La lezione valsusina

25 / 1 / 2010

Sono cinque le ore di pullman che separano Vicenza dalla Val di Susa. Tra andare e tornare, dieci ore di viaggio; in valle il cielo è grigio, a terra c’è la neve - poca - e l’aria è pungente, la temperatura sotto lo zero. Eppure, per strada ci sono migliaia di persone - 40 mila secondo gli organizzatori - tutte armate di un grande lenzuolo che i valsusini usano come bandiera: sopra ci hanno stampato il loro simbolo, l’anziano montanaro che blocca il treno ad alta velocità, che portano con orgoglio sulle spalle o in cima a un’asta.

D’altra parte, in valle stanno presidiando i terreni in cui sono previsti i carotaggi da dieci giorni con dieci gradi sotto zero; e lo stanno facendo in centinaia e migliaia, notte e giorno: non c’è da stupirsi, allora, se così tante e tanti sono tornati in piazza; ci sono bambini in passeggino e anziani col bastone, famiglie e decine di comitati; e, al loro fianco, tante amministrazioni comunali con i loro gonfaloni, i sindaci e gli assessori. E’ la Val di Susa che torna a manifestare, ancora una volta, per dimostrare il radicamento e la tenacia di quasi vent’anni di mobilitazione.

Una prova di forza che, di riflesso, non può che far sentire piccoli tutti gli altri. I promotori bipartisan – come loro stessi amano definirsi – della Tav, costretti a schierare centinaia di uomini delle forze dell’ordine per mettere in funzione per poche ore una trivella; ma anche tutti coloro che in Val di Susa ci sono andati per mettersi al fianco dei presidi e dei comitati che difendono questo territorio. E, di conseguenza, fa sentire piccoli anche noi vicentini, abituati per molti mesi a essere sulla cresta dell’onda e oggi costretti a osservare nostro malgrado un cantiere che procede e che macina sotto di sé la storia di Vicenza, i suoi tesori naturali e la dignità di una città che ha visto ben presto il suo sindaco – a differenza di molti sindaci valsusini – alzare bandiera bianca.

A poco serve elencare le tante differenze tra la realtà montana della Val Susa e quella cittadina di Vicenza; tra l’opporsi a un’opera civile che colpisce un territorio per decine di chilometri e l’opporsi a un’installazione militare concentrata e presidiata come fosse un avamposto di guerra. Quel che ci dice la Val Susa, in fin dei conti, è che il cantiere del Dal Molin ha macinato il territorio, ma anche la sua trama sociale, facendo scricchiolare la tenacia di tante donne e tanti uomini che, pure, di fronte all’imposizione statunitense avevano sentito il dovere e la necessità di mettersi in gioco.

D’altra parte, la Val Susa regala - e ci regala - anche una speranza: quella che una comunità fatta di donne e uomini possa mettere i bastoni tra le ruote a chi vorrebbe governare la nostra terra con arroganza e presunzione, imponendo gli interessi di pochi a scapito dei diritti di tutti. E’ la democrazia che, nonostante il freddo e il cielo grigio, torna a colorare i nostri orizzonti per dirci che opporsi è possibile, ma opporsi è una responsabilità di ognuno di noi. E allora, seppur piccoli, val la pena continuare a prendere freddo nei tendoni di Ponte Marchese. Perché questo è l’unico modo per provare a crescere, a diventare grandi.