La nave dei disperati e la "bestia selvaggia"

27 / 6 / 2018


La vicenda dei profughi dell’Acquarius è una tragica metafora del tempo attuale: essa rivela il bordo abissale della barbarie che ha da sempre accompagnato, come un’ombra oscura, il mito illuministico del progresso, dello sviluppo lineare della cultura e della società occidentale, dei suoi caratteri di emancipazione universale. Attorno a questi valori si è costruita, dall’Illuminismo in poi, la logica del capitalismo, dello sviluppo illimitato delle forze produttive, il trionfo del mercato, del denaro, del profitto, della proprietà privata, dello stato di diritto. Insomma, la “rappresentanza popolare” e la democrazia formale come forme di legittimazione dello sfruttamento e del dominio del capitale.

Ma nelle crisi strutturali e organiche del capitalismo, quando avvengono trasformazioni radicali e mutamenti di paradigma del modo di produzione e nella composizione delle classi sociali, quando vengono rimessi in moto i meccanismi dell’accumulazione, il lato oscuro si disvela in tutta la sua violenza originaria.

Molti autori hanno svelato con efficaci metafore questo aspetto, questo intreccio tra barbarie e diritto che distrugge ogni positivismo deterministico e storicismo idealistico, a partire da Giovanni Battista Vico - con la sua Ingens Sylva - nella quale l’umanità, in ogni epoca, può sempre ricadere; lo stesso Hegel parla di “bestia selvaggia” per definire la società civile, così come i Francofortesi nella critica alla ragione illuministica e Hannah Arendt nella tematizzazione dell’olocausto e del nazionalsocialismo. Ma ci piace citare a questo proposito l’espressione potente di Rosa Luxemburg , «socialismo o barbarie», che ci permettiamo di tradurre e riattualizzare nell’alternativa radicale tra «comunismo o barbarie». Il comunismo, come processo costituente sempre aperto e costruzione del comune[1] nelle molteplici dimensioni della vita sociale, indica l’unica via per uscire dalla nuova barbarie del capitalismo, dalle sue forme di dominio variegate e articolate su scala planetaria e di cui la questione profughi, migranti, popolazioni precarie, nomadi ed apolidi costituiscono uno dei paradigmi.

La totale disumanizzazione massificata che la vicenda dell’ Acquarius svela, diventando un simbolo concentrato della miseria etico-politica dell’ordine neoliberista, deve far riflettere sul fatto che nessun processo rivoluzionario di liberazione singola e collettiva può costituirsi a prescindere dalla costruzione di una nuova umanità, di un nuovo umanesimo, di un nuovo rinascimento. Non solo e non tanto lavoro salariato contro capitale, ma umanità contro il capitale, la vita e la libertà contro il dominio.

Tornano alla memoria le parole di Marx nella critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico, quando parla della formazione del soggetto rivoluzionario, ovvero «di una classe con catene radicali, di una classe della società civile la quale non sia una classe della società civile, di uno stato che sia la dissoluzione di tutti gli stati, di una sfera che per la sua sofferenza universale possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poiché contro di essa viene esercitato non una ingiustizia particolare bensì l'ingiustizia senz'altro, la quale può fare appello non più ad un titolo storico ma al titolo umano; di una sfera, infine, che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società e con ciò stesso emanciparle, la quale, in una parola, è la perdita completa dell'uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo riacquisto dell'uomo».

Rivoluzione radicale significa andare alla radice, ma la radice dell’uomo è l’uomo stesso, nel suo rapporto organico con la natura e la riproduzione sociale.

La nuda vita e la violenza del “sovranismo” neoliberista

Le riflessioni di Agamben sulla nuda vita, dall’homo sacer in poi, sono illuminanti per descrivere le condizioni di sofferenza subumana di profughi e migranti a fronte della violenza del potere sovrano. Una violenza barbarica, esercitata sulla moltitudine dei corpi di uomini e donne in fuga, alla ricerca della libertà e di forme di vita degna; un esodo biblico, che concentra su di sé le contraddizioni del capitalismo post-fordista , dei suoi dispositivi di comando e controllo sociale. Le immagini continuamente ripetute di corpi su corpi, ammassati su navi e barconi, nei lager o nelle carceri dei centri di accoglienza, spogliati di ogni forma di vita sono diventati non eccezione, ma normalità. Cadono nella più totale indifferenza, possono tranquillamente morire, sono “uccidibili” da chiunque, esclusi dalla cittadinanza, banditi dalla polis e dalle sue forme di vita comune.

È questo il significato di sacer nel diritto antico romano: separazione, messa al bando, porre fuori dalla collettività, abbandonare nell’indifferenza la vita di chi è colpito da questa esclusione. Potere sovrano, dunque, significa in termini biopolitici «poter far vivere o respingere nella morte», come diceva Foucault. Il rapporto inclusione/esclusione diventa fondamentale per comprendere le tecniche di governo neo-liberali sulle popolazioni e il controllo sui corpi moltitudinari. Si tratta di un peculiare dispositivo, un intreccio di svariati elementi - politici, giuridici, sociali, culturali, linguistici etc - che includono nella misura in cui escludono, proprio in virtù di questa stessa esclusione. Il Noi collettivo si forma e si fa vivere contro l’Altro, lo straniero, il migrante, il nomade, ma più in generale il diverso. Il potere biopolitico agisce creando una “norma” che va seguita se si vuole rientrare nei parametri dei diritti di cittadinanza, e quindi per essere considerati uomini in quanto cittadini. Ma nella misura in cui si è esclusi dalla cittadinanza non si è più considerati uomini. Esplode così, in tutta la sua violenza, ammantata dal diritto, la contraddizione immanente alla Dichiarazione dei Diritti Universali dell’Uomo e del Cittadino, che occulta il rapporto schiavistico, razzista, patriarcale e colonialista a base dello sviluppo capitalistico.

Non per niente Foucault individua nel razzismo un potentissimo dispositivo biopolitico: non solo si addita una determinata parte della popolazione come non idonea a farne parte (escludendola dunque di fatto dal corpo stesso della popolazione), ma si lascia aleggiare, se non addirittura si fomenta, la paura che tale parte possa costituire un germe che vada a infettare la parte “sana”, trascinandola nel baratro della sua a-normalità. Viene in mente Verga nel Mastro Don Gesualdo quando parla di «straniamento rovesciato», ovvero i valori “normali” - i principi di solidarietà, di umanità, di senso di comunità - appaiono alle persone come anormali, in nome della «religione della roba», il valore denaro-merce, l’individualismo possessivo, il cinismo e la disumanizzazione nei rapporti sociali. Questo straniamento rovesciato ha sempre bisogno di costruire un nemico assoluto per fondare un senso comune, una comunità omogenea e coesa, dove colui che individua e costruisce il nemico pubblico appare come il salvatore della comunità nazionale. Non è un caso che il linguaggio del razzismo di Stato, incarnato da Salvini e dal neonazionalismo leghista, faccia uso di termini medico-patogeni per quanto riguarda profughi, migranti e nomadi: parassiti, virus, una minaccia alla salute, alla buona vita, alla purezza del popolo, un’inquietante analogia con le tecniche linguistiche e comunicative del nazionalsocialismo.

È necessario prendere estremamente sul serio la questione del linguaggio: non si tratta di espressioni folkloristiche o dettate da rozza e volgare ignoranza. Il linguaggio è performativo, produce soggettività, immaginario, essere sociale, senso comune e diventa un terreno fondamentale per la lotta di classe, che dobbiamo re-imparare ad agire in tutta la sua portata. La controrivoluzione agisce su tutti i piani e rievoca i fantasmi della storia dello sviluppo capitalistico, sempre presenti ed ancora attuali: razzismo, nazionalismo, sessismo, patriarcato- A questo proposito basta considerare le dichiarazioni del braccio destro di Salvini, il ministro della famiglia Fontana. Una controrivoluzione rispetto al’68 e all’antagonismo operaio e proletario degli anni ’70, dislocata su tutti i piani della vita sociale.

Il Governo Salvini: compimento della controrivoluzione neoliberista in Italia

Ormai, rispetto alle riflessioni già fatte su questo governo giallo-verde, ci sembra che in corso d’opera di “giallo” ne sia rimasto ben poco e i pentastellati, vampirizzati da Salvini e dalla lega lepenista, ridotti a un ruolo del tutto subalterno.

Nella logica dei “giochi di potere” la strategia di Salvini appare chiara: macinare il MoVimento 5 Stelle, rafforzare il partito leghista, modificare la legge elettorale  e andare al potere pieno con la coalizione di centrodestra. Questo processo provocherà contraddizioni? In che misura potranno essere utili ai movimenti? Vedremo, anche se i giochi del potere e le strategie dell’autonomia del politico non ci appartengono e ancor più è necessario costruire contropotere sociale rivoluzionario.

Per ora possiamo solo cogliere l’essenza delle trasformazioni della forma-Stato: si tratta di una trasformazione strutturale, un cambio di paradigma verso una nuova forma di comando imperiale transnazionale: possiamo definirla post-democrazia autoritaria, che svuota qualsiasi simulacro rappresentativo e ogni presunta autonomia sovrana degli stati nazionali. Ciò non significa estinzione dello Stato, piuttosto ne viene ridefinito il ruolo dentro una riconfigurazione gerarchica, territoriale, sociale, economica. Ognuno deve occupare un ruolo e una funzione ben precisa in questa gerarchia, in base alle esigenze del capitale collettivo globalizzato e del mercato mondiale, in particolare nel controllo dei flussi delle popolazioni, delle esigenze del mercato del lavoro e delle sue fluttuazioni. Una sorta di neo-feudalesimo, in cui la sovranità degli Stati-feudo deve essere piegata e subordinata alla volontà superiore del sovrano imperiale, soprattutto nel mantenimento dell’ordine sociale, nella garanzia di riproduzione del capitale e dei suoi rapporti di dominio. Non è un caso che la modificazione della forma-Stato in senso autoritario vada nella direzione del presidenzialismo, l’accentramento dei poteri nell’esecutivo e il totale riassorbimento in esso del potere legislativo, così come la politica evapora nell’economia di mercato, vero Dominus di tutto il processo. Uno Stato autoritario, dunque, il cui compito non é quello di intervenire per sanare le storture, le contraddizioni sociali, le macroscopiche diseguaglianze del libero mercato, ma, al contrario, di togliere tutti gli ostacoli ed impedimenti al suo libero corso.

Atro che meno Stato e più mercato, come proclamavano Reagan e Thatcher! In realtà, più Stato e più mercato, più diseguaglianze, più controllo, più Stato di polizia, più prevenzione rispetto a tutti quei soggetti considerati dangerous classes, potenzialmente pericolosi rispetto all’ordine costituito.

 Il filo conduttore della controrivoluzione neoliberista, a partire dalla metà degli anni ’70 con il famoso documento della “Trilateral”, si svolge attorno ad alcuni nodi: disarticolazione della vecchia composizione di classe, passaggio a un nuovo paradigma produttivo e all’accumulazione flessibile, dominio del capitale finanziario, distruzione del Welfare, appropriazione privata dei beni comuni, spostamento di enormi quote di ricchezza sociale dal basso verso l’alto e manipolazione mediatica delle masse popolari.

Ci si chiede: come è possibile che questo ordine-disordine globale continui a sussistere, nonostante le ingiustizie, le sofferenze, lo sfruttamento, la devastazione ambientale, la barbarie che attraversa popoli, stati, nazioni?

Il fatto è che questo ordine produce soggettività, simboli, linguaggio, immaginario, soggetti sociali totalmente omologati e asserviti all’ideologia dominante, alla stratificazione gerarchica del comando su tutti gli aspetti della vita.

Alla concezione del diritto universale, legittimato dal consenso sociale e posto da istituzioni elette a suffragio universale nel quadro della democrazia rappresentativa, si sostituisce il normativismo giuridico e il diritto differenziale, in cui sovrano non è solo chi decide dello stato di eccezione, ma chi rende normale questa stessa eccezionalità.

Nel ‘600, secondo Hobbes, il diritto era ciò che il sovrano comandava e nasceva dal desiderio dell’uomo di sottoporsi a un’autorità pur di trovare la garanzia dell’ordine e della pace sociale, il che portava alla figura di un potere trascendente, il Leviatano, signore assoluto della legge e dell’ordine. Oggi, questo meccanismo è del tutto immanente e astratto, è il potere della norma che definisce e ridefinisce continuamente limiti e confini, inclusioni ed esclusioni, codici di accesso alla cittadinanza o esclusione da essa. Il potere normativo non trova legittimazione in alcunché tranne che in se stesso, ed è ancora più sottilmente dispotico ed assolutista, in quanto normativo della vita, fino in fondo biopolitico: biopotere.

La macchina astratta e generalizzata, giuridico-normativa, del comando imperiale, invisibile eppure potente nei suoi effetti di dominio e assoggettamento dei corpi moltitudinari, circola molecolarmente nelle reti sociali. Essa produce dispositivi di controllo a geometria variabile, che ridefiniscono continuamente confini, limiti, barriere, inclusioni ed esclusioni rispetto alla cittadinanza, alla normativa, alle sue procedure e decreti attuativi. Così si fonda la segmentazione gerarchica del sociale, in cui  la norma deve essere interiorizzata dai soggetti singoli e collettivi, in maniera tale da garantire l’assoggettamento volontario. Ognuno nella scala sociale difende il proprio posizionamento: l’ “imprenditore di se stesso” con il suo miraggio di un futuro di benessere e di successo, il “povero relativo” sospeso nell’attesa della fatidica chiamata lavorativa alla quale sottomette l’intero tempo di vita. Ognuno vede in chi sta più in basso nell’assetto gerarchico un pericolo e una minaccia, lo spettro terribile della nuda vita, la vita abbandonata a se stessa, senza alcuna garanzia e protezione.

Salvini ha trasformato il Ministero dell’Interno in un vero e proprio gabinetto della guerra sociale contro gli ultimi, una dichiarazione di guerra che si pone l’obiettivo politico di parlare alla pancia del suo elettorato e nello stesso tempo costruire l’immagine del sovranismo nazionale sulla vita dei profughi e dei migranti, mentre il Ministro dell’Economia, il berlusconiano ultraliberista Tria, si inchina ai diktat di Bruxelles. Sovranismo e ordoliberismo europeo sono due facce della stessa medaglia, funzionali l’uno all’altro, due aspetti integrati della controrivoluzione, come lo furono, in altra epoca, fascismo e democrazia liberale. Non un’antitesi, ma una stessa tesi che si divide in due. La trappola linguistico-simbolica fa apparire l’Europa delle banche e delle multinazionali, a confronto del populismo barbaro e sovranista, come la patria dell’Illuminismo, dei principi universali e del diritto dei popoli (vedi l’ipocrisia di Macron), mentre tutto il suo ordinamento normativo sprofonda nella barbarie in maniera ancor più feroce e subdola della sovranità assoluta d’antica memoria.

Non si tratta dunque di costruire un fronte contro la reazione, come si trattasse di ripristinare un precedente ordine democratico e progressista violato dai populisti sovranisti, bensì resistere e lottare qui e ora contro l’intero ordine controrivoluzionario nel nuovo paradigma post-democratico globale. Ma proprio per questo la “resistenza” non può assumere dei connotati puramente difensivi rispetto all’attacco del potere, bensì trasformarsi in resistenza offensiva, che crea nuove forme di vita e di cooperazione sociale dentro e contro il capitale, un nuovo diritto del comune. Come dice Foucault il potere si esercita su corpi liberi: la libertà viene prima dei meccanismi di controllo e assoggettamento e per quanto essa possa essere limitata, condizionata, portata all’ estremo limite della barbarie e sofferenza, non può mai essere cancellata del tutto. La soggettività viene prima, come - pur con un approccio diverso - sosteneva Mario Tronti in Operai e Capitale, che fu a fondamento dell’operaismo italiano ed in cui si rovescia il rapporto tra capitale e forza lavoro: è la lotta di classe che determina i movimenti del capitale, non viceversa. La resistenza, il desiderio di libertà e di un’altra vita sono una sfida permanente agli assetti di dominio, pur in condizione estreme e disumane, pur nella sofferenza della nuda vita, come dimostrato dalla marcia dei migranti a Cona,  dall’inarrestabile potenza del’ esodo,  dall’ eroica resistenza-simbolo del sindaco di Riace o delle navi della salvezza che disobbediscono agli ordini governativi. Tutto ciò indica un percorso possibile e necessario: dal “blocco sociale” degli indignati alla disobbedienza, alla lotta, al conflitto, alla resistenza offensiva, ricca di progettualità verso nuove forme di vita e cooperazione meticcia.



[1] Il concetto di “comune” già era stato individuato dall’ultimo Marx nella sua rivalutazione del populismo russo, quando vedeva nel Mir  (la comunità autorganizzata di villaggio nelle sterminate campagne russe), la possibilità di costruzione del comunismo al di fuori dello sviluppo capitalistico e della sua necessità storica, caricando il concetto di comunismo di un profondo significato etico–politico, al di là di ogni economicismo e mitologia del progresso indefinito e lineare