La Mafia del Capitale

Su cricche, parentopoli e furbetti del quartierino

17 / 12 / 2014

Di cricche, parentopoli, furbetti del quartierino e storie simili l'Italia degli ultimi vent'anni ne è piena. Tangentopoli nel '92 è stata l'apertura del vaso di Pandora, dopo di che con cadenza costante si ripete il solito copione: indagine della magistratura, emersione di un contesto di corruzione dilagante, indignazione della politica, risentimento popolare. Poi col passare del tempo lo scandalo si affievolisce, i corrotti si riciclano come i soldi che maneggiavano, la classe dirigente si auto-assolve fino all'episodio successivo.

L'inchiesta Mafia-Capitale, che in questi giorni sta portando a galla un sistema di spartizione di appalti pubblici tra affaristi, è dunque l'ennesimo episodio di un fenomeno caratteristico del nostro paese e rispetto al quale si sono costituiti tanto dei gruppi di potere quanto (sterili) movimenti di protesta. Come già successo le altre volte, dopo lo scoppio dello scandalo si è attivato il solito coro di indignazione; la presa di distanza molto spesso avviene da parte degli stessi personaggi o istituti che fino a poco prima facevano affari con i corrotti. Il discorso dominante che da vent'anni a questa parte si sente ruota attorno a due assiomi: il primo è che si tratta di mele marce, il secondo che servono pene più severe contro chi commette questi reati. Nonostante il generale consenso attorno a queste posizioni, puntualmente il problema si ripropone. Perché? Interrogarsi sulla questione è d'obbligo, quantomeno per fugare i dubbi sulla validità della soluzione proposta.

Prendiamo il caso di Mafia-Capitale. Rispetto agli altri casi di corruzione e sperpero di denaro pubblico che si sono verificati nell'ultimo periodo, la sua peculiarità risiede probabilmente nei soggetti coinvolti e nell'oggetto degli affari. Partiamo dal primo. Fin da subito sono risultati coinvolti TUTTI, ossia qualsiasi categoria socialmente dominante: politici di destra e sinistra, imprenditori, mafiosi, estremisti neri, adesso sembra anche militari. A titolo esemplificativo basti dare un'occhiata alla famosa foto della cena della cooperativa 29 giugno in cui il ministro Poletti siede al tavolo con l'allora sindaco di Roma Gianni Alemanno, un esponente del clan dei Casamonica, l'assessore alla casa Daniele Ozzimo e il parlamentare PD Umberto Marroni. Il punto della faccenda non sta nell'esprimere un giudizio morale sul fatto che alcuni politici sedessero allo stesso tavolo dei corrotti, né sulla consapevolezza o meno dell'utilizzo di tangenti. Magari Poletti ne era del tutto ignaro. Il vero nodo della questione sta nel fatto che esisteva una relazione di interessi e profitti che legava tutte queste persone; una rete di vantaggi reciproci che metteva assieme cooperative, politici, mafiosi. Gli appalti vogliono dire soldi, i soldi sono potere, il potere si ottiene anche dai voti che certe figure riescono a garantire. Un sistema di mutuo interesse. 

Parlare quindi di “corruzione” diventa anche fuorviante. Il “corrotto” è colui che è marcio rispetto ad un gruppo o un sistema “sano”. Ma qua non c'è distinzione fra buoni e cattivi, delinquenti ed onesti, perché tutti sono coinvolti, è il sistema stesso a basarsi su quel tipo di funzionamento clientelare, ognuno aveva il proprio interesse nel rapportarsi con l'altro. Perché di questo stiamo parlando, della spartizione fra privati di soldi pubblici attraverso il meccanismo del clientelismo. Vecchi vizio italiano che da noi si è trasformato in modalità generale di profitto. Ci troviamo di fronte ad una Mafia del Capitale dove, rispetto al modello anglosassone del merito, vige il paradigma della cooptazione. Due modalità diverse ma ugualmente responsabili della spartizione fra pochi della ricchezza. In un periodo di crisi all'interno del quale la realizzazione di plus-valore diventa sempre più difficile, la spartizione di denaro pubblico fra privati diventa un campo di accumulazione fondamentale. Per far ciò è necessario creare una fitta rete di legami clientelari in modo tale da assicurarsi il potere decisionale sulla divisione della torta, garantendo in cambio il mantenimento dei privilegi acquisiti.

Il secondo elemento peculiare di Mafia-Capitale sta nell'oggetto degli affari, la spartizione di appalti pubblici che riguardano soprattutto le cosiddette emergenze. “Speriamo che il 2013 sia un anno pieno di monnezza, profughi, immigrati, sfollati, minori, piovoso così cresce l’erba da tagliare e magari con qualche bufera di neve: evviva la cooperazione sociale” scriveva per sms Salvatore Buzzi, sintetizzando in poche parole tutto un sistema economico. Attorno agli ultimi, agli emarginati, alle tragedie si era creato un vero e proprio business della povertà in cui l'esistenza dell'emergenza è conditio sine qua non della possibilità di fare profitti. L'allarmismo sociale, in altre parole, non è altro che una strategia politica finalizzata a creare l'ansia di un pericolo rispetto al quale occorre muoversi con poteri speciali e risorse adeguate. La possibilità di far circolare soldi senza troppi controlli sulle modalità di spesa. Non si tratta di un caso isolato, ma della strategia generale con cui in Italia si sono gestite tutte le emergenze degli ultimi anni. Basti pensare a quanto accaduto con i migranti arrivati dall'Africa nel nostro paese nel 2011: paventato pericolo di invasione, programmi speciali di controllo e accoglienza, soldi buttati in strutture ricettive inadeguate, mancanza di percorsi veri di integrazione, fallimento dei programmi messi in campo. Gli unici ad averci guadagnato sono i padroni delle ditte che hanno gestito i finanziamenti. 

La Mafia del Capitale quindi è dappertutto, non solo a Roma, ma ovunque. Il dramma sta nel fatto che questo sistema di accumulazione si è costituito sui corpi e sulle vite di tanti e tante. Si tratta dei cosiddetti “emarginati”, gli ultimi della nostra società: migranti, rom, terremotati, minori. Ultimi perché sono quelli a cui arrivano solo le briciole di questa spartizione fra potenti. O peggio, solo le rogne, quelle che vengono dall'essere considerati diversi e quindi pericolosi. Le politiche emergenziali e razziste sono l'altro lato della medaglia della malagestione, sono il dispositivo politico che rende possibile un business della povertà, servono a creare dei soggetti rispetto ai quali mettere in piedi un sistema di gestione e controllo opportunamente finanziato. Come scordare il periodo in cui Alemanno andava in giro per Roma a caccia di prostitute e questuanti? Gli stessi che poi gli servivano per giustificare gli appalti da assegnare a Buzzi e amichetti vari. Erano loro il problema della città o forse lo sono le decine di speculatori che si sono mangiati soldi e territorio? Come possono bastare leggi più severe quando sono gli stessi controllori ad aver messo in piedi un sistema di corruzione?

Di fronte a questa disgustosa mafia del capitale (nel senso di associazione finalizzata al profitto e basata sul meccanismo clientelare) serve una risposta politica, il resto sono solo contenti di facciata che servono a una classe dirigente e imprenditoriale per auto-assolversi dalle proprie responsabilità. Serve innanzitutto un azzeramento. In altre parole, non basta cambiare questa o quella poltrona ma dovete andarvene TUTTI perché tutti siete invischiati in questo pantano. E bisogna farla finita con la retorica dell'emergenzialità. Basta business della povertà, facciamola finita con tutti i meccanismi che sono alla base della creazione degli Ultimi della Terra. La mobilità degli esseri umani è un fatto, la disoccupazione un problema, la tutela dei territori una necessità: o si ripensa la politica a partire da questi temi oppure ci sarà sempre una mafia pronta a costruire i suoi capitali sullo sfruttamento dei drammi.