La guerra continua

2 / 5 / 2011

Cominciò con una buffonata, la pugnalata alla schiena e qualche cadavere da portare al tavolo delle trattative di pace, la II guerra mondiale nel giugno 1940 –anche allora fu l’ora delle decisioni irrevocabile e la folla a piazza Venezia era irrefrenabile, come oggi applaudono alle barzellette berlusconiane– e fini in tragicommedia, con la dichiarazione di Badoglio l’8 settembre 1943 che la guerra continuava, ma non si capiva contro chi, se Tedeschi o Alleati, e fu massacro. Pare un destino e poco cambia se, al posto dei due carnefici della Libia (Mussolini il mandante, Badoglio l’inetto esecutore), oggi c’è il Presidente Napolitano con la sua singolare dottrina del “naturale sviluppo” di un’ambigua risoluzione Onu in bombardamenti –umanitari, s’intende. Al di là delle brutte analogie e per evitare disquisizioni antropologiche sull’affidabilità bellica italiana, ricordiamo che i protagonisti di allora fingevano di agire liberamente ma in realtà erano condizionati (e lo sapevano) da alleati ingombranti e più che condizionanti: Hitler per Mussolini, Eisenhower per Badoglio, le clausole del Patto d’Acciaio nel primo caso, dell’Armistizio nel secondo. E oggi, chi tiene per le palle (schifo!) Berlusconi, tonitruante e palesemente riottoso alla crociata anti-gheddafiana? Chi lo costringe a inginocchiarsi davanti a Sarkozy e lasciar campo agli esecrati bombardieri larussiani, sperando solo che falliscano il bersaglio? Per di più con il rischio di rappresaglie della Lega e complicazioni su leggi ad personam e altri affarucci combinati sulla quarta sponda.

E’ evidente che a stringergli le palle sono proprio gli americani, che vogliono segnare il limite dell’inaffidabilità italiana costringendone il governo a compromettersi in senso interventista, anche soltanto simbolico. Delle conseguenze destabilizzanti in campo interno neppure gliene frega un gran che. Probabile che siano in possesso di riprese satellitari ad alta definizione di scene open air di Villa Certosa, più attendibili dei video da cellulare delle graziose ospiti. Tanto per fornire materiale a scandali e processi. Vero o no che sia, comunque Berlusconi lo teme. Il poveretto, nel contempo, sta anche sotto ricatto da parte di Putin e forse dello stesso Gheddafi.

Sbaglia però Scalfari a vedere nelle giravolte dell’estorcibile Berlusconi e nelle sparate di una Lega mirante ad alzare il prezzo del sostegno parlamentare ma pronta a sfilarsi, se necessario, la causa principale dell’agitata paralisi italiana (tutto si muove freneticamente e tutto resta fermo). La vera causa è l’impiccio dell’opposizione, costretta ad appoggiare la guerra di Napolitano, Fini e Casini anche a costo di tener su Berlusconi che avrebbe tanto voluto sganciarsi... Con il risultato che il Pdl può tentare qualche difficile acrobazia per non rompere con la Lega (vedremo la prossima settimana se ci riesce e a che prezzo), ma l’opposizione si spacca irrimediabilmente remando contro non tanto il pacifismo strumentale dell’IdV quanto contro i sentimenti diffusi. Nulla infatti è peggio di una guerra inconcludente, che non consola con rapidi allori ma si porta dietro la magagna originaria di una rivolta popolare subito (e forse già da prima) inquinata da un complotto coloniale. E questo prima o poi diverrà senso comune allargando resistenze a tutt’oggi frenate da una certa indifferenza.

Oltre allo scontro con Di Pietro, il bellicismo imbarazzato di Bersani rischia di spaccare il Pd, non perché vi sia un vigoroso pacifismo anticoloniale di base, ma –all’opposto– perché vi sono correnti che vorrebbero un impegno guerresco ancor più forte, in netta risonanza con forze esterne (Casini e Rutelli) e nell’ambito di una maggioranza post-berlusconiana assai spostata al centro e di taglio patriottico-costituzionale. La sortita di Veltroni è apertamente ricattatoria, anche a costo di indebolire il partito. Quando nell’esilarante intervista al Foglio di Giuliano Ferrara (sic!) afferma che «siamo una società frammentata e liquida e il partito deve capirlo e adeguarsi di conseguenza», non teorizza soltanto la subalternità del Pd allo sfascio (constatazione oggettiva), ma si propone di accentuarla per conquistare il potere al suo interno. A continuare così, Berlusconi non ha certo fretta di nominare un delfino.

A conferma della centralità del problema migrante nella composizione moltitudinaria, la mozione della Lega (che la rende inaccettabile a forze più progressiste e invece congrua al Pdl) pone una strettissima connessione tra rifiuto della guerra guerreggiata e blocco dell’immigrazione e sua ripartizione nel resto dell’Europa: essendo la seconda palesemente improbabile, anche per la dura condanna comunitaria alla legislazione sui clandestini, non resta che la strada del blocco navale –altrettanto irrealistica e impraticabile. Pure la Lega si trova oggettivamente in un vicolo cieco, da cui cerca di uscire contrattando altre concessioni e invocando un controllo discriminatorio sui migranti. Insomma, una combinazione di regalìe federalistiche e lavoro nero. Un terreno, al solito, da cui la mancanza di prospettive della sinistra è incapace di stanarla. Ovvero: la logica della Turco-Napolitano combinata con la fedeltà napolitaniana e dalemiana alla Nato(do you remember Kosovo?) impedisce al Pd tanto di allearsi con la Lega per far cadere Berlusconi quanto di attaccare la Lega sulla politica migratoria. Di qui il disperato tentativo di spiegare che Bossi abbaia ma non morde. E se si mettesse a mordere, che succederebbe? Che bisognerebbe presidiare l’amica Arcore? Questo e non altro è la paralisi, che blocca tutte le componenti di centro e di “sinistra” al pari di quanto Lega e “responsabili” fanno con il Pdl.

L’impasse comincia a preoccupare perfino lo schieramento anti-berlusconiano dove si levano voci e proposte per uscirne. Qualche idea sul precariato diversa dalle utopie reazionarie di Ichino. Qualche proposta che va in direzione del reddito di cittadinanza. Addirittura la presa d’atto di quello che sta diventando, barcone dopo barcone, Cie dopo Cie, un nodo centrale della composizione moltitudinaria in Italia. Perfino Nadia Urbinati, su Repubblica del 1 maggio, pur senza staccarsi da un approccio in parte datato (l’ospitalità kantiana e le considerazioni di H. Arendt sull’emigrazione politica), mette il dito sulla questione, limitatamente ai richiedenti asilo, definendo la loro identità “paranomica”. Traduciamo: parallela alla legge, mentre “antinomica” costituirebbe una rivendicazione aperta di illegalità. Vediamo contenuto e limiti. I migranti hanno cominciato a parlare una lingua politica, rifiutando il rimpatrio forzoso (Grecia 2008, Rosarno, Australia). Si dà un’auto-proclamazione di soggettività politica. Continua Urbinati: «quale cittadinanza è possibile fuori dello spazio statale?». L’ordine giuridico, anche quello europeo sovranazionale non lo contempla «Eppure questi migranti agiscono come se fossero cittadini e così facendo avanzano una richiesta di diritto politico come esseri umani (reclamano una cittadinanza cosmopolita). E’ questa l’importante novità che sta emergendo dai recenti movimenti di migranti senza-Stato», che vogliono avere una rappresentanza al di là e indipendentemente dall’appartenenza a un corpo politico.

Come si vede, l’articolo non affronta il rapporto con il mercato del lavoro, si limita alla cittadinanza tradizionale, seppure estesa dal fondo nazionale a quello europeo. Ovviamente i migranti presi in considerazione sono i regolari o regolarizzabili distinti dai “clandestini”, gli asilanti, illusoriamente distinti da quelli per ragioni economiche –come se i profughi dal Corno d’Africa e dal Sahel in Libia diventassero “politici” appena salpati da Misurata. Tuttavia la separazione tematica fra diritto di cittadinanza e appartenenza statale è di grande rilievo, riproduce in qualche modo l’idea di una sfera pubblica non-statale, di un regno dell’accoglienza ospitale che ha a che vedere con il comune. Il discorso andrebbe integrato cancellando la discriminazione fra regolare e asilante da un lato, clandestino dall’altro, analizzando cioè i ruoli effettivi che svolgono sul mercato del lavoro e il potenziale di resistenza che vi sviluppano a fianco dei settori precari nazionali, di cui sono paradigma e caso-limite. Solo così si passa dall’apprezzabile denuncia dell’ingiustizia a una strategia di ricomposizione e di lotta, che importa nel vecchio continente non solo braccia nude ma la potenza dei tumulti mediterranei.

Leggi tutti gli articoli di Augusto Illuminati