La natura di classe del capitalismo finanziario

19 / 5 / 2020

L’abito di gala del liberalismo è caduto e il più ripugnante dispotismo è esibito agli occhi di tutto il mondo in tutta la sua nudità. Una nave carica di matti spinta dal vento potrebbe forse veleggiar a lungo; ma essa andrebbe comunque verso il suo destino, proprio perché i pazzi non ci crederebbero. Questo destino è la rivoluzione che ci sovrasta. (Carl Marx dagli Annali franco-tedeschi)

L’attuale crisi sistemica del capitalismo globale, accelerata dal Covid-19, dimostra anche il fallimento della forma politica e di dominio sociale in cui essa si innerva, la “governance” neoliberista, la “nave dei folli”. Misure schizofreniche da parte dei governi, caos e confusione, concetti neo-malthusiani, di popolazioni sacrificabili in nome del profitto, si mescolano con altre posizioni neo-keynesiane che invocano aumenti di liquidità a sostegno dell’economia pubblica e privata, dimenticando l’ossatura di classe dell’attuale dominio finanziario e delle mutate condizioni storiche rispetto al Keynes della grande crisi del ’29.

Questo post-keynesismo si configura come un keynesismo rovesciato, una sorta di “Keynesismo del capitale”, non a sostegno del reddito sociale per incrementare la domanda di beni e servizi, ma funzionale ad aumentare la domanda e offerta di denaro alle banche ed istituti finanziari privati. Per riprodurre il meccanismo perverso del debito, quello stesso che si trascina dalla crisi del 2008, che soffoca e distrugge stati, popolazioni, condizioni di vita e riproduzione lungo l’intero arco della cooperazione sociale.

Non occorre essere esperti di economia, o perlomeno ciò che viene spacciata attualmente per “scienza economica”, per comprendere che le ricette prodotte per uscire da questa crisi sono le stesse che ne stanno all’origine. Davvero non sappiamo che farcene di questa scienza “delle passioni tristi”, di questi economisti, tecnici, novelli alchimisti che vogliono creare l’oro dal nulla, nascondendo che la produzione dell’intera ricchezza ha come fonte principale il “lavoro vivo” e la cooperazione sociale.

Per la critica dell’economia bio-politica

Ritorna in auge la “critica dell’economia politica”, quello straordinario contributo marxiano che è stato punto di riferimento per intere generazioni di militanti. Le “astrazioni” di Marx nulla hanno a che vedere con la “scienza triste”: sono piuttosto indicazioni metodologiche di analisi tendenziale, ricercano le categorie più essenziali del modo di produzione capitalista, distillate nella loro purezza e colte nel loro divenire. Ovviamente, è necessario riattualizzare categorie e concetti rispetto all’attuale processo di sussunzione reale della vita, in tutti i suoi aspetti sociali e naturali.

Per questo possiamo parlare oggi di “critica dell’economia bio-politica”, in cui produzione e riproduzione si compenetrano in una totalità dello sfruttamento, nella circolazione produttiva, lungo l’intero arco del tempo di vita.

Già in Marx questo processo veniva indicato e intuito, in particolare in quelle grandi aperture sul futuro che sono contenute nei Grundrisse, nell’analisi “sul denaro produttivo di interesse” e il meccanismo del credito-debito - “il denaro, questa astrazione vuota ed estraniata della proprietà, è stato fatto signore del mondo” – situata all’interno del “frammento sulle macchine”.

Tutte le astrazioni marxiane partono dalla concretezza della vita materiale, dalla sofferenza e dalla miseria di grandi masse di sfruttati, da quel primo modello di “inchiesta operaia” che fu il testo di Engels sulla situazione della classe operaia in Inghilterra. Esse sono il frutto della scienza di parte, del punto di vista operaio, l’unico che può svelare l’intima contraddizione del rapporto tra capitale e lavoro, un rapporto irriducibilmente antagonistico, che si riproduce in maniera sempre più intensa ed allargata in ogni fase “critica” dello sviluppo capitalistico.

Le crisi del capitale e le occasioni rivoluzionarie

Le crisi del capitale non sono altro che passaggi per riavviare, su basi nuove e che cambiano di fase in fase, l’accumulazione di capitale e in cui si ripete, in maniera differente, l’atto dell’accumulazione originaria: l’esproprio e la privatizzazione dei beni comuni, dei mezzi di produzione e riproduzione della vita, l’asservimento di tutti coloro che sono costretti, per sopravvivere, a vendere il proprio corpo-merce, le proprie capacità e intelligenze, le ricche potenzialità che ognuno possiede.

Sotto le astrazioni di Marx palpita la vita e l’indignazione contro l’essenza stessa del capitalismo. Il problema principale è quello di forgiare le armi teorico-pratiche per fare un volo nel tempo fino alla nostra epoca. “Non è il caso di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi“, come diceva Gilles Deleuze.

Togliendo il marxismo dalle sue incrostazioni economicistiche e deterministe, che pure sono presenti anche nelle opere di Marx, ma soprattutto nelle sue varianti riformiste e socialdemocratiche, l’essenza che scorre in esse è sempre rivolta alla produzione della soggettività rivoluzionaria.

Le crisi che si ripetono periodicamente non hanno nulla di oggettivo ed ineluttabile: l’uso capitalistico della crisi è rivolto alla riproduzione su scala allargata del rapporto di capitale e il suo dominio su scala planetaria, ma sono altrettanto, dal punto di vista opposto, occasioni rivoluzionarie. Il capitale non risolve le crisi, ma le perpetua indefinitamente e solo l’irruzione della soggettività di classe può interrompere il ciclo dell’eterno ritorno. O perlomeno tentare di farlo.

Nelle varie analisi sulle crisi dell’economia liberista classica, ma anche neoclassica e neoliberista, esse sono viste come momenti eccezionali ed episodici, dei momentanei squilibri e distorsioni del mercato, ma superabili dalle miracolistiche virtù “naturali” del mercato stesso di ritrovare i suoi equilibri tra domanda ed offerta, sovrapproduzione e sottoconsumo, tra investimenti in capitale e la loro realizzazione in un saggio di profitto medio.

Sono tutti fenomeni di superficie, come gli effetti dei maremoti o degli tsunami, o le eruzioni vulcaniche, che hanno cause molto più profonde, nelle profondità della terra. Questa profondità nel capitalismo è nel rapporto stesso che sta alla base di questo modo di produzione, il rapporto di dominio e sfruttamento della forza lavoro sociale, la divisione del lavoro e della giornata lavorativa sociale.

Le crisi del capitalismo non dipendono da cause esogene, ma da cause strutturali ed endogene: le possibilità della crisi sono sempre presenti in questo modo di produzione ed esplodono sempre con violenza contro le forme di vita e riproduzione delle masse.

La controrivoluzione neoliberista

Dopo la crisi del fordismo-keynesismo e la fine del patto lavorista che lo aveva contrassegnato, la controrivoluzione neoliberista ha agito su più piani e dimensioni. In primo luogo per spezzare l’offensiva operaia proiettata ben oltre la mera resistenza, con caratteristiche non meramente economicistiche, ma immediatamente politiche e potenzialmente rivoluzionarie. La “rude razza pagana” non si accontentava dei limiti salariali o delle misure welfaristiche compatibili con il sistema. “Vogliamo tutto, perché produciamo tutto!” era uno dei motti dell’autonomia di classe, che alludeva alla riappropriazione di valori d’uso e alla lotta per il potere.

La risposta a questo “fuori controllo” determinato dalle lotte dell’operaio massa e altri settori del proletariato sociale è stata quella di reimpostare il rapporto di forza e di dominio. Il neoliberismo agisce, da allora, proprio sul terreno delle lotte e dell’antagonismo di classe. Quella composizione andava smantellata, con la precarizzazione e flessibilità del lavoro, la riduzione dei salari sempre più verso il basso, lo smantellamento e la privatizzazione del welfare, l’estensione della sfera dello sfruttamento in ogni angolo della riproduzione. L’intero tempo di vita, singolo e collettivo, la vita e la natura diventano fonti per l’estrazione di valore. La finanziarizzazione dell’economia diventa il motore centrale dell’accumulazione: denaro che produce più denaro, al di fuori del processo della produzione reale, rimuovendo ed occultando la potenza del lavoro vivo, creando la figura feticistica di un capitale-denaro che si autovalorizza, come unico soggetto senza più alcun rapporto con il lavoro. Ma decenni di politiche neoliberiste, con il ripetersi delle crisi in maniera sempre più ravvicinata, dimostrano il loro fallimento, venuto spietatamente a nudo con l’emergenza covid-19.

La diffusione del lavoro sfruttato all’intero ambito della vita sociale e riproduttiva, oltre le mura delle fabbriche e oltre il rapporto salariale regolato, ha moltiplicato le possibilità di conflitto e resistenza, dislocandolo su ogni singolo punto della circolazione produttiva.

The time is out of joint

Il tempo omogeneo e vuoto della circolazione di capitale, sovrastata dal comando del denaro reso totalmente indipendente dalla produzione e da ogni “misura naturale” del saggio di profitto e della sua realizzazione, dimostra come “the time is out of joint”, il tempo fuori dai cardini, un verso dell’Amleto di Shakespeare che Marx amava particolarmente. Il “tempo è denaro” è il mantra del capitalismo fin dalla sua nascita: no, il tempo è la vita e il suo divenire, la sua continua innovazione e creatività. Nella sussunzione reale della vita nel capitale, la vita stessa e la sua riproduzione sono messe a valore, ma a questo livello si moltiplicano le aporie vecchie e nuove di questo modo di produzione, la sua crisi portata “tendenzialmente” all’estremo dei suoi limiti storici, sebbene non il suo crollo inteso in termini ineluttabili.

Il tempo unico, omogeneo e astratto, del comando del denaro-capitale, il tentativo di annullare lo spazio attraverso il tempo in maniera sempre più veloce e accelerata, si scontra con la irriducibile molteplicità e proliferazione di tempi e spazi di vita. La totale assimilazione del valore d’uso della ricchezza sociale nel valore di scambio si scontra con l’emergere di nuovi bisogni e desideri nel tessuto ricco e differenziato della cooperazione produttiva, con la potenza del lavoro vivo.

Il tempo- misura della proporzione tra lavoro necessario e plusvalore estorto salta nella misura in cui tutto il tempo della vita è sottomesso alla valorizzazione del capitale. Quando ciò avviene, chi misura cosa? Assistiamo di fatto alla fine della legge del valore, non tanto del lavoro in quanto tale come ricambio organico tra uomo e natura, ma alla forma peculiare che esso assume nel capitalismo.

Il capitale, dice Marx, “è la contraddizione vivente”: da una parte con l’impiego delle macchine, la scienza e la tecnologia cerca di ridurre al minimo il lavoro necessario, ovvero la parte della giornata lavorativa dedicata alla riproduzione della forza-lavoro, per aumentare relativamente il plusvalore, ovvero la parte non pagata; dall’ altra pone il plusvalore come misura del lavoro necessario. In altri termini deve creare costantemente lavoro necessario per appropriarsi di quello eccedente, ma deve altresì sopprimerlo per produrre l’eccedenza.

Oggi tutte queste contraddizioni si configurano in maniera intrecciata e simultanea: la continua innovazione tecnologica riduce a un minimo la necessità di lavoro, ma nello stesso tempo tutto il tempo di vita viene sottomesso alla valorizzazione di capitale; plusvalore relativo e assoluto si confondono in una giornata lavorativa illimitata.

L’estinzione della legge del valore, basata sul tempo- misura, porta il tempo fuori dai cardini.

L’attività produttiva della cooperazione sociale non è misurabile, è eccedenza fuori misura, oltre misura. Un esempio concreto e attualissimo è costituito dal cosiddetto “capitalismo digitale”. Su Facebook produciamo un valore 24 ore su 24, sette giorni su sette, siamo merce di noi stessi, lavoriamo gratis per creare immensi profitti dell’auto-profilazione pubblicitaria. Eppure, la nostra attività non solo non è misurabile, ma è invisibile, non viene riconosciuta, non ha alcun diritto. Molti altri esempi si potrebbero fare sul terreno del lavoro sociale collettivo, materiale o immateriale che sia: come è possibile misurare le relazioni sociali, le conoscenze, i saperi, le informazioni, le competenze, le attività di cura, le capacità creative, “l’intelligenza diffusa” del lavoro vivo?

Ognuno, nel comune, che lavori o non lavori, partecipa all’attività generale di creazione della ricchezza. Per questo un reddito di base universale e incondizionato non è una concessione pauperistica del potere, ma un diritto, un nuovo diritto profondamente incarnato nel cuore stesso della produzione a questo livello dello sviluppo.

La “moneta vivente” ed i ladri del tempo

La signoria assoluta del denaro sul mondo della globalizzazione e della sussunzione reale è l’unico criterio di misura, dispotico, arbitrario, svincolato da qualsiasi regola. Il debito è un’ipoteca non solo sul presente, ma sul futuro, il furto del tempo futuro, un’appropriazione sulla vita che si rinnova permanentemente. È il biopotere “come moneta vivente”, che rimodella continuamente le nostre esistenze, che cattura l’eccedenza della cooperazione sociale, la riporta dentro l’ambito dei limiti e proporzioni adeguate alle esigenze del profitto, dentro la “norma” dello sfruttamento e della proprietà privata.

L’eccedenza non è altro, infatti, che la possibilità/potenza di costruire e prefigurare un modo di produzione fuori dal capitalismo e radicalmente alternativo, l’espressione di una transizione possibile, di cui sono già presenti la base materiale e le condizioni storiche.

Nel post-fordismo, la figura marxiana del general intellect acquista una nuova e straordinaria potenza. La diffusione dell’intelligenza sociale, le conoscenze tecnico-scientifiche, le capacità cognitive che in Marx appaiono ancora come prerogative del “capitale fisso”, sono oggi, almeno in parte, incorporate nel” lavoro vivente”.

Certo, sarebbe sbagliato e fuorviante tradurre queste tendenze potenziali come un processo già dato in senso oggettivistico e deterministico: dipende dai livelli di soggetivazione, di ricomposizione sociale e politica, di sviluppo di pratiche trasformative, singolari e comuni. Ma non c’è dubbio che queste possibilità siano assolutamente reali e alludano a un tendenziale processo di auto-valorizzazione del lavoro vivo.

La base materiale dello “stato di eccezione permanente”: nel cuore dei rapporti sociali di produzione

Il capitale ha la necessità continuamente rinnovata di catturare l’eccedenza della cooperazione sociale e riassorbirla all’interno delle sue norme, proporzioni e limiti. Ma il fallimento del neoliberismo, evidenziato e accelerato con l’esplosione del Covid-19, dimostra come lo “stato di eccezione permanente” sia un sintomo di una malattia più profonda, che tocca non solo la sfera del “politico”, ma la natura stessa dei rapporti sociali di produzione, la cui conflittualità non è mai totalmente governabile e lascia sempre delle vie di fuga.

La governance, questa forma moderna di comando del capitale, descrive una condizione di continua instabilità ed è costretta a rimodulare continuamente i suoi apparati di cattura del valore. Ma nella misura in cui la vita stessa viene messa a valore, come è possibile ingabbiare il suo continuo divenire? La governance neoliberale oscilla continuamente tra fascismo e liberismo, tra neo-malthusianesimo e neo-keynesismo, ma non può mai risolvere le crisi, se non per periodi sempre più brevi, che creano le condizioni di ulteriori crisi, in maniera ancor più ravvicinata e accelerata, come dimostrato negli ultimi decenni. Solo un Dio ci può salvare, diceva Martin Heidegger, dal dominio totale della tecnica, inesorabile destino dell’Essere. Alle passioni tristi della teologia politica e del pensiero negativo dobbiamo contrapporre un’altra, potente affermazione: solo una rivoluzione ci può salvare.

Una rivoluzione concepita non come evento messianico, unico e trascendente, ma come processo immanente, accumulo costante di forza e contropoteri. La straordinaria espressione di mutualismo nell’emergenza Covid-19, una volta sgomberato il campo dalle mistificazioni sul volontariato che supplisce alle carenze del Welfare, va interpretato proprio secondo le categorie dell’auto-valorizzazione e prefigura nuovi rapporti sociali. Non si tratta mera resistenza, come nel vecchio mutualismo della tradizione operaia, ma di un possibile embrione, nel quadro dei conflitti, di nuove istituzioni del comune.