Il serpente Uroboro

La crisi sistemica della “governance” neoliberista e i movimenti moltitudinari

11 / 9 / 2019

E’ noto che Uroboro e’ un simbolo potente della mitologia antica, è il serpente che divora se stesso, che si morde la coda. La crisi di governo in Italia e la sua provvisoria soluzione - dal giallo-verde al giallo-rosso - non è altro che la vittoria del potere finanziario transnazionale come forma del comando del capitale post-fordista. Mai messa in discussione né prima né ora e che ben rappresenta questo avvilupparsi della crisi su se stessa; di fatto modificando l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Ma non è una questione solamente italiana: pensiamo all’Inghilterra della Brexit, alla Francia di Macron, agli Stati Uniti di Trump, divisi tra protezionismo e ultra-liberismo e neppure la Germania sta troppo bene, per non dilungarci in altre situazioni mondiali attraversate da una infinità di contraddizioni.

Ebbene, non c’è dubbio che ci troviamo di fronte a una crisi organica, per dirla con Gramsci, del modo di produzione capitalistico. Ma allora, quali sono le caratteristiche di questa crisi? Quali enormi potenzialità sovversive si annidano in esse? Quale il punto di vista di classe per una strategia e una tattica adeguata per la costruzione del comune?

Certo, questo compito non può certo essere pianificato a tavolino né essere partorito da un qualche intellettuale “illuminato”: vive nelle lotte e nei movimenti, nei  processi di soggettivazione e di organizzazione. La soggettività organizzata “di parte” - frutto di un accumulo di esperienze, lotte, saperi, pratiche antagoniste, strutture materiali e comunicative - deve essere immanente ai movimenti reali, trasmettere conoscenze e nel contempo imparare dal nuovo i linguaggi, le forme di lotta e le loro combinazioni a geometria variabile.

In fondo, non diciamo niente di nuovo: è un’interpretazione non dogmatica e sclerotizzata del leninismo, nel rapporto mai lineare e deterministico tra spontaneità e organizzazione, nell’essere sempre interni alle dinamiche reali dei movimenti, portando un contributo di esperienza e di continuità nei flussi e riflussi inevitabili della lotta di classe contro il capitale e tutte le articolazioni del suo dominio. Lenin fa proprio e trasforma in azione pratica l’insegnamento marxiano di analisi della tendenza e la sua anticipazione. «Un passo avanti alle masse, ma solo un passo, non di più, per non perdere il rapporto con il movimento reale» diceva, racchiudendo  la vecchia indicazione - fatta propria e sviluppata dall’ operaismo - che segue le anticipazioni intelligenti di disarticolazione del comando per sviluppare e realizzare la strategia.

La paura della moltitudine

Possiamo a questo punto cercare di individuare alcuni nodi centrali della crisi sistemica del capitalismo globalizzato:

1) La crisi della rappresentanza, della democrazia rappresentativa e dello stato di diritto.

2) La crisi dei meccanismi di accumulazione del capitale a fronte delle trasformazioni del modo di produzione e della forza lavoro.

3) I limiti estremi, sociali e naturali, del capitale come modo di produzione storicamente determinato

Le crisi di governo sempre più veloci e ravvicinate, i ribaltoni continui sono il sintomo di qualcosa di più profondo, che si agita molecolarmente nel corpo sociale: quando la vita stessa viene sottomessa alla valorizzazione del capitale, quando la sussunzione reale completa il suo processo sussumendo l’intera sfera del “vivente” sociale e naturale per un’accumulazione illimitata di profitto e capitale-denaro, le contraddizioni di classe, di genere, di razza, del rapporto con il “mondo-ambiente” in cui siamo immersi, si moltiplicano all’infinito. Queste infatti eccedono le forme di controllo e di misura della legge del valore.

Come è possibile imbrigliare, rinchiudere, codificare il flusso della vita, la sua imprevedibilità e creatività? Certo, il capitale ci prova, ma si tratta di una tensione continua, un rapporto irriducibilmente antagonistico e non mediabile con la potenza del lavoro vivo e l’emergere di sempre nuovi bisogni sociali, desideri e forme di vita. Mentre nell’epoca della formazione dello stato-nazione e del moderno concetto di sovranità la “rappresentazione” del politico avveniva attraverso la costruzione di un’unità fittizia e artificiosa, il Popolo, oggi come è possibile rappresentare la moltitudine, l’insieme variegato e frammentato delle singolarità “comuni” messe al lavoro e concatenate nella cooperazione sociale produttiva? Come è possibile ridurre l’irriducibile molteplicità della forza lavoro sociale post-fordista a un unicum omogeneo e indifferenziato?

La “governance” nel neoliberismo è, non a caso, un termine mutuato dalle pratiche di gestione aziendale: si tratta di adeguare e riadeguare continuamente le forme del comando e del controllo a una realtà cangiante, non rinchiudibile in schemi fissi, inseguire l’estrema variabilità del mercato, le trasformazioni del lavoro e della produzione sociale per riportarle dentro l’ordine della misura del saggio di profitto. Ovvero dentro un ordine rappresentativo, che però è sempre in bilico, fragile, relativo.

Da qui la trasformazione dei principi universali e rigidi del diritto in puro “normativismo giuridico” variabile a servizio della contingenza, per così dire “situato” nelle mille pieghe e flussi della materia sociale vivente, delle sue forme di conflitto e resistenza. Ritorna quella paura della moltitudine che ha caratterizzato la costruzione da parte della borghesia nella fase dell’accumulazione originaria e della moderna sovranità statuale, se si pensa al pensiero di  Thomas Hobbes, Jean Bodin, ma anche alcuni teorici liberali nella rivoluzione francese come Benjamin Constant. Assolutisti, costituzionalisti o liberali che fossero, l’unico scopo era quello di imbrigliare l’imprevedibile potenza dei poveri e dei dominati all’interno dell’ordine costituito, impedendo con ogni mezzo l’emergere di un nuovo potere costituente.

La potenza della moltitudine

Anche oggi, nella nuova accumulazione originaria post-fordista, seppur in forme diverse e infinitamente più complesse, assistiamo al medesimo tentativo. L’instabilità politica strutturale dei governi neoliberisti ha proprio in questa potenza della moltitudine - implicita ed a volte esplicita ed esplosiva, molecolare e a volte molare - la sua causa principale. Una moltitudine che si organizza all’interno dei principali assi della riproduzione sociale, contro il climate change per la giustizia climatica, contro il patriarcato, le grandi mobilitazioni sui migranti, la loro irriducibile resistenza e la disobbedienza delle navi della salvezza, ma anche, non dimentichiamolo, le lotte dei lavoratori della logistica, settore strategico per la circolazione del capitale.

Nel Climate Camp al Lido di Venezia tutte queste tematiche si sono intrecciate su un piano transnazionale in maniera straordinaria, nell’analisi, nel dibattito, nella lotta e hanno rivelato la possibilità di trovare elementi comuni di lotta oltre le trappole identitarie e rappresentative. Non c’è la ricerca dell’unità nella molteplicità, in cui le differenze sono rimosse in nome di un soggetto omologante, ma al contrario queste si valorizzano e mettono in relazione per costruire una soggettività comune e molteplice.

L’esperienza del Lido rappresenta un salto di qualità notevole perché ha anche un altro significato profondo: la potenza nel mettersi insieme, di cooperare per un progetto comune. Cuore, passione, cervello, intelligenza, corpi, lavoro e cooperazione per costruire una forma di vita fuori e contro il capitale. Proviamo a immaginare questa potenza che abbiamo sperimentato in piccolo diffusa e allargata alle moltitudini sfruttate nelle mille pieghe della produzione e riproduzione sociale: quale grandioso e meraviglioso spettacolo di liberazione!

Il capitalismo non è riformabile, poiché nella sua natura costitutiva ha come finalità solo ed esclusivamente il profitto, lo sfruttamento illimitato delle risorse umane e naturali, fino al limite estremo della distruzione del pianeta e della vita. Il limite del capitale è il capitale stesso, diceva Marx, o meglio del rapporto irriducibilmente antagonista che lo contrappone alla cooperazione sociale libera e indipendente, al lavoro vivo, alla natura, ad ogni aspetto del vivente e della sua riproduzione. La transizione rivoluzionaria non è demandabile ad un futuro utopico, ad un secondo tempo: c’è solo un tempo, il nostro, ed è nella prassi materiale e costituente, nel divenire potenza comune. Non c’è che una maniera per distruggere Uroboro, liberarsi dalla maledizione dell’eterno ritorno del sempre uguale, essere divorati dal suo stesso divorarsi, in un ciclo perenne e nichilista: tagliargli la testa, come diceva Nietzsche nello Zarathustra.