conferenza stampa ieri sera – sarà studiata nelle aule delle scuole”. Podemos subisce una differenza di voti dai socialisti soltanto di circa 400.000 unità. Anche l’entrata nella Camera dei Deputati spagnola di Ciudadanos (40 seggi), riconosciuti come i “populisti liberali”, ha contribuito a definire la situazione politica ingovernabile. Con questi numeri non sono scontate le alleanze, le tattiche, gli equilibri necessari per la nomina di un governo che comunque sarà necessariamente pluri-partitico. La sola certezza che abbiamo di fronte riguarda un desiderio collettivo della società spagnola, profondamente orientata ad un cambiamento nelle sue istituzioni e ad una sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali.

In un breve commento delle elezioni il quotidiano El Paìs paragona l’attuale configurazione della Camera e del Senato al nostro periodo di instabilità politica del secondo dopoguerra, quando le istituzioni della Repubblica erano governate dal pentapartitismo. Ma ad occhi più accorti questo paragone ha diverse falle. Così come un tentativo superficiale e impreciso di appropriazione dei risultati elettorali spagnoli. Vediamo in breve perché. 

Bisogna soffermarsi in primo luogo sul risultato ottenuto da Podemos. Dopo gli ultimi mesi in cui si è registrato un calo nei sondaggi delle preferenze pre-elettorali, dovuti principalmente all’iniziale ambiguità sulle questioni del plurinazionalismo e dell’indipendentismo di alcuni territori sul suolo spagnolo, nelle settimane precedenti il voto c’è stata la cosiddetta remontada. La flessione di Ciudadanos, che si è schierata contro l’indipendenza e ha fatto una serie di scivoloni sulle questioni di genere rivendicate dai movimenti femministi, ha sicuramente fatto convergere i voti dei più centristi verso Podemos. Ma ciò che ha permesso questo risultato storico è stato il cambiamento di strategia politica e comunicativa del “partito viola”. Un forte dibattito interno a Podemos a seguito delle elezioni municipali ha interessato  due linee che si stavano delineando nel suo comitato centrale: perseguire la strategia inaugurata con le confluencias nelle città metropolitane, oppure centralizzare la lista delle candidature. Le “confluenze” sono state il dispositivo che ha creato le alleanze tra il partito e le liste civiche composte dagli attivisti e dai partecipanti ai movimenti sociali urbani; queste coalizioni, che hanno conquistato le due principali metropoli di Madrid e Barcellona, hanno aperto il programma, le istanze ed i processi decisionali di Podemos al basso, alla cittadinanza attiva che di quartiere in quartiere ha istituito i suoi luoghi dell’agire politico. Sul livello nazionale centralizzare la lista avrebbe significato chiudere definitivamente la partecipazione diretta dei territori che esprimono la loro specificità e che vogliono vederla rappresentata in Parlamento. La scelta finale di candidare Podemos e contemporaneamente altre liste riconducibili a queste esperienze locali è stata vincente. En Comù Podem per la Catalogna (forte della presenza della alcadesa di Barcellona Ada Colau), Compromìs-podem-es-el-momento per la comunità valenciana e En Marea in Galizia condividono con Podemos i contenuti ed il programma elettorale  mantenendo un rapporto diretto con le volontà e le esigenze delle proprie località regionali. Parte integrante di questa strategia è stata la presa di posizione ferma sull’indipendentismo, che in alcune comunità rimane un fattore politico e culturale non indifferente. Iglesias ha optato per la promozione di referendum popolari, dunque una rimessa della decisione nelle mani della cittadinanza, non sbilanciandosi sul contenuto in sé (essere per o contro) ma dimostrandosi a favore della forma più democratica per dire l’ultima parola. Non è un caso che Podemos sia il primo partito in Catalogna e nei Paesi Baschi, secondo a Madrid, a Valencia e in Galizia. 

Una tale relazione tra il centro ed i territori dal punto di vista organizzativo non è da sottovalutare, perché interrompe una lunga storia delle forza politiche e sociali che vediamo riprodotta, talvolta, anche nei movimenti. Superare la subalternità dei territori al comitato centrale, rendendoli differenza integrante del discorso e dell’elaborazione politica complessiva, risulta tanto importante quanto lo è la valorizzazione delle lotte reali che esistono nelle città. Vuol dire che i territori decidono e influiscono sul programma a partire da loro e senza cadere nel provincialismo localista perché compartecipano di una visione complessiva. E ancora di più, lo spazio delle città (e non solo) è riconosciuto per il protagonismo che ha perché è la dimensione nella quale si sono attivati i movimenti sociali e dove questi hanno ottenuto delle vittorie, non soltanto dal punto di vista elettorale. La coalizione dei vari partiti che si sono candidati sotto l’egida di Podemos non è stata dunque un’accozzaglia di nomi per fare numero, una sommatoria blanda: è stata un processo vero e proprio che ha mantenuto il portato di ricchezza sociale dal quale è nato lo stesso partito viola e le varie liste municipali. Questa sarebbe un’altra lezione da imparare prima di uscirsene in terra nostrana con i facili entusiasmi sulla ricomposizione a sinistra, senza tuttavia andare oltre a questo mondo (composto da partiti tradizionali e associazioni) o fare niente in questo senso.

Tutto ciò rimanda alla proposta politica di Podemos, che in qualche modo guarda a questo primo cambio di rotta organizzativo. Cambiare la relazione tra centro e territori rimanda alla necessità per la Costituzione spagnola di rispettare la sua anima, come è stata chiamata da Iglesias, plurinazionale. Da qui la proposta di una maggiore autonomia delle comunità che rappresentano la plurinazionalità, accostata ad un uso del diritto costituzionale in contraddizione con il resto d’Europa. Oltre alla battaglia contro la corruzione e la giustizia influenzata dalla politica, Podemos si è inserita nel dibattito sulle riforme costituzionali in direzione opposta ai governi neoliberali: invece di formalizzare il pareggio di bilancio e di conseguenza la norma dell’austerità e dei tagli, si vuole rendere legge fondamentale il rispetto dei diritti sociali; l’austerità diventerebbe, di conseguenza, in un certo modo incostituzionale. Senza tralasciare il punto che introduce la possibilità di revocare il mandato del governo da parte del popolo nel caso in cui non venga applicato il programma elettorale proposto. 

Ci sarà un governo che potrò farsi carico di questo programma? Rajoy, primo leader di un Paese europeo ad ottenere la maggioranza delle preferenze nonostante abbia governato dopo l’austerità, gode della maggioranza relativa alla Camera e di quella assoluta al Senato. I prospetti per le future alleanze stanno mandando in confusione gli scienziati politici, tra chi vede nelle dichiarazioni pre-elettorali del Pp e del PSOE sull’impossibilità di un accordo una verità e chi invece vede possibili governi di coalizione di ogni colore e bandiera. L’unica certezza matematica per avere una maggioranza assoluta è data dai Popolari e dai Socialisti assieme, perché né un governo Pp-Ciudadanos né uno PSOE-Podemos vi potrebbe arrivare. Inoltre, per i due partiti neoeletti, si tratterebbe di una questione tattica che rischia di contraddire uno dei loro principali movimenti politici, ossia il rifiuto della casta al potere dei decenni scorsi (per quanto Ciudadanos sia sempre stato ambiguo su questo). Un’alleanza di sinistra à la portoghese tra socialisti e Podemos trova delle condizioni difficili, perché comunque al Senato (incisivo sulle riforme costituzionali) non avrebbero alcuna sponda, oltre ad avere divergenze su vari punti. E’ anche vero che la formazione di un governo tra i socialisti ed i popolari porterebbe ad una frattura nei Comuni dove Podemos e il PSOE hanno una maggioranza in coalizione. Per adesso Sanchez, leader socialista, ha rifiutato qualsiasi possibilità di formare un governo, ma ha ammiccato all’astensione al momento del voto per la nomina di Rajoy a capo dell’esecutivo, cosa ribadita da Rivera di Ciudadanos. 

E’ abbastanza evidente che il tentativo delle prime ore sia quello di marginalizzare Podemos, di adottare anche in terra ispanica quell’estremismo di centro che ha governato la crisi negli ultimi anni ed è ben rappresentato dalle élites europee della Grosse Koalition, soprattutto quelle che occupano le sedi delle istituzioni sovranazionali. In questa direzione andranno le loro pressioni, visti i precedenti e le spinte centrifughe che il Vecchio Continente continua a soffrire in più contesti da Nord a Est. Diversamente dall’Italia degli anni Sessanta-Settanta, la ricerca di un’unità neutrale tra forze politiche per il governo di un Paese non dovrà fare i conti soltanto con i partiti disponibili a costituirla. Il peso specifico di Podemos è già un argine istituzionale che può ostacolare di volta in volta le decisioni del governo pluripartitico e approfondirne le contraddizioni. Ma, in particolare, la resistenza delle città dove le liste municipali di sinistra ed i movimenti sociali sono ben radicati ad un possibile governo centrale a destra, non è da sottovalutare. E Iglesias, Colau, Carmena e molti altri lo sanno bene, come dimostra la strategia elettorale. 

Che la situazione di ingovernabilità a guida popolare diventi un’occasione  per costruire, sempre dal basso, un governo alternativo? Soltanto le condizioni future, in Europa e in Spagna, unite ad una rinnovata spinta dal basso potranno dircelo.