1. Nella Comunicazione della Commissione
al Consiglio dell’Unione Europea del 30 novembre 2006 “ Rafforzare la
gestione delle frontiere marittime meridionali” (COM 2006-733) si
individuava “l’esigenza di cooperare con i paesi di transito dell’Africa
e del Medio Oriente per trattare la questione dei migranti illegali”
rilevandosi peraltro come non fosse possibile “creare da un giorno
all’altro i necessari livelli di cooperazione fattiva e politica con
quei paesi, livelli che tuttavia si stanno gradualmente stabilendo in
base al dialogo e alla cooperazione sui problemi della migrazione
nell’ambito degli accordi di associazione euro-mediterranei e dei piani
di azione per la politica europea di vicinato (PEV)”.
In assenza di strumenti operativi idonei a praticare un’autentica
solidarietà con gli abitanti dei paesi più poveri, con iniziative
affidate agli enti locali e alle organizzazioni non governative, nel
corso degli ultimi anni si è quindi tentato di imporre ai governi degli
Stati di transito accordi bilaterali di collaborazione basati sul
finanziamento delle politiche di arresto, di detenzione e di espulsione
dei migranti irregolari, prima che questi potessero tentare l’ultimo
salto, la traversata verso l’Europa. In questa direzione l’Italia e la
Spagna hanno offerto gli esempi più eclatanti, nei rapporti,
rispettivamente, con la Libia e con il Marocco, concludendo accordi
bilaterali e/o intese a livello di forze di polizia che hanno permesso
il blocco e l’arresto di migranti, in molti casi potenziali richiedenti
asilo e minori non accompagnati, anche se provenienti da paesi terzi, in
cambio di trattamenti preferenziali negli scambi commerciali con i
paesi dell’area comunitaria. Già nel 2006 si prendeva comunque atto, da
parte della Commissione, come l’immigrazione irregolare via mare alle
frontiere esterne marittime meridionali dell’Unione europea fosse ormai
diventata un fenomeno misto, “comprendente al tempo stesso immigranti
illegali che non richiedono particolare protezione e rifugiati che
necessitano di protezione internazionale”.
Secondo la stessa Commissione, dunque, “la risposta
dell’Unione va orientata di conseguenza. L’asilo deve costituire un
elemento di rilievo di tale risposta e una opzione efficace per le
persone che necessitano di protezione internazionale. A tale scopo,
occorre assicurare che gli Stati membri applichino con coerenza ed
efficienza gli obblighi di protezione, per quanto riguarda
l’intercettazione e il salvataggio in mare di persone che possano
necessitare di protezione internazionale e la sollecita identificazione
di queste persone dopo lo sbarco, presso i luoghi di accoglienza. Va
sottolineato che, da questo punto di vista, i paesi terzi hanno
naturalmente gli stessi obblighi”.
Per la Commissione Europea, quindi, da anni “merita particolare
attenzione la portata degli obblighi di protezione imposti a uno Stato
dal rispetto del principio di non respingimento, nelle numerose e
diverse situazioni in cui le imbarcazioni di uno Stato attuano
provvedimenti di intercettazione o di ricerca e salvataggio. Più
specificamente, già nella Comunicazione del 2006 sulle frontiere
marittime meridionali, si avvertiva la necessità di “analizzare le
circostanze nelle quali uno Stato può essere tenuto ad assumere la
responsabilità di esaminare una richiesta di asilo in applicazione del
diritto internazionale in materia di rifugiati, in particolare laddove
tale Stato sia impegnato in operazioni congiunte o in operazioni svolte
nelle acque territoriali di un altro Stato, o in alto mare.
2. Il 25 marzo del 2010, il Parlamento europeo ha varato le linee-guida per la ricerca, il soccorso e lo sbarco degli immigrati in pericolo in mare, con una serie di disposizioni che pur non avendo un carattere strettamente vincolante, riguardano l’Agenzia per le frontiere FRONTEX, prevista dal regolamento 2007/2004/CE. Non si è modificato dunque il regolamento istitutivo dell’Agenzia, ma a causa del suo tenore estremamente generico è stato possibile integrarne la portata con delle “linee guida”. Non sembra che la scelta adottata porterà a prassi più sicure nei confronti di coloro che tentano la traversata per mare verso l’Europa e notevoli dubbi in tal senso erano stati sollevati anche dal Comitato LIBE che aveva suggerito al Parlamento la bocciatura della proposta della Commissione. Sembra in sostanza che la discrezionalità delle forze di polizia e dei governi nelle operazioni di respingimento in mare resterà assai elevata e dunque permarranno le ragioni dei ritardi che nel tempo hanno prodotto processi penali a carico di coloro che intervenivano in azioni di salvataggio ed un aumento consistente delle vittime per la sistematica omissione di soccorso in acque internazionali, omissione preordinata che l’assenza di regole vincolanti in qualche modo agevola e copre.
La Commissione per le libertà civili dell’Europarlamento
aveva suggerito all’Aula di respingere la proposta di decisione
adottata dalla Commissione, ritenendo che la sua portata andasse oltre
le competenze di esecuzione previste e auspicando, comunque, norme
obbligatorie e non orientamenti non vincolanti. La proposta della
Commissione è invece passata, pur non ricevendo i consensi dell’aula in
quanto i voti a favore del respingimento costituivano una maggioranza
semplice e “non qualificata”.
Gli orientamenti proposti dalla Commissione europea, e quindi adottati
dal Parlamento europeo, riguardano le intercettazioni di navi in mare,
le situazioni di ricerca e salvataggio durante le operazioni FRONTEX di
sorveglianza delle frontiere marittime esterne e lo sbarco delle persone
intercettate o soccorse. Tra l’altro, gli orientamenti prevedono che le
unità partecipanti alle operazioni prestino assistenza “a qualunque
nave o persona in pericolo in mare, indipendentemente dalla cittadinanza
o dalla situazione giuridica dello interessato o dalle circostanze in
cui si trova”. Le unità militari FRONTEX, inoltre, dovranno prendere in
considerazione l’esistenza di una richiesta di assistenza, la
navigabilità della nave, il numero di passeggeri rispetto al tipo di
imbarcazione (sovraccarico), la disponibilità di scorte necessarie
(carburante, acqua, cibo, ecc.), la presenza di passeggeri che
necessitano assistenza medica urgente e di donne in stato di gravidanza o
di bambini, nonché le condizioni meteorologiche e marine. Lo sbarco
delle persone intercettate o soccorse dovrà essere operato in conformità
del diritto internazionale e degli eventuali accordi bilaterali
applicabili tra gli Stati membri e i Paesi terzi. Il Parlamento europeo
ha ribadito, inoltre, la necessità di un maggiore controllo parlamentare
sulle attività dell’Agenzia FRONTEX, anche alla luce delle critiche
emerse anche nel corso di audizioni di organizzazioni non governative
sulle procedure di respingimento collettivo utilizzate nei confronti dei
migranti.
Quanto al principio di diritto internazionale del non
respingimento, gli Stati membri continuano ad interpretarlo in modo
divergente, alcuni addirittura negandone l’applicabilità nelle acque
internazionali. Nella maggior parte dei casi le operazioni marittime
coordinate da FRONTEX diventano operazioni di ricerca e salvataggio.
FRONTEX tuttavia non diventa un’agenzia SAR (ricerca e soccorso); il suo
compito è contribuire all’attuazione delle norme sui controlli di
frontiera. In pratica, il fatto che tali operazioni diventino di ricerca
e salvataggio le sottrae all’ambito di applicazione del coordinamento
di FRONTEX e del diritto comunitario.
L’obbligo di prestare soccorso in mare e le competenze delle autorità
SAR sono disciplinati dal diritto internazionale, che però gli Stati
membri interpretano e applicano in modo eterogeneo. Secondo le
posizioni del Parlamento Europeo, riconfermate ancora di recente, si
intende garantire il rispetto di tale obbligo internazionale e la
applicazione del regime introdotto dalla Convenzione SAR ( Search and
Rescue), e si stabilisce il principio della cooperazione con le autorità
SAR già prima dell’inizio dell’operazione, specificando inoltre quale
autorità SAR debba essere contattata qualora l’autorità responsabile non
risponda, in modo che tutte le unità partecipanti contattino la stessa
autorità SAR.
Un’altra divergenza tra gli Stati membri riguarda l’identificazione della situazione che impone l’assistenza: per alcuni Stati la nave deve essere sul punto di affondare, per altri è sufficiente che la nave non sia idonea alla navigazione; per alcuni Stati membri è necessario che le persone a bordo chiedano assistenza, per altri no. La proposta di linee guida comuni si basava sul regime della Convenzione SAR ( Ricerca e soccorso in mare) e prevede che, allorché sorgano dubbi sulla sicurezza di una nave o sull’incolumità di una persona a bordo, debbano essere contattate le autorità SAR cui vanno trasmesse tutte le informazioni necessarie per stabilire se sussista una situazione SAR. Determinare il luogo in cui dovrebbero essere condotte le persone soccorse è cosa difficile, costituendo il punto debole del regime SAR. Le modifiche apportate alla Convenzione nel 2004 fanno obbligo a tutti gli Stati di cooperare per risolvere le situazioni SAR; con la loro cooperazione, lo Stato competente per la regione SAR deve decidere dove trasferire le persone soccorse. Si osserva come “uno Stato membro (Malta, n.d.a.) non ha accettato tali modifiche. L’aspetto controverso era il luogo in cui le persone soccorse devono essere sbarcate nel caso in cui lo Stato competente per la regione SAR venga meno ai suoi obblighi al riguardo”. Alcuni Stati membri, proprio come Malta, sono riluttanti a partecipare alle operazioni perché temono di essere poi costretti a trasferire le persone soccorse nei loro territori. Le posizioni che vanno emergendo a livello europeo sembrano orientate a risolvere tali situazioni specificando che, qualora lo sbarco in un paese terzo non sia possibile, esso ha luogo nello Stato membro che ospita l’operazione. Ed è questa la ragione dei periodici irrigidimenti di Malta e dell’Italia, e del ruolo che questi paesi assegnano alla collaborazione con uno Stato terzo come la Libia che, se non garantisce il diritto di asilo egli altri diritti fondamentali dei migranti, dispone ormai di mezzi assai efficaci per bloccare, detenere e respingere i migranti irregolari che intercetta sul suo territorio o in acque internazionali, come si vedrà meglio più avanti.
Come chiarisce la relazione allegata alla proposta del
Consiglio, le nuove linee guida si applicano alla sorveglianza delle
frontiere marittime nel contesto delle operazioni di Frontex, il cui
mandato comprende l’agevolazione della cooperazione operativa tra gli
Stati membri nell’attuazione del codice frontiere Schengen. Si tratta
dunque di operazioni rientranti nell’ambito di applicazione del codice
frontiere, coordinate da un’agenzia comunitaria (FRONTEX) e finanziate
dal bilancio comunitario sulle quali anche la posizione di un singolo
esponente del Consiglio dell’Unione Europea o della stessa Commissione
non può assumere carattere vincolante.
Le decisioni assunte a livello comunitario sui controlli alle frontiere
marittime meridionali non hanno dunque effetti diretti e vincolanti
sulle scelte che adottano i singoli paesi quando concludono accordi
bilaterali di respingimento e di riammissione. Tuttavia, quando la
sorveglianza dei mezzi forniti dall’agenzia Frontex, in supporto alle
attività degli stati membri impegnati nell’attuazione degli accordi
bilaterali riguarda le frontiere marittime è evidente che devono essere
rispettati il diritto internazionale del mare e il diritto
internazionale marittimo. Analogamente, tali operazioni non possono
essere condotte in violazione dei diritti umani, compresi i diritti dei
rifugiati, come già disposto dal codice. La proposta della Commissione e
la successiva decisione del Parlamento Europeo del marzo di quest’anno
osservano scrupolosamente questo quadro normativo internazionale: il
loro fine è aumentare il rispetto di questi principi nello svolgimento
delle operazioni, introducendo nel contempo un grado di uniformità
nell’applicazione del quadro normativo da parte di tutte le unità
operative che partecipano alle operazioni.
Le linee guida adottate dal Parlamento europeo sulla
ricerca, il soccorso e lo sbarco dei migranti in mare non fanno però
espresso richiamo al divieto di espulsioni (o di respingimenti)
collettivi, norma che è richiamata in diverse convenzioni internazionali
e in importanti atti comunitari. Si deve, infatti, ricordare che i
respingimenti collettivi sono vietati dal Protocollo n. 4 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’art.19 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea, e gli Stati parte dell’Unione
Europea che concorrano a realizzare questi illeciti internazionali
possono essere chiamati a risponderne davanti alla Corte di Giustizia di
Lussemburgo (competente per le violazioni del diritto comunitario) e
davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo
(competente per la applicazione della C.E.D.U.). Negli anni passati
l’Italia è stata all’avanguardia in Europa nella pratica delle
espulsioni collettive verso i cd. Paesi di transito, come la Libia e
l’Egitto, Paesi dai quali numerosi migranti, tra i quali molti
potenziali richiedenti asilo, sono stati respinti verso quegli stessi
Stati, come l’Eritrea, il Sudan, la Nigeria, il Ghana, il Mali, ma anche
il Bangladesh, il Pakistan o lo Sri Lanka, dai quali erano fuggiti.
Solo a partire dal marzo del 2006 il Ministro dell’interno Pisanu,
ancora in carica per poche settimane prima dello scioglimento delle
camere, aveva sospeso le deportazioni dai centri di detenzione italiani,
Crotone in particolare, verso la Libia e l’Egitto, mentre era aperta
una indagine del Parlamento Europeo per accertare le responsabilità
nelle espulsioni collettive effettuate da Lampedusa verso la Libia a
partire dall’ottobre del 2004. Come spesso avviene in questo campo, una
volta interrotta la prassi abusiva viene meno l’interesse degli
organismi comunitari ad accertare le violazioni perpetrate dagli stati
membri, anche se si tratta di violazioni che hanno compromesso il
destino ed in qualche caso la stessa vita di migliaia di persone.
3. Destano oggi gravi
preoccupazioni le più recenti posizioni che sembrerebbero emergere in
seno alla Commissione Europea sul tema degli accordi di respingimento
stipulati dall’Italia con la Libia.. Secondo quanto riferito da un
parlamentare europeo maltese, come riportato dal Times of Malta del 27
luglio 2010, il nuovo Direttore Generale del settore affari interni ed
immigrazione della Commissione, l’italiano Stefano Manservisi, avrebbe
detto che la Libia, anche se non ha sottoscritto la Convenzione di
Ginevra sui rifugiati è tuttavia firmataria della Convenzione dell ’OUA (
Organizzazione dell’Unione Africana), adottata ad Addis Abeba nel 1969,
che tratta anche il tema dei diritti dei rifugiati, prevedendo in
questo campo una specifica collaborazione con l’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i rifugiati. E dunque tale adesione implicherebbe
anche la accettazione sostanziale della Convenzione di Ginevra (per il
testo della Convenzione si veda: www.africanunion.org.
Ma che la limitata attività dell’ACNUR in Libia sia stata brutalmente
interrotta da una decisione di Gheddafi nel giugno del 2010 è
inconfutabile, e la stessa possibilità che l’ACNUR possa ritornare a
seguire alcuni casi, si riferisce solo a quei pochi casi che gli agenti
dell’ACNUR avevano potuto prendere in carico direttamente visitando
detenuti nei pochi centri di detenzione libici per i quali era stato
consentito l’accesso, restando ancora oggi precluso in Libia qualsiasi
accesso dei richiedenti asilo alle procedure per ottenere uno status di
protezione internazionale.
Secondo quanto riferito dal giornale maltese, lo stesso rappresentante della Commissione avrebbe affermato che la collaborazione tra Italia e Libia avrebbe dato risultati molto positivi e, soprattutto, "qu’il n’y a rien contrairs aux lois de l’UE dans l’accord bilaterale entre Italie et Libye”. Sembrerebbe addirittura la Commissione Europea auspichi un accordo a livello comunitario con la Libia, ritenendo comunque gli accordi tra Italia e Libia “perfettamente conformi alle normative comunitarie”. E infatti, secondo la stessa fonte, “la commission continue à préferer que soit fait un accord à niveau communautaire, meme il faut dire que l’accord entre Italie et Libye s’ést avérée être efficace parce que la migration illégale a été arrêtée. La commission avait été consulté pour cet accord et elle a constaté qu’il est perfectement conforme aux lois européennes". Il quotidiano maltese riporta quanto affermato dal nuovo direttore generale del settore affari interni ed immigrazione della Commissione nel corso di una sessione speciale della Commissione LIBE ( sulle libertà civili) del Parlamento Europeo sollecitata all’inizio di luglio di quest’anno dai socialisti, dai Verdi e dalla Sinistra Europea di fronte al rischio di refoulement (respingimento) di 400 eritrei dalla Libia nel loro paese di origine. In quell’occasione Manservisi aveva affermato che gli eritrei detenuti in Libia non sarebbero stati rimpatriati, e difatti qualche giorno dopo Ghedafi li rimetteva in libertà abbandonandoli a Sebha, nel deserto, seppure con l’autorizzazione a restare in Libia per tre mesi, alla mercé delle organizzazioni criminali che ne gestiscono i movimenti. Una libertà pagata a caro prezzo, con l’accettazione dello status di migranti economici e con la identificazione da parte delle autorità eritree, circostanze che anche a Bruxelles dovrebbero essere note, e che confermano come la Libia non applichi alcuna convenzione che riconosca il diritto di asilo, negando costantemente, come in occasione degli incontri tra Gheddafi e Berlusconi, e a margine della chiusura dell’ufficio dell’ACNUR per “attività illegali”, che in Libia esistano richiedenti asilo.
A tale proposito non si può neppure ignorare la posizione, duramente attaccata dal governo italiano, del Commissario ai diritti umani Hammarberg sui respingimenti e sul trattamento che i migranti respinti in Libia subiscono da parte delle forze di polizia. Come non si possono ignorare i rapporti di HRW e di Amnesty sulle gravissime violazioni dei diritti umani Libia, né gli esposti dell’ ASGI circa le violazioni del diritto comunitario occorse nell’estate del 2009 con la pratica dei respingimenti collettivi in alto mare. Nessuno può ritenere risolto il problema dei respingimenti collettivi in acque internazionali solo perché oggi non sono più i mezzi della Guardia di finanza ad effettuarli, dopo che l’Italia ha delegato i respingimenti alle motovedette italo-libiche, in quanto una specifica clausola degli accordi italo-libici del 2007 ( cd. Protocolli Amato) prevedono una catena di comando unificata a partecipazione italiana e libica, seppure a guida libica, e dunque tutte le operazioni di blocco in mare e di deportazione compiute dalle motovedette regalate a Gheddafi dall’Italia impegnano direttamente la responsabilità dell’Italia davanti all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ed alle istituzioni comunitarie. Ne possono assumere rilievo le assicurazioni, fornite in diverse occasioni alla Commissione Europea dall’Italia, che la Libia non avrebbe proceduto al rimpatrio forzato di nessun eritreo, perché il rischio di deportazione incombe comunque sui migranti eritrei che in Libia non riescono ad ottenere il riconoscimento di rifugiato, e che da migranti economici sono schedati dai funzionari dell’ambasciata del loro paese, che, come è noto ovunque, meno forse a Bruxelles, ha mezzi molto efficaci per convincere i fuoriusciti a fare rientro “volontario” nel loro paese, magari per non esporre a ritorsioni i parenti più cari.
E’ comunque evidente la ragione per la quale nelle dichiarazioni del parlamentare maltese e nell’articolo del Times of Malta assume tanto rilievo la posizione di un rappresentante amministrativo, sia pure di vertice, della Commissione Europea, organismo che di norma esprime le proprie posizioni attraverso comunicazioni e proposte rivolte alle altre istituzioni comunitarie. I maltesi devono giustificare ad ogni costo i respingimenti collettivi praticati proprio nel mese di luglio di quest’anno, in collaborazione con le autorità libiche, con le quali anche Malta ha concluso accordi di respingimento sul modello dei Protocolli operativi tra Italia e Libia del 2007, poi richiamati e inclusi nel Trattato di amicizia italo-libico del 2008. Come nel caso italiano, le scelte dei governi di respingimento e deportazione dei migranti, compresi i richiedenti asilo, hanno bisogno dell’avallo degli organismi comunitari per essere giustificate di fronte all’opinione pubblica, e soprattutto di fronte alle critiche delle organizzazioni non governative e delle agenzie umanitarie come Amnesty ed Human Rights Watch, in un momento nel quale sulle stesse questioni si attendono decisioni cruciali da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo.
Rimane in ogni caso da verificare fino a che punto la Commissione Europea, a differenza del Parlamento Europeo, valuti positivamente gli accordi tra Italia e Libia, e probabilmente anche quelli tra Malta e la stessa Libia, limitandosi a costatare come il numero degli sbarchi sulle coste insulari italiane nel corso dell’ultimo anno sia drasticamente diminuito. Una posizione che contraddice le precedenti posizioni della stessa Commissione sull’esigenza di rispettare i diritti umani dei migranti e, trattandosi di “flussi misti”, di garantire il diritto di accesso al territorio europeo dei potenziali richiedenti asilo. E le contraddizioni si susseguono, come le violazioni dei diritti fondamentali dei migranti. Lo scorso 17 giugno il Parlamento Europeo, con una risoluzione, raccomandava agli stati membri di non effettuare espulsioni verso la Libia, dove negli ultimi mesi erano state eseguite diverse condanne a morte, anche contro cittadini di paesi terzi. Appena qualche settimana dopo il Parlamento italiano rifinanziava tra le missioni militari di pace anche la missione degli agenti della guardia di finanza in Libia per compiti di manutenzione delle sei motovedette donate dall’Italia a Gheddafi per bloccare i cd. “clandestini” in gran parte donne, minori e potenziali richiedenti asilo. Compiti di manutenzione che non sembrano esaurirsi alle riparazioni dei motori in porto, se sarà dimostrato, come risulta da diverse testimonianze, che i militari italiani sono imbarcati sui mezzi italo-libici anche durante le missioni operative. E del resto, come prevedono gli accordi stipulati nel dicembre del 2007, quelle missioni si svolgono nell’ambito di u sistema di controllo congiunto caratterizzato da una catena di comando italo-libica. Per questa ragione ogni intervento di blocco di migranti in acque internazionali da parte delle motovedette italo-libiche è direttamente ascrivibile alla responsabilità internazionale dello stato italiano, anche davanti alle Corti internazionali. E intanto, dispersi i migranti in Libia o costretti alla clandestinità, su tutto questo continua ad incombere ancora un pesante clima di omertà, la censura preventiva delle notizie e ( purtroppo) una ampia copertura politica delle responsabilità gravissime che derivano da respingimenti collettivi vietati da tutte le Convenzioni internazionali.