Un contributo di analisi verso il seminario Digital Commons

Impigliati online: reti sociali in Internet e capitalismo cognitivo

21 / 4 / 2010


La produzione delle reti sociali in Internet ha conosciuto negli ultimi anni uno sviluppo spettacolare. Da quando è apparsa la prima nel 1995, le reti sociali si sono moltiplicate fino a diventare gli spazi più visitati in Internet. Solo Facebook, una delle più conosciute, conta più di trecento milioni di utenti. Mentre il tempo speso per navigare in rete è aumentato del 18% tra il 2007 e il 2008, quello che hanno dedicato gli utenti delle reti sociali in Internet per interfacciarsi tra di loro è cresciuto del 63%. Per questo la sua conversione in un business si sta facendo tanto rapida quanto la sua proliferazione: Sonico, la rete sociale online che ha avuto la maggiore crescita in America Latina, ha realizzato un primo ciclo di capitalizzazioneper un valore di 4,3 milioni di dollari. Nonostante ciò, la rilevanza del fenomeno ha un significato più qualitativo che quantitativo. Lontano dal costituire una realtà virtuale, le reti sociali telematiche spiegano in misura sempre migliore la materialitàdel capitalismo attuale e l’ambivalenza del tempo storico che stiamo vivendo. Nonostante l’apparente alone di neutralità, costituiscono un vero e proprio campo di battaglia.

La saggezza vitale delle reti sociali in Internet è la stessa benzina che muove il biocapitalismo nel quale viviamo: linguaggi, soggettività, saperi, affetti. In definitiva: il comune e la vita. Se si dà un’occhiata a Facebook, subito si può osservare che l’attività principale della maggior parte degli utenti consiste nella costruzione di una narrazione multimediale delle proprie vite. Il privato diventa pubblico e si traduce in una sorta di competizione informale tra intensità vitali: sono maggiormente quotate le pagine personali che contengono un numero maggiore di eventi vissuti. Ci sono milioni di persone addette alla pubblicazione dettagliata degli eventi della propria vita. I contatti che si hanno in rete vengono mostrati come trofeo di una vita intensa fatta di interazioni che si misurano non in base alla qualità delle relazioni, ma per la quantità di connessioni che si accumulano. Non parliamo di una comunicazione qualsiasi, in realtà la rete funziona come una passerella per l’autoreferenzialità. Più che interfacciarci con gli altri, continuiamo a parlare di noi stessi. Facebook è l’orgasmo dell’egolatra. Proprio come nell’orgasmo, il momento del suo raggiungimento ci allontana dall’altro quanto più ci avvicina. E’ un tipo di socialità che racchiude una perversione paradossale: si muove attraverso una rete che individualizza.

Che il comune e la vita siano il motore e l’energia delle reti sociali in Internet fa si che sopra a queste si muovano costanti strategie per il loro controllo e sfruttamento. Il capitalismo di oggi è globale non soltanto perché il capitale ha costretto il pianeta intero sotto il suo comando, ma anche perché sfrutta la vita sociale nel suo insieme. Tre sono i livelli di sfruttamento del comune e della vita nelle reti sociali in Internet. Il primo è la sua privatizzazione: quando diventi utente di Facebook firmi un contratto nel quale attraverso caratteri piccolissimi vieni avvertito che i proprietari della rete sociale ostenteranno la proprietà intellettuale, esclusiva e perpetua, di tutto ciò che tu produrrai e pubblicherai. Il secondo è la sua mercificazione: nel 2007 Facebook ha venduto una parte a Microsoft del valore di 240 milioni di dollari affinché la rete sociale si convertisse in un modello di business per marchi di fabbrica attraverso i quali offrire prodotti e servizi secondo i dati e il profilo degli utenti. Il terzo è il suo controllo: Greylock Venture Capital ha recentemente fatto percepire 27 milioni e mezzo di dollari a Facebook. Uno dei soci di Greylock è Howard Cox, che appartiene al fondo di investimento in capitale di rischio della CIA. Il finanziamento dell’economia mostra apertamente la sua dimensione di controllo sociale. Da anni la CIA sarebbe infiltrata in rete, oggi basta un pacchetto d’azioni per controllare tutto ciò che attraverso questa si muove

Nonostante l’opinione generalizzata che le reti sociali in Internet siano territori di interazione oziosa, ogni giorno si mostrano sempre più come autentici spazi di produzione che obbligano a mettere in discussione la nozione dominante e riduttiva del lavoro produttivo. Lo sviluppo della cosiddetta società della conoscenza, tanto in voga da alcuni anni nelle agorà accademiche e imprenditoriali, si appoggia ad una nuova dinamica di accumulo del capitale nella quale il lavoro di taglio cognitivo assume un peso qualitativo sempre maggiore. Nello sviluppo di questa dinamica, il lavoro remunerato e soggetto all’orario della giornata lavorativa ufficialmente riconosciuta, non rappresenta più di una piccola frazione di tempo sociale dedicato alla produzione. L’accumulo di capitale è oggi sempre più esterno ai processi di produzione formalmente riconosciuti come tali e riposa in un’attività che occupa l’insieme dei tempi sociali, dando luogo ad un enorme massa di lavoro non riconosciuto né retribuito: il lavoro diventa invisibile. Da questo punto di vista, il nuovo regime cognitivo di accumulo non implica unicamente un’economia intensiva in conoscenza, ma anche un’economia intensiva in lavoro. Le reti sociali in Internet ci danno un buon esempio per capire di che cosa stiamo parlando. Andiamo a vedere il caso di Twitter, una rete gratuita che permette ai suoi oltre cinquanta milioni di utenti di comunicare attraverso dei micro-testi.

Twitter è stato creato nel 2006 e si trova in mano ad un’ impresa privata che dal momento della sua apparizione ha ricevuto 55 milioni di dollari in fondi di investimento provenienti fondamentalmente da capitale di rischio. Fino ad oggi, il suo servizio di microblogging è stato disponibile solo in inglese ed in giapponese. Da alcuni giorni, la compagnia ha annunciato nel suo blog l’imminente apparizione di versioni in altre lingue. Il procedimento per la traduzione sarà facile e proficuo: gli utenti di Twitter confezioneranno le nuove versioni in maniera volontaria, ovvero lavoreranno gratis. Nel blog della compagnia si può leggere; “Non importa quanto sofisticata sia la tecnologia, ogni giorno ci viene ricordato che in realtà si tratta di persone e questo è qualcosa che noi abbiamo preso seriamente in considerazione al momento della traduzione di Twitter. (…) Quanti più volontari avremo, tanto più rapidamente accumuleremo suggerimenti su traduzioni e avremo più materiale per rendere Twitter accessibile non solo in inglese e giapponese, ma anche in francese, italiano, tedesco e spagnolo. Distribuiremo le traduzioni che ci invierete alla piattaforma dei sviluppatori di Twitter per rendervi più facile l’offerta di aiuto nelle differenti lingue. La varietà di applicazioni sulla quale oggi Twitter può contare è stata possibile grazie al fatto che i nostri sviluppatori si sono serviti di questa piattaforma semplice e aperta. Protocolli come ‘@mentions’ y ‘retweet’ sono stati inventati dagli utenti per ottenere più vantaggi dalla loro esperienza Twitter”. Il paragrafo risulta utile per capire alcune delle caratteristiche chiave del modello della produzione cognitiva. Operiamo quattro tagli al testo come se fossimo dei geologi e vediamo che cosa nasconde al suo interno.

Primo taglio:“Non importa quanto sofisticata sia la tecnologia, ogni giorno ci viene ricordato che in realtà si tratta di persone”. Uno dei fenomeni più vistosi del nuovo paradigma produttivo è la smaterializzazione del capitale fisso e il trasferimento delle sue funzioni produttive ed organizzative al corpo vivo della forza lavoro. La cosa significativa non è il fatto che gli utenti di Twitter siano in realtà lavoratori invisibili della compagnia proprietaria della rete, ma che incarnino una nuova qualità in quanto tale: oltre al fatto di possedere la forza lavoro, operano come mezzi di produzione in quanto sedimentazione dei saperi acquisiti, dei linguaggi e delle grammatiche produttive, delle esperienze vissute e delle conoscenze accumulate. La compagnia Twitter praticamente non ha macchinari o infrastrutture fisiche: il suo patrimonio sono i suoi utenti-produttori come capitale umano. L’economista Christian Marazzi lo definisce come “modello produttivo antropogenetico”: produzione dell’uomo per l’uomo. Un modello nel quale le persone incarnano le funzioni del capitale fisso e allo stesso tempo quelle del capitale variabile. Un paradigma nel quale i fattori di crescita si legano direttamente con l’attività umana e la sua capacità relazionale, comunicativa, innovatrice, affettiva e creativa. Ciò significa che oggi il capitale si gioca sempre di più la sua fortuna nello sviluppo dell’educazione, della salute e della cultura. Nonostante l’ottusità della resistenza neocon legata al vecchio capitale industriale e agli interessi delle compagnie assicuratrici, Obama l’ha capito alla perfezione. Per questo si è impegnato nella riforma della sanità e dell’educazione dopo il suo arrivo alla Casa Bianca. Sa che il sistema si gioca la vita.

Secondo taglio:Distribuiremo le traduzioni che ci invierete alla piattaforma dei sviluppatori di Twitter”. La base dell’organizzazione del lavoro nel nuovo paradigma produttivo è lo sviluppo di una cooperazione sociale reticolare che va oltre la concezione tradizionale della cooperazione propria del modello industriale classico. La cooperazione non ha più un carattere situato e fugge agli spazi e ai tempi del lavoro remunerato e formalmente riconosciuto come tale. Continua ad essere questa “forma di lavoro di molti operai coordinati e riuniti con fermezza a un piano nello stesso processo di produzione o in processi di produzione distinti però relazionati” che definirebbe Marx, ma il suo punto di partenza non è più “la riunione di un numero relativamente grande di operai che lavorano nello stesso tempo, nello stesso luogo”. La fabbrica di Twitter è la vita sociale stessa. Non vi è modo di stabilire una netta frontiera tra la produzione e la riproduzione. L’ozio e la sua negazione, il neg-ozio, sono qui indistinguibili. Per questo si tratta di un modello che implica un’economia intensiva di lavoro, perché questo si trova da tutte le parti, perché ci prende tutto il tempo. Può essere che molti degli utenti di Twitter siano disoccupati, ma non smettono di lavorare neanche per un istante. Nella società del pieno lavoro, sembra più pertinente la rivendicazione della piena remunerazione più che del pieno impiego. Se vivere in società presuppone lavorare, è giusto che ci paghino per questo.

Terzo taglio:”(...) i nostri sviluppatori si sono serviti di questa piattaforma semplice e aperta” La base del sistema di lavoro di Twitter è la semplicità delle sue applicazioni e il carattere aperto delle stesse. L’essenziale è che risultino maneggevoli e accessibili a tutti gli utenti. Il nuovo paradigma produttivo implica un accesso aperto al comune, la sua materia prima fondamentale, soprattutto nelle sue forme sociali: reti di comunicazione, banchi di informazione e circuiti culturali. Hardt e Negri segnalano giustamente in Commonwealth (Harvard University Press, 2009), che l’innovazione nelle tecnologie di Internet dipende direttamente tanto dall’accesso al comune e all’informazione, quanto dall’abilità a connettere e interfacciarsi con gli altri nelle reti prive di carattere restrittivo. Tutte le forme decentralizzate di produzione necessitano della libertà e dell’accesso al comune, incluso quelle nelle quali non si vedono coinvolte le tecnologie telematiche. Il problema che il capitale si trova a risolvere in questo nuovo paradigma è quello del governo dei circuiti produttivi che richiedono questo grado di libertà. L’esperienza in Internet ci mostra che quanto più cerca di regolare in maniera legale ed economicamente l’accesso e la distribuzione allla produzione del comune nella rete, più strutture sviluppano l’intelligenza collettiva per appropriarsi e riprodurre il comune attraverso canali nuovi rispetto alla logica proprietaria e commerciale.

Quarto taglio:Protocolli come ‘@mentions’ y ‘retweet’ sono stati inventati dagli utenti per ottenere più vantaggi della loro esperienza Twitter”. Qualificare come meri utenti i produttori tanto del carattere multilingue di Twitter, come dei citati protocolli di servizio, significa occultare il loro carattere di produttori. Rendere invisibile il loro lavoro presuppone un esercizio evidente di precarizzazione dello stesso: e nemmeno viene riconosciuto come tale. Uno dei paradossi più forti che presenta il nuovo modello produttivo è che allo stesso tempo in cui concede centralità al lavoro cognitivo, mentre fa leva sulla produzione di ricchezza, lo svalorizza in termini di salario e di impiego. Nonostante l’evidente contributo produttivo, il lavoro degli utenti di Twitter non è remunerato, né preso in considerazione il valore che produce, riconosciuto il fatto che esula dalla sfera monetaria di intercambio commerciale e dalla relazione salariale. La società della conoscenza non implica solo un’economia intensa di lavoro, si muove a ridosso di un lavoro senza uno statuto, sempre più sommerso e reso invisibile.

Nonostante ciò, che l’uso della categoria “utente” nasconda che i navigatori di Internet che popolano le reti sociali siano in realtà i suoi produttori, non significa che non siano utenti di un servizio. Quello che le rete Twitter mette in evidenza non è solo fino a che punto le relazioni di servizio sono sempre il risultato di una coproduzione nella quale gli utenti sono parte attiva, ma che lo sviluppo del capitalismo cognitivo fa dell’utente, l’autentico soggetto della produzione. Quando i proprietari di Twitter tre anni fa lanciarono la loro rete in Internet, non potevano nemmeno immaginare fino a che punto ne avrebbero delegato la produzione ai loro utenti. La rete è stata disegnata perchè i suoi clienti comunicassero tra di loro attraverso i chiamati “tweets”, micro-entrate basate su un testo di lunghezza massima di 140 caratteri. Oggi, senza dubbio, una delle attività comunicative di maggior peso e prestigio in Twitter è il denominato “retweeting”, che istruisce gli utenti a scambiare e condividere tweets generati da altri. La cosa interessante è che i proprietari della rete sociale non hanno avuto niente a che fare con la creazione di questo strumento: è stata l’intelligenza collettiva degli utenti che ha generato autonomamente l’innovazione.

Le reti sociali in Internet non solo mettono a nudo le concezioni dominanti sul lavoro, ma servono anche per enfatizzare fino a che punto è stato operato un mutamento nella natura del consumo, che dunque mette in discussione il modo che fino adesso abbiamo avuto di pensarlo. La razionalità propria dell’organizzazione sociale ed economica della società industriale del diciannovesimo secolo distribuiva in maniera binaria l’insieme delle nostre attività attorno a due temporalità differenziate: il tempo della produzione e il tempo del consumo. Nei nostri giorni questa distinzione risulta impossibile: il consumo è diventato produzione. Il nuovo modello economico nel quale si inserisce lo sviluppo del lavoro cognitivo è prima di tutto un paradigma sociale che si definisce attraverso l’integrazione produttiva dei consumatori come produttori: partecipano ad una proliferazione sparpagliata di atti creativi e comunicativi attorno a delle merci la cui vita non si esaurisce nell’atto del suo consumo, ma si prolunga attraverso una continua attività linguistica e relazionale che vede come protagonisti alcuni consumatori che non smettono di produrre immaginari associati al prodotto e al suo marchio.

Le reti sociali in Internet si inseriscono in questa nuova natura produttiva del consumo e si convertono irrimediabilmente in uno dei suoi motori più dinamici. Le agenzie di pubblicità e le imprese di marketing lo sanno e si sono messe all’opera per catturare il carattere produttivo dei loro utenti, mettendo la socialità e l’informazione che le loro relazioni sociali producono al servizio di un mercato il cui contorno coincide con quello della stessa società. Nielsen, una prestigiosa compagnia transnazionale di consulenza in marketing e mercato, dice in uno studio pubblicato nel marzo di quest’anno: “Le comunità dei fan sono forse uno degli esempi più riusciti di un marketing nelle reti sociali che si basa sui principi dell’interattività e del valore aggiunto. (...) Le reti sociali contribuiscono enormemente a generare affinità di marchio per coloro che mettono gli annunci attraverso queste comunità di fan che, sostanzialmente, funzionano come la pubblicità stessa”. La rete Facebook, per esempio, ha una comunità chiamata “affezionati a Starbucks”, i cui protagonisti sono utenti che condividono la loro affinità per la rete statunitense di caffetterie che porta lo stesso nome. L’enorme volume di interattività e il livello di produzione di soggettività che genera questa comunità si può misurare anche solo con tre dati: ha 124.000 utenti iscritti, che conversano in 670 forum di discussione differenti riguardo alle 10.000 commenti che sono stati pubblicati fino a questa data. La produttività di questa comunità non deriva dall’uso strumentale che il marketing fa del flusso comunicativo stesso. E’ la socialità stessa e il fatto di conversare quello che risulta produttivo. L’agenzia Nielsen lo esprime così nel tracciare le linee strategiche per possibili imprese di annunci: “che i membri della rete sociale siano co-creatori del suo contenuto e che, conseguentemente, abbiano un senso di appartenenza alla stessa, significa che la pubblicità deve basarsi sulla partecipazione in una conversazione rilevante con i consumatori più che in una semplice pressione su questi attraverso annunci. La pubblicità non deve interrompere o invadere l’esperienza nella rete sociale, deve essere parte della conversazione”.

Il consumatore non è più la figura classica della domanda passiva di una merce standardizzata, ma il soggetto attivo di un vero lavoro che integra i suoi desideri e i suoi valori nella costituzione del prodotto, fabbricandone anche l’universo simbolico. Un lavoro che non incontra solo nella soggettività il suo combustibile e il suo risultato, ma che fa dell’affettività uno dei suoi motori più significativi: l’attività degli utenti delle reti sociali di Internet non solo possiede una natura cognitiva, ma ha anche un marcato carattere affettivo. All’agenzia di consulenza Nielsen non è sfuggito questo dettaglio, per questo annota nel suo studio che “le reti sociali girano in ultima analisi attorno all’amicizia, i membri aggiungono reciprocamente valore alle loro vite mediante l’interazione (...) Allo stesso modo dell’amicizia, il marketing nelle reti sociali richiede un investimento continuo in termini di tempo e di sforzo opposto a quello puramente economico”. E’ evidente che presuppone un uso troppo leggero di un concetto tanto forte come quello di amicizia, ma non è meno evidente che la logica che muove la maggior parte degli utenti delle reti sociali in Internet fugge da una razionalità puramente economica nella quale, in modi molto differenti, si vede implicata un’azione disinteressata e si mette in moto la questione affettiva. Che la base della logica affettiva sia estranea al fatto economico sottolinea il carattere orribilmente perverso della capitalizzazione della socialità online. La malvagità è comunque già implicita nel modo in cui vengono proposte ed organizzate le interazioni da alcune delle reti sociali più importanti in Internet. Victor Keegan, un articolista del The Guardian, esperto in nuove tecnologie, ha descritto come “nuova filatelia” la raccolta di contatti che sotto il nome di “amici” gli utenti della rete Facebook collezionano. La perversione del concetto di amicizia è già implicita nella propria logica di funzionamento di questa rete: l’amicizia si sottomette al calcolo e si propone senza attrito e senza processo. Paradossalmente, non ha nessun valore però valorizza colui che la possiede e la esibisce come capitale simbolico.

C’è da dire però che le reti sociali in Internet sono una fonte di ambivalenza che apre nuove relazioni e permette altri utilizzi. Il capitale si trova sempre davanti allo stesso problema: non costituisce solamente una forma di dominio, è anche una relazione sociale il cui sviluppo dipende da una produzione di soggettività che gli è interna e allo stesso tempo gli resiste. La socialità online si è convertita negli ultimi anni in uno strumento per il dissenso e il conflitto sociale. Le rivolte in Iran della scorsa estate sono state classificate dai media come “la rivoluzione Twitter”, in riferimento al rilevante ruolo giocato nell’organizzazione delle proteste dalla rete sociale che porta questo nome.

Attraverso Twitter e altre reti sociali in Internet i manifestanti iraniani hanno raccontato al mondo la loro rivolta in tempo reale e si sono presi gioco della ferrea censura imposta dal governo. Quando la repressione si è fatta più dura nei confronti dei chiamati “attivisti di Twitter”, il Dipartimento di Stato nordamericano si è dimostrato particolarmente sensibile, arrivando addirittura a chiedere ai gestori della rete che posticipassero la sospensione del servizio che periodicamente realizzano per il suo mantenimento per non interferire nelle attività del movimento democratico iraniano. Curioso. Appena poche settimane prima il G-20 si era riunito nella città statunitense di Pittsburgh. Elliot Madison, un lavoratore sociale di New York, ero stato parte attiva nelle proteste organizzate in risposta al vertice. Una settimana dopo l’FBI faceva irruzione nel suo domicilio e lo arrestava dopo aver perquisito la sua casa per sedici ore ed aver confiscato gran parte dei suoi beni personali. Madison è il primo processato negli Stati Uniti per l’utilizzo delle reti sociali a fini politici. L’accusa che si trova a fronteggiare: uso criminoso dei mezzi di comunicazione e possesso di strumenti per il crimine. La sua colpa: far parte della rete sociale pubblica di Internet che i movimenti sociali hanno costruito attraverso Twitter per comunicare tra di loro durante le proteste di Pittsburgh. Da tempo si dice che il potere è cieco. Sotto l’amministrazione Obama è senza dubbio ipermetrope: nella distanza osserva molto bene quello che non vuole nemmeno vedere da vicino.

Oltre agli usi che i movimenti e gli attivisti sociali fanno delle reti in Internet, la socialità online costituisce un territorio iper-popolato da pratiche comunitarie che mettono in scena una tensione interessante rispetto al grado di libertà che siamo capaci di conquistare in Internet e più in là di questo. Il fenomeno fan, per esempio, mette insieme nelle reti sociali esperienze che possono servire per dar vita ad una discussione. Un fan non è solamente un ammiratore entusiasta di qualcuno o qualcosa: è un agente che fa crescere e allarga socialmente il mondo del fenomeno che asseconda. Le industrie culturali hanno visto negli ultimi anni come il carattere attivo e produttivo dei pubblici si sia intensificato grazie ad Internet. Un fan di una serie televisiva, per esempio, ora non solo si ritrova in casa con gli amici per vedere le puntate della sua fiction preferita, ma abita anche le reti sociali di Internet espandendo e moltiplicando comunitariamente la vita del suo oggetto di culto: condivide informazioni, discute sui personaggi e sulle trame, socializza e scambia episodi, etc. Genera un’interazione comunitaria che frequentemente elude la logica commerciale e si oppone alla legalità; sempre più spesso si appropria di e condivide contenuti culturali per vie che non sono commerciali. Nonostante ciò, si tratta di una libertà di prim’ordine o ristretta; è unicamente una libertà di lettura. Estende un testo già dato. La libertà continua a rimanere intrappolata nel lavoro invisibile e serve al consumo propagando attraverso la rete la dipendenza dal prodotto.

Una delle conseguenze più importanti della globalizzazione è, nel bene e nel male, la creazione di un mondo comune che tutti condividiamo. Un mondo che non ha un fuori: oggi la partita si gioca dentro. Le reti sociali in Internet conoscono anche dinamiche fan che, partendo da un mondo già dato dalle industrie culturali, producono comunitariamente nuovi testi e nuovi mondi. Si tratta della pratica di una libertà differente, di seconda specie o generalizzata: una libertà di scrittura. Henry Jenkins racconta nel suo libro Convergence Culture (New York University Press, 2006) l’esperinza di Heather Lawver, una bambina di 13 anni del Mississippi, che ci può servire per capire di cosa stiamo parlando.

Affascinata dalla lettura delle avventure di Harry Potter, Lawver ha lanciato un sito Internet per bambini che si presentava come un giornalino scolastico di un collegio di una scuola inesistente (The Daily Prophet: http:/www.dprophet.com), il cui proposito era creare “un’organizzazione infantile dedicata a dar vita al mondo della letteratura”. Il mezzo si fece semplicemente con una squadra di più di cento bambini fino ad arrivare a coinvolgere nelle sue pagine migliaia di persone che inventano storie creando personaggi e contribuiscono a formare una comunità intergenerazionale e transnazionale di creazione narrativa e di co-educazione. Un’esperienza altamente potenziata dal suo carattere aperto: basta inventarsi un’identità ed avere storie da raccontare per partecipare ad un’avventura che va oltre la pratica della lettura e conquista il comune diritto alla scrittura. Il fatto che la piccola Heather sia una bambina non istruita e che mai è andata a scuola ci parla di autonomia. Che l’iniziativa sia gestita da bambini, senza nessun controllo da parte degli adulti, indica la sua indipendenza. Che si approprino di storie emanate dall’industria culturale per alterarle e trasformare la meccanica della loro produzione, segnala la sua messa in discussione pratica della logica proprietaria. Che molti dei ragazzini che partecipano all’iniziativa abbiano problemi in casa e si rifugino in questa rete di narrativa comunitaria per fuggire alle proprie realtà esistenziali ci parla di un’esperienza autorganizzata di gestione delle cure: una specie di Welfare di base. Che l’attività di creazione e scrittura sia sempre condivisa e comune ci mette davanti ad una discussione del concetto dominante di autorità e ad una ridefinizione dello stesso in termini collettivi, dimostrando che l’intellettualità è stata oggi socializzata fino al punto di divenire comune, generale e di massa. In definitiva, l’articolazione di un’intelligenza collettiva che non solo non viene delegata, ma che anche si difende se qualcuno cerca di minacciarla: quando la Warner Bross, proprietaria dei diritti di Harry Potter, si mobilitò per chiudere il sito e processare giuridicamente i suoi fruitori, i bambini crearono Defense Against Dark Arts, un’organizzazione infantile di base che difende il diritto dei bambini a creare mondi immaginari a partire da opere letterarie. “Ci sono forze oscure lì fuori (...) che ci stanno portando via. la nostra libertà di parola, la libertà di esprimere i nostri pensieri, le idee (…) ci stanno togliendo il divertimento di un libro magico”, diceva il manifesto di presentazione redatto dalla piccola Lawver e che nel suo ultimo paragrafo chiamava letteralmente alla presa delle armi.

La sinistra classica vive rinchiusa in un mero e permanente esercizio di lettura: ha paura della libertà generalizzata. Il caso più allarmante è quello dei suoi sindacati, ancorati a un testo del mondo produttivo del passato e incapaci di capire le profonde trasformazioni che ha sperimentato il lavoro negli ultimi anni. C’è mille volte più audacia nell’intelligenza collettiva dei bambini del Daily Prophet che in tutti i partiti e sindacati uniti assieme. Quello che si mette in gioco nelle reti sociali di Internet non è la fortuna di una realtà virtuale scissa dalla materialità della trasformazione sociale possibile e necessaria: sono campi di battaglia che semplificano paradigmaticamente non solo le dinamiche dello sfruttamento attuale, ma anche i territori per lo sviluppo di una nuova radicalità democratica ed emancipatrice. Attraverso ciò viaggia una delle contraddizioni fondamentali che agita la crisi delle forme dell’accumulo capitalista dei nostri giorni: nonostante l’appoggiarsi alle politiche di privatizzazione del comune e della vita, necessita paradossalmente della loro espansione. Se noi siamo il suo capitale umano, è perché siamo anche la sua crisi. La logica di resistenza che attraversa le reti sociali in Internet va oltre la mera opposizione. Resistere significa sviluppare all’infinito la potenza dell’intelligenza collettiva che incarniamo. Conquistare la libertà e l’indipendenza necessarie per mettere a nudo definitivamente il carattere parassitario del capitale. Scrivere la nostra propria storia.

Sociologo e sceneggiatore televisivo.

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7/5/2010 > 8/5/2010