Inject me. O della riapertura della scuola delle competenze

4 / 2 / 2022

Mentre cerco distrattamente di concentrarmi sul mio foglio Word, la luce dello schermo del cellulare cattura il mio sguardo. Sbircio da sopra la tastiera del computer: un’altra notifica mi fa sapere che una collega della mia scuola dà comunicazione di essere in isolamento per aver contratto il Covid. Essendo l’ennesima persona che si aggiunge alla schiera delle assenze, il messaggio non fa più notizia dentro la mia testa. Da inizio anno, ormai, stiamo facendo a turno con i periodi di quarantena da contatto o isolamento per contagio, non solo noi facenti parte del personale scolastico, ma anche i singoli studenti e studentesse o intere classi. Parallela alla lunga sfilza di messaggi di docenti in malattia/isolamento corre la lista delle circolari interne, ogni giorno arricchita di almeno una voce (se non di più), che mettono in didattica digitale integrata (DDI) intere classi, o parti di esse, per presenza di due o tre positivi. Quando sono rientrato in servizio, non mi hanno accolto le solite file di macchine indaffarate a lasciare figli e figlie davanti ai cancelli, congestionando il traffico della piccola strada che costeggia il cantiere navale; i corridoi sono deserti e a tratti si sente il rumore delle proprie scarpe sul pavimento dal poco chiasso che esce dalle aule. La scuola è aperta, certo, si può entrare nell’edificio, si firma il registro, si vedono (alcuni/e) colleghi/e e (alcuni/e) studenti/esse, si fa lezione e si porta avanti la routine lavorativa. Ciononostante, non posso fare a meno di chiedermi come stiamo tenendo aperte le scuole, quale tipo di offerta formativa stiamo consegnando in mano a studenti e studentesse, in che direzione sta andando la professione dell’insegnante. Tutte domande che valevano ben prima dell’era pandemica, ma che oggi si fanno ancora più pressanti a causa dell’accelerazione delle trasformazioni dell’istituzione scolastica nell’emergenza sanitaria. Come noto, la gestione del covid-19 ha portato alla luce storture, diseguaglianze e linee di tendenza in moto da molto tempo. Proviamo a vederne alcune, contestualizzandole nel disegno sociale dell’ideologia neoliberale.

Leggere i dati

A guardare i numeri delle assenze o l’impiego della didattica digitale integrata nella mia scuola, e confrontandoli con le informazioni ricevute da colleghi/e di altri istituti, parrebbe che la macchina dell’istruzione pubblica si sia inceppata. Ma, a volere aderire al metodo scientifico di analisi, soltanto di impressione posso parlare, perché la mia considerazione si basa sull’esperienza personale e sul sentito dire. Per evitare di cadere nel soggettivismo delle impressioni di insegnanti e operatori scolastici, viene spontaneo leggere le delucidazioni del Ministro dell’istruzione, Patrizio Bianchi. Alla conferenza stampa del 19 gennaio, Bianchi annunciava i dati ufficiali sull’impatto della pandemia sulle scuole, riportando che le classi in presenza, a una settimana dal rientro a scuola dopo le vacanze di Natale (periodo dal 10 al 15 gennaio), erano il 93,4%, di cui il 13,1% aveva attivato la modalità digitale integrata per singoli casi, mentre soltanto il restante 6,6% risultava avvalersi della didattica integrata per tutti i e le discenti. Non senza una punta di rivalsa, Bianchi smentiva la rilevazione ufficiosa dell’Anp (Associazione nazionale presidi) di pochi giorni prima, che aveva attestato al 50% le classi in didattica integrata. Eppure, come scritto in un articolo apparso su Il Manifesto, il senso di trionfo con cui sono stati comunicati i dati sembrerebbe nascondere un’opacità di fondo nella loro raccolta e diffusione. Oltre al fatto che in molte regioni dal 25% al 26% delle scuole non aveva fatto pervenire informazioni sullo stato dell’arte della didattica, i sindacati facevano giustamente notare che il 13,1% e il 6,6% componevano un 20% di classi, un numero discretamente alto, in cui vi era una didattica mista o a distanza, dunque un insegnamento e uno stare in relazione tra pari che non poteva godere in assoluto dei vantaggi della presenza. In risposta al Ministro, il Presidente dell’Anp lascia intendere che i singoli Dirigenti scolastici iscritti all’associazione trasmettessero delle cifre aggiornate rispetto a quelle del Ministero, la cui indagine rischiava di non seguire in tempo reale il passaggio da una modalità di insegnamento all’altra. Inoltre, viene da dire che il Ministro non si era concentrato su come il contagio o la quarantena di insegnanti e operatori scolastici influissero sulla didattica, tra sostituzioni, ore buche, entrate posticipate o uscite anticipate rispetto all’orario di lezione.

Che il Ministero abbia cura di condurre una guerra sui dati non è di certo sorprendente: il Governo Draghi ha difeso a spada tratta la decisione di tornare in presenza dopo l’Epifania nel bel mezzo della risalita dei contagi a causa di Omicron. Inscalfibili alle critiche del personale scolastico e alle mobilitazioni studentesche, che hanno reclamato un rientro in piena sicurezza, Draghi e Bianchi hanno puntato sull’apertura degli istituti perché, evidentemente, non volevano permettersi di investire massicciamente su indennità e ammortizzatori sociali quali congedi parentali per Dad, i quali sono stati sì rinnovati fino al termine dell’emergenza sanitaria (per un totale di 29,7 milioni), ma corrispondono al 50% del salario e, soprattutto, vengono attivati per i e le discenti minori di quattordici anni (salvo le eccezioni previste per le certificazioni L. 104/92) costretti alla didattica a distanza. In poche parole, nonostante la misura sia comoda per assistere i e le minori durante la didattica integrata, il Governo ha ristretto enormemente la platea dei possibili beneficiari, che si sarebbe sovrapposta a tutte le famiglie in caso di chiusura delle scuole nel periodo di picco della variante Omicron. In aggiunta ai motivi materiali della scelta, vi è anche una ragione ideologica. Promuovendo una strategia di contenimento del Covid imperniata sul vaccino come unica soluzione salvifica, chiudere le scuole (e i luoghi di lavoro) avrebbe di fatto affossato la campagna comunicativa dello Stato italiano e delle istituzioni europee. Tale campagna, infatti, ha ammantato la produzione e la distribuzione del vaccino con la promessa che sarebbe stato sufficiente per arginare gli effetti socio-sanitari del virus e tornare alla cosiddetta “normalità”, scongiurando lockdown e restrizioni più rigide. Sotto gli occhi della popolazione europea, tuttavia, sta la dimostrazione della limitatezza della vaccinazione collettiva se non accompagnata da un ripensamento e un finanziamento, massiccio e mirato, del welfare, dalla scuola alla sanità, in particolar modo di fronte ad una variante che potrebbe aprire ad una fase endemica del virus.[1] Nessuno vuole negare l’efficacia del vaccino nel prevenire le forme severe di malattia e le ospedalizzazioni, così come nel fare da barriera all’emersione di nuove varianti. Esso è e rimane uno strumento di contrasto al virus imprescindibile. È altrettanto vero, però, che Omicron elude la protezione dall’infezione virale dei vaccini in commercio, aumentando significativamente le probabilità di isolamento domiciliare. Questo pesa sulla produzione economica e sul funzionamento dei servizi pubblici come scuole e ospedali, visto che dipendenti e funzionari possono rimanere vacanti per periodi più o meno lunghi.[2] Con il rischio di essere ripetitivo nelle accuse mosse alla politica, scrivo anche io quello che collettivi studenteschi e sindacati vanno dicendo da inizio pandemia: per assicurare l’operatività della scuola e la costruzione di comunità nella scuola nell’oggi della pandemia, serve urgentemente aumentare l’organico docente e ATA, trovare nuovi spazi più voluminosi e idonei, ridurre il numero di iscritti/e per classe, riattivare un tracciamento funzionante, avviare finalmente una campagna di screening negli istituti con tamponi effettuati settimanalmente, dotare gli istituti di infermerie di base e di tutti i dispositivi di protezione, a partire dalla fornitura esaustiva (non due a settimana) per tutti i docenti, ATA e studenti/esse delle mascherine FFP2. Tutte disposizioni che sarebbero dovute entrare in vigore fin dalla ripresa dell’anno scolastico nel 2020 e rafforzate durante questo autunno/inverno, considerando che l’inoculazione della terza dose, senza la quale è molto più facile contagiarsi con Omicron, non ha ancora coperto tutto il personale della scuola da dicembre a oggi e che esistono le situazioni più delicate dell’infanzia, dove i e le bambine non sono vaccinate e non portano la mascherina, e della primaria, dove la percentuale di popolazione vaccinata è molto bassa.[3]

Scuole aperte per competere

Tra classi e singoli a distanza, segreterie con personale ridotto, docenti in malattia, viene da chiedersi come si possa diffondere il messaggio che gli istituti scolastici di ogni ordine e grado stiano garantendo la didattica. Fisicamente saranno pure aperti, ma la qualità dell’insegnamento e la socializzazione risentono fortemente della nuova ondata. Non mi riferisco soltanto alle assenze per contagio, che causano interi buchi nelle lezioni: per i e le docenti presenti il problema si crea nella compresenza di più mansioni da portare a compimento, a causa delle quali viene meno quella che dovrebbe essere la principale, cioè la trasmissione e l’elaborazione di conoscenza. Nella cornice di un tempo di lavoro cognitivo già contratto da una fagocitante burocrazia (coordinamento delle classi, progetti, verbali, PDP/PFP, relazioni, schede individuali, schede degli apprendimenti, compiti da stilare e da correggere, riunioni, collaborazione amministrativa con la presidenza, ecc.), nella scuola pandemica gli e le insegnanti sono diventati sempre più dei vigilanti della corretta condotta preventiva dei e delle minori, controllori dell’adeguata presentazione dei documenti delle autorità sanitarie per i rientri da quarantene e infezioni, tracciatori dei contatti dei positivi nelle classi. In più, premesso lo scarso tempo rimanente per preparare lezioni finalizzate all’espansione della conoscenza e non solo al trasferimento di nozioni, immaginarsi un format di didattica mista tra persone in presenza e connesse da remoto realmente inclusivo finisce per essere un puro sforzo di fantasia nel migliore degli scenari, una fonte di stress gratuita nel peggiore. Posto che le persone a distanza abbiano a disposizione una tecnologia adeguata e non abbiano difficoltà cognitive o psicologiche nel seguire attraverso un dispositivo, come può l’insegnante sorvegliare la classe che ha davanti a sé e assicurarsi che dall’altra parte dello schermo vi sia ascolto attivo? Quanto è difficile per uno studente o studentessa intervenire per fare suggestioni o chiedere chiarimenti, interrompendo la lezione, se a distanza? Quanto rimangono alti i livelli di attenzione da remoto? E quanto lo rimangono per coloro che, in aula, assistono a lunghe presentazioni PowerPoint, video e immagini creati ad arte necessari per coinvolgere le persone da casa, che non vedono la lavagna e la prossemica dell’insegnante? Come coprire i tempi morti dovuti alla caduta della connessione (spesso fornita con i dati internet privati del/la docente)? Sono domande retoriche, si dirà. La questione sta proprio nella conoscenza della risposta. Sembreranno cose da poco, ma, uniti tutti assieme, ognuno di questi aspetti contribuisce a dequalificare il sapere prodotto a scuola e ad atrofizzare l’apprendimento di percorsi di ragionamento, per i quali imparare e riflettere dovrebbero essere il risultato dell’incontro tra concetti, metodi, sensibilità soggettive, critiche e conflitto tra prospettive, idee e posizionamento, in un circolo virtuoso che tiene al suo interno docenti e studenti/esse. Nella scuola pandemica, mancanza di tempo e mezzi deficitari non gettano le condizioni oggettive per un’alta produzione di conoscenza.

Ma, dopotutto, non ci si può aspettare altro dalla scuola delle competenze, modello inaugurato negli anni Novanta, la cui parabola ha toccato l’apoteosi con la “Buona Scuola” di Renzi (L. 107/2015). Ben prima del Covid, direttive, note ministeriali e corsi di formazione hanno disseminato questa ideologia mutuata dal mercato secondo cui il docente non dovrebbe incarnare la figura dell’insegnante, bensì quella del “mediatore” o del “facilitatore” del sapere. La mediazione riguarderebbe le informazioni che presuntamente studenti e studentesse reperirebbero da internet, testi e dispense didattiche nel loro tempo di studio a casa. In quest’ottica, la scuola si trasformerebbe nel laboratorio di messa a punto, compilazione, applicazione delle nozioni carpite dalla rete e dai libri di testo a casa, in un capovolgimento dei tempi di studio e apprendimento classici (di qui i progetti di Flipped classroom). Da semplici discenti ragazzi e ragazze si fanno utenti e protagonisti, perché si presuppone che abbiano autonomia di studio e una flessibilità tale da selezionare contenuti online e seguire con dovizia un metodo di ricerca, mettendo in pratica le abilità e i concetti acquisiti nel ciclo di formazione. Essere flessibili significa adattarsi a tutte le situazioni imprevedibili e complesse, come può essere l’assegnazione di un compito (task) su argomenti ignoti, escogitando una soluzione originale (problem solving). Queste le principali capacità che vanno a comporre il ventaglio delle abilità “morbide” o “personali” (soft skills), una delle dimensioni delle famigerate “competenze”. Completamente schiacciate sul raggiungimento pragmatico e professionale di un obiettivo, le competenze mischiano nozioni perlopiù tecniche e tratti emotivo-caratteriali, e definiscono il grado di successo che un competente ha rispetto ad altre persone nella gara per l’ottenimento di un premio/riconoscimento, ad esempio un voto rimarchevole, un posto ambito di stage/tirocinio o il tutoraggio di un progetto tra pari (l’etimologia di “competenza” rimanda, tra gli altri significati, alla competizione).[4] Ecco spiegata la derivazione dal mercato del lessico contemporaneo dei programmi di istruzione: la scuola si prefigge di fabbricare individui competenti, nel doppio senso di competitori sul lavoro e di risolutori, e del saper fare qualcosa – una mansione, una professione, oppure stare in relazione. Stessa sorte tocca ai docenti, ai quali sono richieste le medesime flessibilità e problem solving nell’adattamento delle lezioni al gruppo classe, di cui devono stimolare allo stesso tempo attenzione e motivazione con tecniche brillanti e accattivanti (smart e catchy, si direbbe in gergo), adesso al centro dei manuali di formazione per insegnanti a discapito dei contenuti, del dibattito e dell’argomentazione. La forma supera il contenuto conoscitivo coerentemente con una visione del sapere strumentale alle esigenze economiche della filosofia del capitale umano.

In questo modo, il funzionamento del sistema di istruzione dipende sempre di più dall’aleatorietà dell’individuo, che si tratti di studenti/esse o di docenti. Il successo dell’apprendimento delle competenze viene demandato alla flessibilità e capacità in partenza delle e dei singoli, andando a ispessire la linea delle diseguaglianze. Dal lato studentesco, chi potrà studiare in autonomia a casa, consultare il giusto materiale e saperlo elaborare, prepararsi per le prove con sicurezza di sé e autostima immune dall’ansia da prestazione, sarà la persona che gode di un ambiente familiare accogliente e sereno, i cui membri sono in grado di prestare assistenza, spronare allo studio e fornire allo studente o studentessa risorse culturali e tecnologiche. Viene dunque meno il principio universale che reggerebbe l’istituzione scolastica a garanzia di un diritto all’istruzione di qualità e ugualmente accessibile per tutti/e. Senza contare che l’altra diretta conseguenza dell’odierno modello di scuola è l’inasprimento della competizione, da cui l’ulteriore aumento della diseguaglianza e la rottura di legami sociali solidali, reciproci e orientati agli interessi collettivi.

Si capirà, allora, come per Bianchi e Draghi l’apertura delle scuole a gennaio sia stata una vittoria. Negli istituti scolastici in carenza di personale e con classi a distanza o ammezzate, la didattica e la messa in pratica delle competenze non si sono mai interrotte: facendo ricorso a talenti personali, tecniche di adattamento e conoscenze tecnico-informatiche, gli e le insegnanti hanno potuto mettere alla prova il loro grado di flessibilità e problem solving; ancora più flessibilità è stata richiesta ai e alle discenti quando è stato domandato loro di intensificare lo studio autonomo a casa in conseguenza del minor tempo per spiegazioni esaustive in classe, dotarsi di dispositivi informatici non sempre a disposizione, mantenere alti i livelli di attenzione e superare con successo le verifiche di fine quadrimestre. Al Ministero poco importa che in questa situazione di inizio anno gli ingranaggi già arrugginiti e dalla dentatura piuttosto smussata della didattica subiscano un (ennesimo) blocco, rendendo fittizio il ritorno alle lezioni in presenza: per considerare aperta la scuola è sufficiente che si continuino a insegnare direttamente e indirettamente le competenze, in aula e nelle ore di alternanza.

Il punto qui non è stigmatizzare in sé le competenze o la conoscenza tecnico-pratica, che pure sono utili e richieste in alcuni curricula scolastici proprio da ragazzi e ragazze, specialmente negli istituti tecnici e professionali; tantomeno tornare alla scuola gentiliana delle grandi conoscenze enciclopediche prettamente teoriche e standardizzate. Il problema risiede nella progressiva misurazione della scuola sul metro del lavoro, da cui vengono le nuove linee guida didattico-educative e l’obbligatorietà dell’alternanza, a danno del tempo di studio, di laboratorio e di vita. Questa unità di misura del lavoro schiaccia il sapere sul presente posto dal capitalismo contemporaneo, legittimandolo in quanto verità, e non lascia spazio ad un sapere che sappia guardare oltre il già dato. Cioè, oltre lo sfruttamento e la dipendenza dai datori di lavoro.  

Iniezioni neoliberali

Un filo rosso lega la decisione di riaprire le scuole e la strategia di fuoriuscita dalla pandemia quasi esclusivamente calibrata sul vaccino. Alla radice di simili scelte si trova la logica di un fare politica che non concepisce interventi strutturali di pianificazione a lungo termine al fine di offrire le medesime possibilità di vita a tutta la popolazione, che si tratti di diritto alla salute, allo studio o sul lavoro; al contrario, si propongono misure estemporanee che ci si aspetta sortiscano degli effetti positivi per il contesto a cui si rivolgono, senza prevedere alcuna assicurazione che riduca il rischio del loro insuccesso o parziale realizzazione. Il Governo ha scommesso che, dando un unico input (vaccinazione di massa e riapertura delle scuole) straordinario, la tenuta dei sistemi sanitari e scolastici non avrebbe vacillato durante grazie a una loro riorganizzazione “spontanea” finanziata con le (poche) risorse degli enti locali, rifocillate da quelle (magre) ad hoc ministeriali, e attuata dalla solerzia dei dirigenti, così come dalla flessibilità del personale e dell’utenza. In realtà, la quarta ondata di Omicron ha aggravato l’inceppamento del sistema sanitario, con il rimando di interventi e la procrastinazione delle liste di attesa, nonostante il vaccino; la scuola ha continuato ad abdicare alla sua funzione sociale e formativa, nonostante la riapertura degli istituti. Questa logica non è certo una novità, essendo figlia di quel pensiero politico che smantella il welfare in nome del merito individuale, perché ritiene che il mercato provvederà ai bisogni e ai desideri della società attraverso le sue invisibili e “spontanee” forze. Il compito della politica pubblica è, semplicemente, trovare un equilibrio nell’occorrenza di una crisi o stortura, adottando delle misure spot che assomigliano a delle iniezioni in uno o più shot: di vaccini, di aperture e chiusure di scuole e negozi, di bonus previdenziali, di taglio dei tassi di interesse sui prestiti per far circolare più moneta, di deregolamentazione. Rispetto a queste iniezioni le parti del corpo della società reagiranno in modo diverso a seconda dei loro mezzi e delle loro condizioni di partenza, differenziando così la risposta degli individui/gruppi sociali sulla base della classe di appartenenza, del genere e del territorio in cui vivono, specialmente se parliamo di istruzione e salute. La politica si affida, così, alle possibilità che i privati hanno di sopperire alle carenze strutturali del pubblico quando devono prenotarsi una visita o essere sottoposti a un intervento, utilizzare un PC per collegarsi ad una lezione a distanza oppure essere incentivati all’approfondimento individuale a casa. La presunzione di questa ideologia è che tutti abbiano un capitale economico, umano (in cui rientrano le famigerate competenze) e culturale per vivere dignitosamente per mezzo dei prodotti del mercato; la verità, assolutamente nota alle élite politiche, è che salute, istruzione, lavoro e sicurezza sociale dipendono dalla sorte individuale. Se non hai sopra di te la fortuna di una stella che brilla, te lo sei meritato. Tutto risplende come dovrebbe nel firmamento dell’universo neoliberale.

In quest’ultimo mese, una cometa ha segnato un cammino diverso da quello segnato dalla luce neoliberale. Mobilitazioni studentesche di giovanissimi hanno rivendicato il rientro a scuola in completa sicurezza, una didattica di qualità e l’abolizione dell’obbligatorietà del PCTO/alternanza scuola-lavoro (qui una raccolta firme) in ricordo dell’inaccettabile morte di Lorenzo Perelli. Resta da capire perché noi, operatori e operatrici della scuola (e della sanità), non riusciamo a convergere come classe lavoratrice per ripudiare quell’organizzazione del servizio pubblico già invisa alle giovani generazioni.

[1] https://thesubmarine.it/2022/01/08/scuola-macello-chiusure/

[2] https://www.internazionale.it/notizie/sarah-zhang/2022/01/14/omicron-covid-leggero

[3] https://ilmanifesto.it/calano-le-prime-dosi-in-oltre-78-milioni-ancora-senza-vaccino/

[4] https://www.etimo.it/?cmd=id&id=4154&md=0a8a7611dce9b33fba440d2c788c1936