Quello in atto in Valle di Susa è un autentico «scontro
di civiltà»: la manifestazione di due modi contrapposti e paradigmatici
di concepire e di vivere i rapporti sociali, le relazioni con il
territorio, l'attività economica, la cultura, il diritto, la politica.
Per questo esso suscita tanta violenza da parte dello stato
I NUMERI DELLA TAV
Quello in atto in Valle di Susa è un autentico «scontro di civiltà»: la manifestazione di due modi contrapposti e paradigmatici di concepire e di vivere i rapporti sociali, le relazioni con il territorio, l'attività economica, la cultura, il diritto, la politica. Per questo esso suscita tanta violenza da parte dello stato - inaudita, per un contesto che ufficialmente non è in guerra - e tanta determinazione - inattesa, per chi non ne comprende la dinamica - da parte di un'intera comunità.
I NUMERI DELLA TAV
Quello in atto in Valle di Susa è un autentico «scontro di civiltà»: la manifestazione di due modi contrapposti e paradigmatici di concepire e di vivere i rapporti sociali, le relazioni con il territorio, l'attività economica, la cultura, il diritto, la politica. Per questo esso suscita tanta violenza da parte dello stato - inaudita, per un contesto che ufficialmente non è in guerra - e tanta determinazione - inattesa, per chi non ne comprende la dinamica - da parte di un'intera comunità.
Quale che sia l'esito, a breve e sul lungo
periodo, di questo confronto impari, è bene che tutte le persone di
buona volontà si rendano conto della posta in gioco: può essere di
grande aiuto per gli abitanti della Valle di Susa; ma soprattutto di
grande aiuto per le battaglie di tutti noi.
Da una parte c'è una comunità, che non è certo il retaggio di un passato remoto, che si è andata consolidando nel corso di 23 anni di contrapposizione a un progetto distruttivo e insensato, dopo aver subito e sperimentato per i precedenti 10 anni gli effetti devastanti di un'altra Grande Opera: l'A32 Torino-Bardonecchia.
Gli ingredienti di questo nuovo modo di fare comunità sono molti. Innanzitutto la trasparenza, cioè l'informazione: puntuale, tempestiva, diffusa e soprattutto non menzognera, sulle caratteristiche del progetto. Un'informazione che non ha mai nascosto né distorto le tesi contrarie, ma anzi le ha divulgate (a differenza dei sostenitori del Tav), supportata da robuste analisi tecniche ed economiche: gli esperti firmatari di un appello al governo Monti perché receda dalle decisioni sul Tav Torino-Lione sono più di 360; significativo il fatto che un Governo di cosiddetti «tecnici» il parere dei tecnici veri non lo voglia neppure ascoltare. Poi c'è stata un'opera capillare di divulgazione con il passaparola - forse il più potente ed efficace degli strumenti di informazione - ma anche con scritti, col web (i siti del movimento sono molti e sempre aggiornati) e col sostegno di alcune radio; ma senza mai avere accesso - in 23 anni! - alla stampa e alle tv nazionali, se non per esserne denigrati.
Secondo, il confronto: il movimento non ha mai esitato a misurarsi con le tesi avverse: nei dibattiti pubblici - quando è stato possibile - nelle istituzioni; nelle campagne elettorali; nelle amministrazioni; nel finto «Osservatorio» messo in piedi dal precedente governo e diretto dall'architetto Virano, che non ha mai avuto il mandato di mettere in discussione l'opera ma solo quella di imporne comunque la realizzazione. Strana concezione della mediazione! La stessa del ministro Cancellieri: «Discutiamo; ma il progetto va comunque avanti». E di che si discute, allora? Grottesca poi - ma è solo l'ultimo episodio della serie - è la fuga congiunta da incontro con una delegazione del parlamento europeo del sindaco di Torino e dei presidenti di provincia e regione Piemonte il 10 febbraio scorso. Ma ne risentiremo parlare. Il terzo elemento è il conflitto: non avrebbe mai raggiunto una simile dimensione e determinazione se l'informazione non avesse avuto tanta profondità e diffusione. Ma sono le dure prove a cui è stata sottoposta la popolazione ad aver cementato tra tutti i membri della cittadinanza attiva della valle rapporti di fiducia reciproca così stretti e solidi.
Il quarto elemento è l'organizzazione,
strumento fondamentale della partecipazione popolare: i presìdi,
numerosi, sempre attivi e frequentati, nonostante le molteplici
distruzioni di origine sia poliziesca che malavitosa; le frequenti
manifestazioni; i blocchi stradali; le centinaia di dibattiti (non solo
sul Tav; anzi, sempre di più su problemi di attualità politica e
culturale nazionale e globale) che vedono sale affollate in paesi e
cittadine di poche centinaia o poche migliaia di abitanti; la
presentazione e il successo di molte liste civiche; la rete fittissima
di contatti personali nella valle; il sostegno che il movimento ha
saputo raccogliere e promuovere su tutto il territorio nazionale: Fiom,
centri sociali, rete dei Comuni per i beni comuni, movimento degli
studenti, associazioni civiche e ambientaliste, mondo della cultura,
forze politiche (ma solo quelle extraparlamentari); ecc. La scorsa
estate si è svolto a Bussoleno il primo convegno internazionale dei
movimenti che si oppongono alle Grandi Opere, con la partecipazione di
una decina di organizzazioni europee impegnate in battaglie analoghe: un
momento di elaborazione sul ruolo di questi progetti nel funzionamento
del capitalismo odierno e un contributo sostanziale alla comprensione
del presente. Infine quel processo ha restituito peso e ruolo a un
sentimento sociale (o «morale», come avrebbe detto Adam Smith) che è il
cemento di ogni prospettiva di cambiamento: l'amore; per il proprio
territorio, per i propri vicini, per il paese tutto; per i propri
compagni di lotta e la propria storia; per le trasformazioni che questa
lotta ha indotto in tutti e in ciascuno; persino per i propri avversari,
anche i più violenti. Non a caso Marco Bruno, il manifestante NoTav
messo alla berlina da stampa e televisioni nazionali per il dileggio di
cui ha fatto oggetto un carabiniere in assetto di guerra (ma, come è
ovvio, lo ha fatto per farlo riflettere sul ruolo odioso che lo Stato
italiano gli ha assegnato) ha concluso il suo monologo con questa frase,
registrata ma censurata: «comunque vi vogliamo bene lo stesso».
E i risultati? Rispetto all'obiettivo
di bloccare quel progetto assurdo, zero. O, meglio, il ritardo di
vent'anni (per ora) del suo avvio. Ma quella lotta ha prodotto e diffuso
tra tutti gli abitanti della valle saperi importanti; un processo di
acculturazione (basta sentire con quanta proprietà e capacità di
affrontare questioni complesse si esprimono; e poi metterla a confronto
con i vaniloqui dei politici e degli esperti che frequentano i
talkshow); una riflessione collettiva sulle ragioni del proprio agire.
Ha creato uno spazio pubblico di socialità e di confronto in ogni comune
della valle. Ha permesso di rivitalizzare una parte importante delle
proprie tradizioni. Ha unito giovani, adulti, anziani e bambini, donne -
soprattutto - e uomini in attività condivise che non hanno uguale nelle
società di oggi. Ha allargato gli orizzonti di tutti sul paese, sul
mondo, sulla politica, sull'economia (altro che «nimby»! Il «Grande
Cortile» della Valle di Susa ha spalancato porte e finestre sul mondo e
sul futuro di tutti). Ha creato e consolidato una rete di collegamenti
formidabile. Ha ridato senso alla politica, all'autogoverno, alla
partecipazione: per lo meno a livello locale. Ha aiutato tutti a
sentirsi più autonomi, più sicuri di sé, più cittadini di una società da
rifondare. Infine, e non avrebbe potuto accadere che in un contesto
come questo, ha messo in moto un movimento di gestione etica e
ambientale delle imprese, riunite in un'associazione, «Etinomia», che
conta in valle già 140 adesioni, e che rappresenta la dimostrazione
pratica di come la riconquista di spazi pubblici autogestiti sia la
condizione di un'autentica conversione ecologica.
E dall'altra parte? Schierati contro
il movimento NoTav ci sono la cultura, l'economia, la metafisica e la
violenza delle Grandi Opere: la forma di organizzazione più matura
raggiunta (finora) del capitalismo finanziario: la «fabbrica» che non
c'è più, divisa in strati e dispersa in miriadi di frantumi. Le
caratteristiche di questo modello sociale, che ritroviamo tutte nel
progetto Torino-Lione, sono state esemplarmente enucleate da Ivan
Cicconi ne Il Libro nero dell'alta velocità (Koiné; 2011) e qui mi
limito a richiamarle per sommi capi. La «Grande Opera» è innanzitutto un
intervento completamente slegato dal territorio su cui insiste,
indifferente alle sue sorti prima, durante e soprattutto dopo la fine
dei lavori, quando, compiuti o incompiuti che siano, li abbandona
lasciando dietro di sé il disastro. Non è importante che sia utile o
redditizia. Col Tav Milano-Torino dovevano correre, su una linea
dedicata ed esclusiva, 120 coppie di treni al giorno; ne passano 9:
quasi sempre vuoti. L'importante è che la «Grande Opera» si faccia e che
alla fine lo stato paghi. E' una grande consumatrice di risorse a
perdere: suolo, materiali, energia, denaro (ma non di lavoro, comunque
temporaneo e per lo più precario, che a lavori conclusi viene
abbandonato a se stesso insieme al territorio). Per questo ha bisogno di
grandi società di gestione e di grandi finanziamenti, cioè del
coinvolgimento diretto di banche e alta finanza (il ministro Corrado
Passera ne sa qualcosa); non per assumersi l'onere della spesa, ma solo
per fare da schermo temporaneo a un finanziamento che alla fine ricadrà
sul bilancio pubblico E' il modello del project financing , l'apogeo
dell'economia finanziaria che ci ha portato alla crisi, inaugurato
trent'anni fa dall'Eurotunnel sotto la Manica.
Quanto al Tav, le tratte
Torino-Milano-Roma-Salerno dovevano essere finanziate almeno per metà
dai privati; il loro costo, lievitato nel corso del tempo da 6 a 51
miliardi di euro (ma molti costi sono ancora sommersi e, una volta
completate le tratte in progetto, supereranno i 100 miliardi) è stato
interamente messo a carico dello Stato (cioè del debito pubblico). Ma
per il Tav in Valle di Susa non si parla più di project financing : la
fretta è tale che si dà inizio ai lavori senza sapere dove prendere i
soldi. Si aspettano quelli dell'UE, che forse non verranno mai,
spacciando questa attesa per un impegno «imposto dall'Europa». Ma perché
quei costi sono quattro volte quelli di tratte equivalenti in Francia o
in Spagna? E' il «Grande Segreto» delle nostre «Grandi Opere»: il
subappalto. Le Ferrovie dello stato hanno affidato - in house , cioè
senza gara - la realizzazione dell'intero progetto a Tav Spa, sua
filiazione diretta. TavSpa, sempre senza gara, ha affidato il progetto a
tre General contractor (le tre maggiori società italiane all'epoca:
1991), tra cui Fiat. Fiat ha fatto il progetto della Torino-Milano e ne
ha affidato la realizzazione a un consorzio della sua - allora -
controllata Impregilo (quella dei rifiuti in Campania e del disastro
ambientale in Mugello). Impregilo ha diviso i lavori in lotti e li ha
affidati, senza gara, a una serie di consorzi di cui lei stessa è
capofila; e questi hanno affidato a loro volta le forniture e le
attività operative a una miriade di ditte minori, attraverso cui hanno
fatto il loro ingresso nella «Grande Opera» sia il lavoro nero che la
'ndrangheta: la stessa, ben insediata a Bardonecchia, che da tempo
aspetta l'inizio dei lavori sulla Torino-Lione e ha già ampiamente
contrattato (vedi l'inchiesta giudiziaria Minotauro) il voto di scambio
con i principali partiti della Regione. I lavori che all'ultima ditta
della catena vengono pagati 10 Fiat li fattura a TavSpA a 100. La
differenza è l'intermediazione dei diversi anelli della catena, tra cui
non mancano partiti e amministrazioni locali. Ecco che cos'è la
«crescita» affidata alle «Grandi Opere». Ed ecco perché per imporre una
soluzione del genere occorre occupare militarmente il territorio. E
perché ci vuole un Governo «tecnico». Così Monti è il benvenuto.
Tratto da: