La libertà di movimento. Prima di tutto!

27 / 3 / 2017

"Abbiamo trattenuto i manifestanti in base al loro profilo ideologico". Così il questore di Roma Guido Marino sulle manovre di ordine pubblico relativo alle mobilitazioni previste a Roma il 25 marzo. Partiamo dalla fine, dall'epilogo di una giornata destinata a cambiare per sempre la gestione politica e militare della piazza.

La relazione tra "profilo ideologico", che in realtà è il contenuto politico e sociale di una precisa parte del corteo, e le misure preventive nei confronti degli attivisti scavalca gli stessi dispositivi contenuti nel cosiddetto decreto sulla sicurezza urbana, che porta il nome del ministro dell'interno Minniti ed è stato approvato dal consiglio dei ministri lo scorso 10 febbraio, teso ad aumentare gli strumenti investigativi e repressivi per limitare l'agibilità pubblica e politica del dissenso in piazza. Tratteggiare le caratteristiche individuali dei potenziali manifestanti sposta i termini dell'azione punitiva dall'indizio al sospetto, riprendendo di fatto quei principi ideologici che hanno guidato gli apparati polizieschi delle dittature sudamericane nella cosiddetta "guerra sporca" nei confronti degli oppositori politici.

Ma forse non è al passato che dobbiamo rivolgere lo sguardo per comprendere a pieno il valore paradigmatico del 25 marzo. È lo stesso presente che pone la necessità di interrogarsi sulle modalità attraverso cui si attua la piena transizione formale verso un ordine post-democratico all'interno dello spazio dove storicamente si è affermato lo Stato di diritto.

Di certo il tema del dissenso è solo uno degli aspetti che caratterizzano questa transizione, ma è forse quello che rende più tangibile il grado di restrizione dei diritti e delle libertà individuali e collettive. Già da anni assistiamo in Europa ad un'accelerazione di questi processi. Si è visto molto chiaramente durante il ciclo di lotte contro l'austerity con le manifestazioni a Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale Europea. Più visibile ancora nella Francia post-Bataclan, dove lo stato di emergenza è stato addirittura costituzionalizzato entrando a far parte di un nuovo codice del "non-diritto".

Ma veniamo ai fatti, anzi all'antefatto del 25 marzo. Il giorno prima vengono fermati dalle forze di polizia 7 attivisti dei centri sociali del nord-est, giunti a Roma alcune ore prima del corteo. A tutti viene notificato, dopo un fermo in questura, il foglio di via per un anno dalla capitale senza alcun accenno a possibili reati commessi. La notizia fa immediatamente il giro delle agenzie di stampa e degli organi di informazione mainstream, sommandosi a tutte le veline della questura che hanno inondato per giorni i media nazionali.

L'utilizzo politico dei mezzi di informazione nei giorni che hanno preceduto il corteo ha avuto una finalità ambivalente. Da un lato, complice l'uso strumentale dell'attentato di Londra, ha avuto luogo un vero e proprio "terrorismo securitario" che aveva come obiettivo quello di descrivere la piazza romana come qualcosa di estremamente pericoloso, scoraggiando di fatto la partecipazione all'evento. Dall'altro, l'attenzione ossessiva per l'ordine pubblico aveva come scopo quello di oscurare i temi e le proposte politiche portate in piazza dai movimenti.

La narrazione dei discorsi politici sulla piazza ha infatti dato spazio alle due opzioni che sole – almeno per le élites - sono concepibili come strategie future per l’Europa: la trasformazione delle sue istituzioni per aprirle maggiormente alla società europea in termini di diritti e tutele, oppure la rottura della gabbia dell’Unione Europea con un ritorno allo Stato-nazione. La posizione che vuole mettere in discussione l’assetto europeo per destrutturarlo nella sua essenza e superarne le attuali istituzioni non ha trovato alcun tipo di rappresentazione mediatica.

Le nuove tecniche preventive di sabato 25 marzo consentono al potere di operare quel salto di qualità che non solo tende a violare il cosiddetto diritto a manifestare, ma ne trasforma a suo vantaggio lo stesso status giuridico, normando e normalizzando l'emergenza.

Le scene che ci siamo trovati di fronte a tutti i caselli autostradali per gli accessi a Roma hanno reso immediatamente visibile quella guerra a bassa intensità che l'establishment mette in campo per riprodurre costantemente le forme di comando del capitale sulla vita.

Il controllo capillare di bus e macchine aveva l'obiettivo, neppure troppo celato, di ostacolare o impedire l'arrivo dei manifestanti in porta San Paolo. E così è stato. Oltre 150 attivisti sono stati letteralmente sequestrati dalle forze dell'ordine e trattenuti per ben otto ore presso la questura di Tor Cervara, luogo abitualmente destinato all'identificazione dei migranti. Ancora una volta nessuna imputazione di reato, ma solamente il sequestro di capi d'abbigliamento. Il luogo non è casuale, perché le pratiche di identificazione degli attivisti sono le stesse che ogni giorno vivono migliaia di migranti a cui l'Europa fortezza nega qualsiasi possibilità di muoversi e di autodeterminarsi come esseri umani. Certo, la condizione non è la stessa riservata a chi proviene dal mare, che rischia la vita e ha alle spalle una biografia legata a doppio filo con la guerra e i governi autoritari voluti dall’Occidente. Ma, in generale, la gestione securitaria degli spazi urbani in cui si vieta la libertà di movimento e di manifestazione rimanda alla sua gemella che si occupa dei confini esterni, costantemente pattugliati per espellere, dopo l’identificazione, i migranti.

Il resto è cronaca ormai nota: 21 fogli di via, da 1 a 3 anni, concessi in due giorni; oltre 2.000 persone identificate: la polizia che ha costantemente provocato il corteo dei "movimenti e territori del NO sociale" sbarrandogli anche la via d'accesso a Bocca della verità.

È importante però ribaltare quel senso di ineluttabile sconfitta per i movimenti che può celarsi dopo giornate del genere. Nonostante l'asimmetria di forze, alla quale siamo peraltro da sempre abituati, la partita è stata combattuta fino alla fine ed in parte vinta. Quel discorso eretico di un'Europa delle autonomie confederate e dei territori ribelli è riuscito a vivere e ad emergere nella giornata di ieri. Lo ha fatto con una partecipazione non scontata delle tante realtà sociali che stanno animando questo percorso a partire dall'esperienza referendaria. Lo ha fatto conquistando centimetro dopo centimetro una piazza che la polizia aveva deciso di rendere inagibile al corteo. Lo ha fatto lasciando intatto un percorso che nei prossimi appuntamenti può rafforzarsi di esperienze e di significato politico.

È chiaro che nella giornata di ieri l'azione repressiva assume un notevole peso nella valutazione politica. Per questo è necessario, a partire da oggi, aprire una riflessione pubblica su come i movimenti sociali possano rompere questo paradigma che ieri è emerso in tutta la sua portata, sia in termini di pratiche di piazza che sul piano dell'iniziativa politica quotidiana. Un dibattito che non può essere banalizzato sulla sola agibilità o sul "diritto a manifestare": di fronte al diritto che viene piegato per impedire la libertà di movimento, le lotte devono contrapporre dei rapporti di forza al di là del mero richiamo discorsivo.

Parlare di "libertà di movimento" diventa immediatamente terreno di conquista, anche per il significato ambivalente contenuto nell'espressione. La libertà di muoversi all'interno dello spazio europeo rappresenta la base di una cittadinanza comune europea condivisa da tutti e tutte, migranti ed autoctoni. D'altro canto, la libertà di azione per i movimenti rappresenta, inoltre, l'unica reale possibilità di emanciparsi dal baratro in cui governance continentale e i populismi reazionari stanno trascinando milioni di esseri umani.

I cambiamenti in atto per intensificare la violenza del capitale sulla vita e sui territori stanno avendo un profilo epocale, dunque della stessa intensità devono essere la riflessione e la prassi politica. Per fare questo non è possibile adottare scorciatoie, che prevedono coalizioni o alleanze con i ceti residuali della vecchia sinistra o che derubricano il conflitto a mera evocazione. È necessario allo stesso tempo che i processi radicali di cambiamento vivano e si nutrano all'interno del corpo sociale, mettendo a valore quella disponibilità al conflitto già presente in tanti strati della società.

La primavera di lotte per costruire, sulle macerie di quella attuale, una nuova Europa è appena cominciata. Avrà diversi passaggi importanti, dal 22 aprile a Pontida alle giornate del G7 di Taormina. Nel processo e nello stesso momento di queste importanti tappe sarà necessario solidificare il discorso politico ed intensificare la capacità di contrastare, riaffermando la libertà di movimento nel suo contenuto più ampio e poliedrico, il tentativo di consolidare e generalizzare il “diritto differenziale”, ovvero quell'insieme di dispositivi giuridici, politici e polizieschi attraverso i quali si tenta di imporre ad intere composizioni sociali, dai migranti agli attivisti passando per il precariato sociale e le povertà dilaganti, lo “status” dei “senza diritti e senza parola”.

Credits immagine di copertina: Melania Pavan (Sherwood Foto); Veronica Badolin (Awakening)