La libertà operaista

5 / 4 / 2010

“Guardi, ha sbagliato piano”, rispondeva all’inizio degli anni ’90 Romano Alquati a una studentessa di sinistra che voleva fare una tesi sugli operai. “Qua siamo a scienze politiche. Se vuole fare una tesi sugli operai dovrebbe andare al secondo piano. Archeologia”. Proprio come la “rude razza pagana”, Romano non aveva dei e rifiutava i miti. Il culto del passato, poi, è una cosa davvero miserabile. Quando era arrivato a Torino, nel 1960, dopo essere cresciuto a Cremona e aver vissuto a Milano nella comune di via Sirtori (vera e propria fucina culturale e intellettuale degli anni cinquanta e sessanta, luogo di incontro di fenomenologia e marxismo, crocevia internazionale di rivoluzionari e filosofi), Romano – così come quella generazione politicamente e umanamente eccezionale che darà vita all’operaismo – non era alla ricerca di un soggetto disincarnato e metafisico, eroico custode dell’interesse generale. “C’è stato e c’è ancora fra l’altro l’operaismo populista ed assistenziale (di derivazione cristiana), l’operaismo sindacale, e una combinazione dei due; e questi si sono caratterizzati nel considerare gli operai come una ‘quota debole’ della popolazione, e quindi bisognosa d’aiuto; questi operaisti amavano gli operai, l’operaità stessa. Gli operaisti ‘politici’ al contrario s’interessavano ai proletari operai perché, contro ogni universalismo, li vedevano come una parte forte, una forza”. Andò a Torino non per piangere sulle valigie di cartone, ma per cercare una potenza del conflitto. Lo scontro cessava di essere del basso contro l’altro, ma era tra operai e capitale. Forza contro forza. Con scandalo degli intellettuali e dei dirigenti dei partiti di sinistra l’operaio-massa non si sacrificava per la giustizia universale, non aveva coscienza e ideali: voleva più soldi e meno lavoro. La classe operaia si liberava solo estinguendosi, rifiutando il lavoro e l’identità dell’oppresso. Per questo fu uno straordinario ciclo di lotte. L’uomo moriva, per sempre, negli scioperi selvaggi di Mirafiori e tra i fumi di Porto Marghera.

In quegli anni della transizione italiana al taylorismo-fordismo, del resto, alla fabbrica e agli operai non si interessava nessuno. Il Pci aveva scelto di inseguire i “ceti medi”: mezzo secolo dopo, non li hanno ancora né raggiunti né trovati. Il sindacato, dopo la sconfitta della Fiom alla Fiat nel ’53, riteneva che la partita fosse chiusa: la classe operaia è definitivamente integrata, questo il mantra di una sorta di francofortisimo opportunista. E della fabbrica non si occupava nemmeno la sociologia del lavoro, che in Italia non esisteva proprio. Tanto che, quando cominciarono a fare conricerca, Romano e gli altri giovani militanti dei Quaderni rossi e poi di Classe operaia vennero spregiativamente definiti anarco-sociologi. Dai marxisti, che della scienza borghese non avevano bisogno. Dagli accademici, che della scienza borghese erano i rentier. I conricercatori, invece, studiavano la letteratura globale delle scienze sociali per capire e anticipare le lotte, perché solo situando il proprio punto di vista nella parzialità si può vedere il tutto. E lì trovarono il formarsi della composizione di classe (Sulla Fiat e altri scritti resta un testo fondamentale per comprenderla). Molto di più: si organizzarono al suo interno. Sì, perché la conricerca non è mai stata, per Romano, una ricerca “dal basso”: o era l’organizzazione dell’autonomia operaia, o non era. Nessun ideale populista di orizzontalismo: quel prefisso, con, significava mettere in discussione dei confini tra produzione di sapere e di soggettività politica, tra scienza e conflitto. Non era semplicemente conoscenza, ma organizzazione di una minaccia. La conricerca era scienza operaia. E al contempo, oggi non ci sarebbe sociologia del lavoro in Italia senza quell’esperienza. Superandola radicalmente, inventarono la sociologia.

Ma guai a definire Romano l’inventore della conricerca. “I militanti politici hanno sempre fatto conricerca. Noi andavamo davanti alla fabbrica e parlavamo con gli operai: non può esserci organizzazione altrimenti. Se trovo una strada piena di sassi e mi metto le scarpe, non vuol dire che le abbia inventate!”. La conricerca è, infatti, innanzitutto un metodo politico. Qui le tradizionali categorie di spontaneità e organizzazione perdevano la loro consistenza. “La spontaneità era organizzata”. Ma nulla si dava una volta per tutte. Gli operaisti avevano rotto con la tradizione marxista e leninista, per rileggere Marx e Lenin dentro la nuova composizione del lavoro vivo. E qui avevano colto la rottura dell’operaio-massa, che era anche uno scontro dentro la classe che produceva qualcosa che prima non c’era. L’operaismo, così come la conricerca, in fondo è proprio questo: il metodo della rottura costituente. Mai pensiero della marginalità, sempre cultura politica di una potenza trasformatrice. Organizzazione di uno sviluppo che procede per salti. E così, negli anni ’70 si trattava di saltare ancora una volta: le ricerche di Romano con il nuovo proletariato intellettuale (si pensi solo a Università di ceto medio) è il futuro anteriore della contemporanea composizione di classe.

Una chiarezza cristallina nella parola, formativa nel senso migliore del termine. Una scrittura difficile e tortuosa: “non è colpa mia se c’è sempre meno gente che sa leggere”, la sua risposta. Simili erano i quadri che dipingeva, mai coperti dal vetro perché continuamente modificati e pronti ad essere complessificati da nuovi disegni e pennellate. Non erano un’opera d’arte, ma un processo continuamente aperto alla sua trasformazione. Così, spaccandosi e rispaccandosi la testa su ogni riga di un testo di Romano (quelli degli anni ’90 sulla conricerca, la soggettività e le trasformazioni dell’università, del sapere e del lavoro, per quanto abbiano circolato ben poco o siano addirittura inediti, sono maledettamente preziosi) è possibile vedere qualcosa che prima non si era notato. E quando pensavi di aver capito, immediatamente eri spiazzato e costretto ad avanzare su un nuovo terreno. Ancora una volta bisogna saltare. Non sono libri, ma – diceva lui – delle macchine. Delle macchine da guerra. E poi: “io non ho mai detto di scrivere per tutti”.

Già. In un famoso passo del 18 brumaio Marx scrive che il principiante che ha imparato una lingua nuova la ritraduce continuamente nella sua lingua materna, ma non riesce a possederne lo spirito e ad esprimersi liberamente se non quando si muove in essa senza reminiscenze, e dimenticando in essa la propria lingua d’origine. Lasciamo che continuino a storcere il naso coloro che si preoccupano solo di misurare la scientificità delle ricerche con i numeri e le statistiche, e la politica con gli iscritti e l’interesse generale. Peggio per loro. Alquati ci ha insegnato che il problema è afferrare la verità, non descriverla. Perché l’anticipazione della tendenza non è un vezzo intellettuale, ma la bussola del militante e la condizione di possibilità dell’organizzazione. Grazie Romano, per sempre, per averci insegnato questa nuova lingua. E per averci insegnato, soprattutto, che possederla significa continuamente saltare per reinventarla. Per questo saremo sempre liberi, e non ci prenderanno mai.