Brevi note sull'onda viola

La grande assente

Un milione anti-B che non sa nominare la crisi e la propria povertà

6 / 12 / 2009

Ieri, assieme ad altri precari e studenti dell'Onda, sono stato al No B-Day, per volantinare sullo sciopero generale dell'11 dicembre e la manifestazione nazionale che partirà dalla Sapienza. Sapevo e sapevamo di trovare lì molti studenti, molti studenti che magari l'Onda, lo scorso anno, l'hanno vissuta in prima persona, seppur in modo inappariscente. In effetti così è stato e il volantinaggio ha funzionato bene.

Ma «cosa è successo» nella manifestazione?

Tanta gente, e questo è un dato incontestabile. Roma così invasa non capitava dall'Onda, quella studentesca, dello scorso autunno. Tanti giovani, ma non solo giovani. Tanto popolo della sinistra, naufraghi, pecore smarrite. Tanti partiti o almeno bandiere. Tanto desiderio di giustizia, tante manette di cartone, tante gabbie con dentro Berlusconi, tanta apologia della magistratura, il libretto rosso di Borsellino brandito come fosse quello di Mao.

Un corteo oltre la rappresentanza politica? In parte. Il viola, l'attivazione molecolare, i social network, l'autoconvocazione: questa è la cifra di una militanza post-rappresentativa, che ricorda i girotondi, ma anche il popolo No War del 2003-2004. Un popolo senza rappresentanza, perché insoddisfatto deluso stanco della sinistra, ma pur sempre un popolo. «Un che di uno», per dirla con Hobbes, che vuole più Stato, vuole uno Stato pulito («fuori la mafia dallo Stato»), che vuole trasparenza, merito, legalità, manette e ogni tanto anche polizia. E lo Stato serve a difesa della propria debolezza sociale, prima che politica. Di Pietro e De Magistris sono una potente macchina di codificazione: legalità e giustizia contro fragilità sociale, declassamento (soprattutto del ceto medio cognitario) e precarietà. Per esser più chiari si invoca lo Stato invece di far male ai padroni. Problema marginale, probabile. Non troppo marginale, però, quando a pensarla così sono centinaia di migliaia di persone, tanti giovani e tanti precari, soprattutto del sud. Non stupisce allora che le lettere di risposta a Celli su Repubblica chiedono più merito contro i Baroni, più legalità contro i concorsi truccati, più giustizia contro la corruzione universitaria. Insomma, in una parola, lo Stato del Merito.

E arriviamo così all'evidenza più ruvida della manifestazione di ieri. Salvo generosi contributi (penso allo spezzone di Action con i migranti e contro il pacchetto sicurezza), la piazza di ieri era per la maggior parte estranea alla tematica della crisi. L'anti-berlusconismo, se per un verso semplifica le pretese e raduna in piazza un milione di persone, per l'altro occulta la crisi, i rapporti di produzione, la povertà, la disoccupazione. Un milione in piazza, senza questione sociale, questo è il dato, su questo bisogna riflettere.

Ma perché tanti precari, tanti nuovi poveri, tanto ceto medio declassato, trova solo in occasioni del genere la possibilità di esprimersi?

In primo luogo perché queste occasioni di mobilitazione, evenemenziali, concentrate e modaiole, rispondono in pieno a quella dimensione di esonero spoliticizzante che da anni informa la società italiana. La generazione degli anni '80 vive in occasioni come queste i suoi momenti migliori, la sua più alta capacità autoriflessiva: disincanto, sciarpa viola e aperitivo in centro, magari con i bambini, un mix prodigioso.

In secondo luogo la piazza di ieri conferma l'anomalia italiana. Una situazione politica segnata da corruzione e blocchi di ogni genere favorisce una sensibilità sociale giustizialista e forcaiola. Solo Berlusconi rende possibili Travaglio e Saviano come miti indiscutibili. Aggiungo, assenza di progetto politico alternativo e assenza di opposizione facilitano la semplificazione anti-berlusconiana, sgomberando il campo dai problemi sociali che restano, con o senza Berlusconi.

In terzo luogo, e forse è l'elemento più importante, i precari e i giovani che hanno animato la piazza del No B-Day non sanno come fare altrimenti. Più chiaramente, non trovano l'esempio che li stimola a rompere gli argini, a mettere in gioco la propria vita, a rompere la legalità per conquistare nuovi diritti, a coalizzarsi per vivere meglio, meno sfruttati, con più soldi e meno soli. Per alcuni versi l'Onda ha catalizzato questo desiderio di rottura, eppure il “blocco politico italiano” ha fatto la differenza. In Francia le lotte vincono, perché non hanno strutture autonome organizzate alle spalle e perché la vittoria funziona come potente spruzzata d'acqua sul fuoco. In Italia le lotte non vincono, meglio, differiscono i provvedimenti (vedi la questione del DDL Gelmini), ma non formalizzano l'incasso: non c'è mai un ministro che dice in Tv “su questo provvedimento è necessario fare un passo indietro, non ci sono le condizioni sociali per andare avanti”. E questa blocco democratico è determinato dal fatto che nelle lotte italiane c'è progetto alternativo, critica della rappresentanza, organizzazione autonoma. Malefico paradosso italiano: tanto più sono forti, programmaticamente e politicamente, i movimenti, quanto più non portano a casa il risultato. In questo senso il giustizialismo di Grillo o di Di Pietro codificano, raccolgono forze, cioè, laddove la speranza di cambiamento viene fermata.

In un aperitivo, in centro, dopo la manifestazione, i commenti erano: “che bella manifestazione”, “anche i bimbi urlavano Berlusconi merda, hai visto?”, “tanto non cambia niente”.
Protagonismo senza progetto, politica senza militanza, piazza senza speranza. Lontani dai moralismi, ma con attenzione materialista, bisogna discutere di queste cose e capire quali sono le linee di fuga che rompono il popolo e cominciano a fare moltitudine.