La corsa verso la governabilità

11 / 1 / 2018

A poco meno di due mesi dalle elezioni politiche, con panettone e spumante ancora sullo stomaco, è partito il rush finale della campagna elettorale. In realtà il sipario si è aperto da tempo, ben prima dello scioglimento formale delle Camere. Ma l’atmosfera che si respira in questo “teatro” non è intrisa di quella magia e quel silenzio profondo di lynchiana memoria. C’è un frastuono che sa di inconcludente bagarre, c’è un illusionismo che puzza di fregatura già dalle prime mosse.

Reddito “di dignità”, abolizione delle tasse universitarie, abrogazione della riforma Fornero: un interno patrimonio di istanze sociali e battaglie politiche che negli anni scorsi hanno tenuto vivo il livello di mobilitazione nel nostro Paese è entrato, come se nulla fosse, nel tritacarne elettoralista. Ma d’altronde i patrimoni, soprattutto quelli immateriali, sono fatti per essere dilapidati e la rendita non è mai stato strumento nelle mani dei movimenti. Non c’è da stupirsi, dunque, e sa tanto di sterile opinionismo quel tam tam sviluppatosi sui social network nel quale ci si rivendica la paternità di queste tematiche, in nome dell’ardore di battaglie che furono o che, in maniera più effimera, sono.

La campagna elettorale è per antonomasia il regno delle illusioni, della fiction politica portata ai livelli più estremi, è l’antitesi di quello spazio pubblico nel quale spesso si sono sedimentati e nutriti i conflitti sociali. Non per questo va ignorata, non solo per capire quale sarà il colore del prossimo nemico, ma per scorgere e cavalcare le contraddizioni di quel Paese Legale che mai come adesso vede realizzarsi la crisi compiuta della rappresentanza politica e istituzionale[1], soprattutto sul piano statual-nazionale

Siamo all’atto finale, quello in cui si calano gli assi dalla manica e i “giochi di palazzo” diventano più trepidi. Ad entrare in scena in questi primi giorni dell’anno tutti i big della competizione: Paolo Gentiloni, ospitato dal sempre più fido Fabio Fazio a Che tempo che fa; Silvio Berlusconi, che sceglie Circo Massimo di Radio Capital per la prima uscita pubblica di rilievo del 2018; Luigi Di Maio, che ha virato sul “salotto buono” di Bruno Vespa. Il primo è ormai da mesi la voce più accreditata del Pd a parlare della competizione elettorale, insignito non tanto dal titolo di premier uscente quanto dalla debolezza interna di un partito neppure in grado di esprimere una chiara leadership. Il secondo è stato virtualmente incoronato alla testa di un redivivo centro-destra dopo il vertice di Arcore, con buona pace – apparente – di Giorgia Meloni e, soprattutto, di Matteo Salvini. Il nodo della candidatura a primo Ministro non è ancora stato risolto dalla coalizione e le voci di una possibile convergenza su Bobo Maroni, il leghista tanto “amato” da Berlusconi quanto “odiato” da Salvini, sembrano al momento essere smentite. Discorso diverso per Di Maio, da mesi scelto come candidato premier di un partito che ormai, anche sul piano pubblico, ha abdicato rispetto alle velleità di quella democrazia liquida che ne era stato elemento costitutivo nella fase del boom politico.

Il trait d’union tra le tre interviste è rappresentato dal tema della governabilità, divenuto sempre più caro a tutte le forze politiche che si apprestano a sostenere un confronto elettorale all’interno di un quadro che, per la sua instabilità, ricorda da vicino le elezioni spagnole del dicembre 2015. L’ex premier, conscio della posizione di netto svantaggio dalla quale parte il suo partito, ha chiaramente espresso la «speranza che il Paese non venga lasciato in mano a forze che non sappiano governare», rivendicando nel suo operato l’aver «contribuito a un rasserenamento del clima politico». L’unica capacità da parte del Pd di captare consenso consiste nella forza della continuità, nella permanenza sistemica di un modello di governamentalità funzionale alle esigenze delle vecchie e nuove élite economico-finanziarie. Tra le righe del discorso di Gentiloni emerge anche un altro aspetto, complementare al primo anche se più criptico. Il premier uscente, nella logica del «dico no per dire si», si candida ad essere il fulcro di un eventuale governo del Presidente che, con ogni probabilità, si riproporrà nella scena politica italiana in caso di instabilità post-elettorale.

Dal canto suo Berlusconi, rispolverando la grandeur che lo ha connotato negli anni più ruggenti, afferma di puntare dritto a un insperato 45% che consentirebbe un’ampia stabilità governativa, attacca «l’inesperienza e l’inaffidabilità del Movimento 5 Stelle» e, soprattutto, chiarisce la posizione del centrodestra rispetto all’Unione Europea e all’Euro, garantendo che i suoi alleati «già da tempo hanno cambiato posizione, anche perché l’uscita dall’Euro sarebbe insostenibile per la nostra economia». Sempre in tema di governabilità Berlusconi fa cadere qualsiasi tabù su un’ipotesi di Gentiloni-bis, evidentemente sorretto da larghe intese, anteponendo anche lui la continuità di governo rispetto alle rivalità politiche.

La compatibilità con lo spazio europeo, in particolare con il conio unico, sacrifica sull’altare della realpolitik uno dei temi che più ha fatto da corollario alla rinazionalizzazione della retorica politica, alla quale abbiamo assistito anche in Italia in questi anni e di cui il Movimento 5 Stelle è stato tra i protagonisti: quello della sovranità monetaria. Se il voltagabbana “europeista” del Carroccio rappresenta di certo un colpo di scena, per certi versi lo è di più quello pentastellato. Proprio Di Maio, meno di un anno fa, in un’intervista rilasciata a Il Fatto Quotidiano, sanciva la necessità di un ritorno alla Lira attraverso un referendum consultivo. Una necessità già ampiamente gestita pubblicamente attraverso la campagna #fuoridalleuro, attiva dal 2015 con tanto di istruzioni sul blog di Beppe Grillo. Adesso anche il primo volto dei 5 stelle sembra ritrattare la precedente posizione in merito all’uscita dall’euro.

L’atteggiamento doroteo avuto in queste prime uscite pubbliche apre la strada anche un altro leit motiv che ci accompagnerà fino alle elezioni: la caccia al cosiddetto voto moderato. Si tratta di un aspetto estremamente tattico, che probabilmente fa poco i conti con la mutazione antropologica avvenuta nel nostro Paese negli ultimi anni che, almeno sul piano della pubblica opinione, sembra sulla via di una decisa radicalizzazione – ovviamente non in termini espansivi e di movimento. È vero anche che la componente moderata – per usare una semplificazione concettuale - è storicamente l’ago della bilancia delle varie competizioni elettorali: lo è stata nelle vittorie democristiane avvenute nelle fasi più avanzate dello scontro di classe novecentesco, nell’affermazione berlusconiana post-tangentopoli, nello storico 40% raggiunto dal Pd alle europee del 2014 che lo ha accreditato tra quelle forze europee dell’estremismo di centro.

In questo aspetto le elezioni di marzo, e la campagna elettorale che le precede, rappresentano un buon metro per comprendere come si stia orientando quella «pancia del Paese» sulla quale la retorica populista bipartisan ha costruito la propria strategia politica in questi ultimi anni. Una retorica che si è modellata soprattutto sugli aspetti riguardanti le migrazioni, divenuta prassi istituzionale forgiata sulla logica del diritto differenziale, e che ha visto l’elemento etnico-razziale diventare sempre più una discriminante da un lato per l’accesso ai diritti basilari dall’altro per le nuove forme di competizione orizzontare tra i meno abbienti. Sovvertire questa retorica e questa prassi è compito dei movimenti sociali, oltre qualsiasi scadenza elettorale, e della loro capacità di assumere il protagonismo migrante come nuovo paradigma meta-organizzativo, come accaduto nel percorso che ha condotto lo scorso 16 dicembre a Roma[2].



[1] Su questo tema consiglio la lettura dei seguenti articoli, pubblicati alcune settimane fa su Globalproject.info: D. Del Bello, «Tutto il mondo è un palcoscenico». Sulla miseria della sinistra istituzionale, 13 dicembre 2017; P. Cognini, Crisi dello stato di diritto e nevrosi elettorali, 29 novembre 2017.

[2] Leggi: Redazione, Appunti a margine di un corteo mai visto prima, Globalproject.info, 17 dicembre 2017