La «produttività economica del crimine». Riflessioni su mafia e legalità

21 / 3 / 2019

Una parte dei movimenti antimafia che si sono sviluppati nel nostro paese negli ultimi decenni, soprattutto dopo le uccisioni di figure politico-istituzionali e uomini dello stato - Piersanti Mattarella, Pio La Torre, il generale Dalla Chiesa all’inizio degli anni ’80, i magistrati Falcone e Borsellino negli ’90 etc.. - conservano una grande contraddizione: vedono la mafia, per lo più , come un’anomalia criminale rispetto alla “legalità” dello Stato, una devianza, distorsione dalle regole e norme del mercato e del modo di produzione capitalistico.

Questo, naturalmente, non mette in discussione la buona fede di molti uomini e donne che coraggiosamente combattono quel “doppio stato” parallelo e informale rappresentato dalle organizzazioni mafiose, ma rischia di diventare, se non sottoposto a un’analisi di classe, in un’apologia dello “Stato formale” e della sua legalità, occultando la relazione strutturale tra due facce di una stessa medaglia.

L’ideologia della “legalità”, usata come formula vuota e assolutizzante, diventa una coperta buona per tutte le stagioni, una maschera che occulta le contraddizioni sociali e inevitabilmente legittima ogni potere e ordine costituito, qualsiasi sia il suo contenuto. Mafia, criminalità, capitalismo sono facce di una stessa moneta, che ha il suo core nella violenza dell’accumulazione e del profitto. Già Marx aveva messo in evidenza, in un breve scritto pieno di ironia e sarcasmo contro le celebrate virtù dello sviluppo capitalistico da parte dell’economia politica borghese, la «produttività economica del crimine», come elemento consustanziale e indissolubile con questo modo di produzione. Nel capitalismo i confini tra legalità e illegalità sono talmente fluidi da passare continuamente l’uno nell’ altro.

Il capitale obbedisce a un’unica legge: la massimizzazione del profitto, con ogni mezzo necessario. Per questo lo sdoppiamento tra capitalismo legale e accumulazione criminale, tra “capitalismo buono “e “capitalismo cattivo” è puramente funzionale alla riproduzione complessiva del capitale. È necessario creare il “male” per far risaltare le virtù del “bene”, la legalità dello stato del capitale contro l’illegalità dello stato informale della mafia, mentre i presupposti di violenza e sfruttamento, appropriazione privata dei beni comuni, privatizzazione della sfera pubblica rimangono gli stessi.

La retorica legalitaria viene cancellata dall’evidenza dei fatti: essa mistifica la realtà, come se Stato e Mafia fossero due entità del tutto contrapposte e indipendenti tra di loro. Fin dalle sue origini nel nostro paese, la Mafia ha sempre avuto un intreccio strutturale con lo Stato e le istituzioni, in quanto l’accumulazione criminale ha sempre rappresentato uno straordinario volano del sistema d’affari capitalistico, velocizzando contro lacci e lacciuoli “legali” i processi di accumulazione originaria. Ma l’accumulazione originaria di cui parla Marx – fatta di violenza, sopraffazione, separazione forzosa dei produttori dai mezzi di produzione, appropriazione dei beni comuni, recinzione delle terre, riduzione in schiavitù “legalizzata” del lavoro salariato di masse di poveri e vagabondi, colonialismo, distruzione delle risorse naturali - non è un atto dato una volta per tutte, relegato in un lontano passato. La borghesia capitalista, nel corso dei secoli, ha cercato di rimuovere e “dimenticare” questa sua origine marchiata dal crimine, dal sangue e dal fuoco, creando un ordine legale e statuale basato sulla sacralità “naturale” della proprietà privata, il diritto all’arricchimento illimitato, al trionfo della merce e del denaro come valori supremi della modernità.

Ma questo atto originario si ripete, in forma nuova, a ogni fase dell’accumulazione: la nuova accumulazione originaria avviene sotto l’egida del neoliberismo, in cui l’espropriazione della cooperazione sociale e del “comune”, il dominio del capitale finanziario, la trasformazione del profitto in rendita, la privatizzazione del Welfare sono il terreno ideale per l’imprenditoria mafiosa ed illegale. Il terreno degli appalti pubblici è emblematico per quanto riguarda le grandi opere, dove l’intreccio tra politica, apparati di Stato, poteri finanziari e imprenditoria mafiosa è così noto e abbondantemente documentato da far crollare di per sé ogni mistificazione sul rapporto legalità-illegalità, coniugati in un indissolubile intreccio.

Ma c’è anche un altro aspetto di questa funzionalità reciproca tra crimine, corruzione e sviluppo capitalistico che va messo in rilievo: l’ordine capitalistico trova un complemento efficace nelle mafie nel contrastare la lotta di classe. Ancora una volta citiamo la realtà italiana, dove l’origine della mafia al sud si colloca nel Risorgimento, quando i grandi latifondisti e i loro affittuari ( i gabellotti) contrastarono con la violenza il movimento contadino in lotta per la riforma agraria. Da notare come i “rivoluzionari” garibaldini si unirono a questa violenta repressione, in nome degli interessi della nascente borghesia industriale piemontese. Si inaugurò in quel frangente l’alleanza tra borghesia imprenditoriale del nord e borghesia mafiosa al sud, che tanto peso ha avuto nella storia italiana.

Questo connubio legale-illegale nella repressione della lotta di classe si manifestò anche nei riguardi dei Fasci siciliani, uno dei più importanti movimenti di contadini e operai, di ispirazione socialista e libertaria, nella storia del nostro paese. Ricordiamo, tra i tanti episodi, la strage di Portella della Ginestra nel 1947, dove il bandito mafioso Giuliano fece massacrare dai suoi sgherri una folla di lavoratori, operai e contadini in occasione della festa del Primo Maggio. Ancora: l’uccisione del compagno Peppino Impastato nel 1978 ad opera della mafia per le sue denunce su Cosa Nostra e le sue attività nelle lotte con i contadini espropriati, gli edili e i disoccupati.

Anche oggi le varie mafie, oltre che avere un ruolo centrale nella nuova accumulazione originaria neoliberista e nella finanziarizzazione dell’economia, svolgono un ruolo complementare nel controllo e assoggettamento di masse proletarie e sottoproletarie, per impedire l’esplosione di conflitti di classe contro il capitale. Nell’età giolittiana, tra inizi del novecento e l’esplosione della prima guerra mondiale, lo stesso Giolitti fu chiamato «ministro della malavita», a sancire questa alleanza tra borghesia mafiosa e borghesia imprenditoriale. Ma quanti «ministri della malavita» ci sono oggi? Solo la lotta contro il capitalismo nelle sue radici strutturali, solo la conquista da parte degli sfruttati e degli oppressi della giustizia sociale può aprire gli orizzonti di un mondo nuovo, più libero e giusto.