La rottura con Usa e Turchia e la logica follia del governo israeliano. Al momento il perdente è Obama, presidente di una superpotenza impotente. La battaglia per Gerusalemme diventa religiosa.
(articolo pubblicato su la Repubblica il 17/3/2010)
Nel giro di pochi mesi, Israele ha rotto con il suo
fondamentale partner regionale, la Turchia, e ha sfidato il suo unico
alleato globale, gli Stati Uniti d’America. Follia? Masochismo? Non
proprio. C’è del metodo in queste crisi. E c’è una logica nel modo in
cui Israele le conduce. Il metodo e la logica sono quelle dominanti in
ogni democrazia: prima il consenso di chi vota, poi tutto il resto.
Nel
caso turco, per un paese che si sente minacciato di
distruzione dall’Iran, lo slittamento di Ankara verso il campo islamista
è intollerabile. Erdogan è considerato un traditore dell’intesa
turco-israeliana, un sodale di Hamas e di Ahmadinejad. Tornare all’asse
costruito negli anni Novanta su impulso dei due establishment militari,
uniti dall’avversione per l’islamismo e per i velleitarismi arabi, è
fuori questione.
Ma anche nella crisi con gli Stati
Uniti, Netanyahu può contare sul consenso di gran parte della
società israeliana. Su Gerusalemme non si discute. E un vero Stato
palestinese non ci sarà mai. Solo che finora questo dissidio strategico
fra Washington e Gerusalemme era coperto dalla diplomazia. Ora non più.
Obama
è visto da molti israeliani come un cripto-musulmano. Più
attento a guadagnarsi le simpatie del mondo islamico, a corteggiare gli
ex “Stati canaglia”, dall’Iran alla Siria, che a proteggere l’esistenza
dello Stato ebraico. Netanyahu è convinto che alla Casa Bianca si stia
complottando per provocare la caduta del suo governo, in favore di un
gabinetto centrista, sperabilmente più aperto al negoziato con gli arabi
e meno ossessionato dall’Iran.
Ipotesi molto teorica. Con
l’opinione pubblica israeliana orientata a non cedere un palmo ai
palestinesi, specie dopo che Hamas s’è installato a Gaza, è impensabile
per qualsiasi leader israeliano impedire la costruzione di nuove case a
Gerusalemme Est. Sarà pur vero che Benjamin Netanyahu non sapeva del
piano del suo ministro dell’Interno, Eli Yishai, di edificare 1.600
abitazioni nella parte orientale di quella che Israele considera la sua
capitale eterna e indivisibile. Ma anche se lo avesse saputo non lo
avrebbe impedito. Al massimo, avrebbe rinviato l’annuncio di qualche
giorno, per non provocare il suo ospite americano, Joe Biden.
E’
possibile, anzi probabile, che nel medio periodo Israele paghi
caro la sua intransigenza nei confronti dei pochi amici di cui ancora
dispone. Ma fra i dirigenti dello Stato ebraico prevale lo sguardo
corto, il tatticismo. Forse perché sentono che immaginando scenari
futuri, scoprirebbero che il tempo non lavora per Israele. Meglio
restare alla stretta attualità. Per sentirsi tuttora la massima potenza
regionale. L’unica nucleare – almeno finché Teheran non avrà la Bomba.
Se Obama si sbarazzerebbe volentieri di Netanyahu,
nessuno dubita che l’impulso sia ricambiato.
E la grave perdita di consenso del presidente americano, a pochi mesi
dalle elezioni di mezzo termine, induce il leader israeliano ad
affrontare il braccio di ferro con relativa serenità. Forte del consenso
domestico e della debolezza interna e internazionale di Obama. Al quale
si rimprovera di aver enfatizzato lo sgarbo a Biden, provocando secondo
Michael Oren, ambasciatore di Gerusalemme a Washington, “la più grave
crisi da 35 anni nei rapporti Israele-Usa”. Il riferimento è allo
scontro del marzo 1975 fra Kissinger e Rabin sul ritiro delle truppe
israeliane dai passi di Jidda e Mitla, nel Sinai. Il primo, americano di
origine bavarese ma ben consapevole delle sue radici ebraiche, avvertì
il premier israeliano: “Tu sarai responsabile della distruzione del
terzo commonwealth ebraico”. “Tu non sarai giudicato dalla storia
americana, ma dalla storia ebraica”, replicò Rabin. Sei mesi dopo,
Israele cedeva alle pressioni Usa.
E’ molto improbabile
che nella crisi attuale Netanyahu possa innestare la marcia
indietro. L’incidente verrà formalmente archiviato, prima o poi. Forse
già domenica, quando Netanyahu andrà a Washington – sapendo che Obama
non ci sarà perché in missione in Indonesia e Australia – per perorare
la sua causa davanti all’Aipac, la principale lobby pro-israeliana negli
Usa. Ma anche se scambierà sorrisi e strette di mano con Biden e
Hillary Clinton, il contrasto strategico è destinato a restare.
Allo
stato attuale del match, Obama è il perdente. Sembra passato
un secolo – invece nemmeno un anno – da quando prometteva una nuova èra
di dialogo con i musulmani e di pace in Medio Oriente, con ostentati
inchini alla civiltà islamica e al contributo della cultura araba al
progresso umano. Il “nuovo inizio” non è mai iniziato. Le distanze fra
Israele e i palestinesi sono aumentate. La diffidenza reciproca è
insormontabile. Obama ha scoperto che l’America non può fare la
differenza, perché in Terrasanta la stagione dei miracoli pare scaduta.
Non si può imporre la pace a chi non la vuole. O fa finta di volerla, ma
non ci crede.
Obama non è il primo presidente
americano a sbattere contro il muro Netanyahu. Quando Bill Clinton lo
ricevette alla Casa Bianca, stanco della lezioncina inflittagli
dall’amico israeliano, sbottò: “Chi è la superpotenza qui?”. Se Obama
osasse ripeterlo a Netanyahu oggi, probabilmente incontrerebbe un
sorriso di commiserazione. Perché fra amici gli incidenti si superano, i
danni si riparano. Ma ormai gli Stati Uniti non fanno più paura a
nessuno. Nemmeno allo Stato che rischierebbe di essere spazzato via se
non fosse per la protezione strategica americana.
Americani
e israeliani sono una vecchia coppia. Continueranno a
frequentare lo stesso letto, pur sognando sogni diversi. Ma senza
un’intesa fra Washington e Gerusalemme i mille dossier mediorientali non
potranno trovare soluzione. Anzi, si aggraveranno. Incoraggiando gli
estremisti, eccitando i fanatici. In Israele come fra gli arabi e i
musulmani. Dall’Egitto all’Iraq, dall’Iran all’Afghanistan, lo stallo
del motore israelo-americano intaccherà le posizioni di entrambi.
L’ultimo
degli scenari immaginati da Obama quando lanciò il suo “nuovo
inizio” era di approfondire la crisi israelo-palestinese. La Terza
Intifada, se mai scoppierà, si distinguerà per il marchio religioso. Ce
lo annunciano gli incidenti di ieri nella Città Vecchia di Gerusalemme,
che hanno suscitato emozione e rabbia nell’universo islamico. Il
fallimento di venti anni di “processo di pace” ha trasformato la disputa
fra nazioni in conflitto di religioni. Qui non c’è spazio per
compromessi, perché la Verità non ne tollera.
Nella battaglia per Gerusalemme - tutta ebraica o tutta musulmana (con i quattro gatti cristiani arabi a rischio di diaspora o sterminio) – ogni vittoria sarà effimera, premessa di rancori e rivincite interminabili. Riportare indietro l’orologio della storia, e ricondurre lo scontro nei classici canoni dei nazionalismi, è esercizio futile. Anche per il presidente della “superpotenza unica”, mai così impotente nella regione e nel mondo. Forse anche gli antiamericani più sfrenati vorranno interrogarsi sui danni che la crisi dell’egemonia a stelle e strisce può provocare, quando nessuno sa come riempire il vuoto scavato dalla beata incoscienza di chi, vent’anni fa, s’illudeva che la storia fosse finita. Con il suo apparente trionfo.