La fase post-Covid segna il tramonto dei robber baron del digitale?

16 / 3 / 2023

È il 31 dicembre 2019 quando le autorità cinesi comunicano l’esistenza di un focolaio di casi di polmonite ad eziologia sconosciuta, nella città di Wuhan. La malattia si diffonderà rapidamente e senza sosta, attraversando tutti i continenti. Il 9 marzo 2020 il governo italiano adotta una misura inedita nella nostra storia: un DPCM che possiamo sintetizzare con le parole: “io resto a casa”.

Inizia così un periodo di lockdown duro, che si concluderà il 18 maggio dello stesso anno. Ritornando con la mente a quel periodo, è facile ritrovare intatte quelle sensazioni di angoscia, solitudine e impotenza. È tutta storia nota, ma è bene rimarcare che non tutti avevano la fortuna di “restare a casa” perché non avevano un tetto sopra la testa; così come tante persone non potevano dirsi tranquille tra le mura domestiche, perché ad esempio il proprio partner convivente era violento.

In ogni caso, le ripercussioni di questa situazione pandemica sulla psiche, l’educazione, il lavoro e, più in generale, sulle nostre esistenze, sono state tragiche. I big del digitale hanno saputo sfruttare questa situazione peculiare.

Durante quella primavera, la famiglia nucleare rappresentava l’unica sfera di affetti non colpita dall’obbligo di mantenere una lontananza fisica per evitare i contagi. In quel vortice di cambiamenti continui e inaspettati, i social media hanno giocato un ruolo cruciale, rappresentando lo strumento che ci ha permesso di sopperire alle mancanze nei rapporti interpersonali e in tutti gli aspetti della nostra vita che non potevamo più affrontare allo stesso modo, come la scuola, il lavoro, l’università.

Tutto in quel momento era in crisi, tranne i grandi imperi digitali. Aziende come Meta, Amazon, Netflix e Apple continuavano a guadagnare punti in borsa e accumulare patrimoni fantascientifici. Mentre noi trascorrevamo il tempo - spesso per necessità - davanti agli schermi, i robber baron del capitalismo digitale si arricchivano grazie ai nostri dati.

Quando però l’emergenza è rientrata, inaspettatamente, questi imperi non hanno saputo riconventirsi per adattarsi alle nuove esigenze delle persone. 

Da un punto di vista tecnico, in realtà, questa crisi trae origine dal fatto che il Federal Open Market Committee (Fomc, l'organismo della Federal Reserve responsabile della politica monetaria degli Stati Uniti), ha alzato i tassi d’interesse ad una rapidità mai vista dagli anni Ottanta.

Durante la pandemia, le azioni del settore tecnologico sono diventate le preferite e, di conseguenza, sopravvalutate. Una volta rientrata l’emergenza, la situazione è stravolta: possiamo notare un rimpasto della classifica nel mercato azionario. Prendendo come riferimento S&P 500 (il più importante indice azionario USA), Tesla, ad esempio, dal quinto posto di inizio 2022 scala all’undicesimo. Analogamente, Meta dal sesto posto scivola al diciannovesimo. Exxon Mobil (una delle principali compagnie petrolifere statunitensi), al contrario, a inizio 2022 non raggiungeva la top 25 ma poi chiude vittoriosamente l’anno all’ottavo posto. Ciò che sta accadendo con la crisi della Silicon Valley Bank, specializzata proprio nel credito del settore hi-tech, è in parte conseguenza diretta di tutto questo.

Nel settore tecnologico e delle comunicazioni, si credeva che il flusso di profitto fosse impermeabile all’andamento dell’economia. Questo arricchimento negli anni era legato a doppio filo con l’accumulo di informazioni: i big tech sanno tutto di noi. Attraverso la profilazione, la nostra esperienza si fa sempre più personalizzata. Risulta sempre più evidente e sotto gli occhi di tutti che non siamo (più) liberi di cercare ciò che vogliamo, perché l’algoritmo ha la pretesa di sapere meglio di noi ciò che è meglio per noi. Quando ad esempio decidiamo di fare una ricerca su Amazon, la piattaforma non produce una lista di prodotti che si avvicinino il più possibile a ciò che stiamo cercando, bensì ci propone una lista formata di prodotti messi sul mercato da coloro che hanno pagato di più per essere al top di quella lista correlata a quella determinata ricerca.

Facebook è l’esempio lampante del fatto che gli utenti non sono il prodotto del capitalismo della sorveglianza, bensì la fonte del profitto: le informazioni che noi offriamo alla piattaforma sono diventate, nel tempo, la materia prima da cui si estrae il surplus comportamentale. All’inizio Facebook era buono con noi, ci permetteva di rimanere in contatto con le persone a noi care e di ritrovare quelle che avevamo perso di vista. Il social ha assunto popolarità rapidamente e ci siamo trovati in trappola senza saperlo: dal momento in cui quasi tutte le persone a cui tenevamo erano su Facebook, era ormai impossibile lasciare la piattaforma, perché avremmo dovuto convincere gli altri a disertare con noi: è un eufemismo definire ardua l’impresa.

Verso la fine del 2021, Facebook cambia volto e diventa Meta. Non più uno strumento a nostra disposizione, ma un universo a sé stante, dove gli utenti dovranno stabilire la propria esistenza, perché non c’è alternativa, perché non ci si può opporre ad un futuro già scritto.

Ma il futuro non è scritto e niente è per sempre, forse neanche il metaverso. Questa crisi del mercato tecnologico può diventare uno spunto per ripensare alla tecnologia come uno strumento (arnese, congegno, dispositivo e sim., necessario per compiere una determinata operazione o svolgere una attività) utile alle nostre vite e non più ad un universo senza regole che permea le nostre esistenze individuali.