La Repubblica fondata contro il comune

Da Taranto a Monselice

18 / 12 / 2012

Taranto e Monselice non sono poi così distanti. Le loro vicende “industriali”, da tempo in primo piano grazie a lotte contro il ricatto “lavoro in cambio di salute”, rendono evidenti come le somiglianze, le analogie, se ne infischino delle centinaia di chilometri che separano le due città. Una è un paese della provincia di Padova, l’altra una città cresciuta attorno ad un mostro come l’Ilva, che da sola è grande quanto tutta Monselice, ed è al sud, nel cuore della Puglia. Eppure oggi sono uguali, come se stessero una attaccata all’altra. Di sicuro ad esempio, è uguale la strategia messa in campo dai poteri forti delle due realtà, quelli per capirci che detengono la ricchezza, non perché la producono, ma perché l’hanno accumulata nel tempo, avendo messo a valore privato il territorio, l’ambiente, l’aria, l’acqua, le foglie e gli alberi. Tutto ciò che riguarda la possibilità di vita quindi. Questi padroni, Riva a Taranto come Zillo a Monselice, hanno accumulato partendo da un’origine: il poter disporre, per trasformarlo in merce e in profitto, di qualche cosa che non solo è di tutti, ma anche assolutamente prezioso perché o scarso, oppure soggetto a facile deperimento, come l’aria. 

La possibilità dunque di utilizzare beni comuni, è stata all’origine del successo, cioè della riuscita capitalistica del processo industriale. Non si tratta però solo di materie prime: carbone, silicio, ferro, che comunque sono state estratte radendo al suolo interi monti, oppure trasformando il sottosuolo e tutto ciò che contiene, come l’acqua, in un deserto percorso da uomini e mezzi. I beni comuni affidati a questi capitalisti sono stati ad esempio l’aria, o il paesaggio, ma anche le relazioni umane che si sviluppano all’interno di realtà urbane indirizzate dalla gestione privata di questi beni comuni, verso un certo tipo di sviluppo. La salute umana, che è direttamente legata allo stato e alla qualità di questi beni comuni, è stata dunque data in gestione agli stessi che producevano cemento o acciaio. Se ciò valesse solo per la forza lavoro di cui i medesimi capitalisti hanno potuto disporre perché l’hanno “acquistata”, sarebbe già molto grave, ma assolutamente previsto.

Oggi invece, Taranto e Monselice, e tante altre situazioni simili in Italia, dimostrano che quel capitalista ha avuto a disposizione dallo Stato, che è l’unico detentore della disponibilità di quei beni comuni, anche la salute, l’aria, l’acqua, e la vita intera di tutti i cittadini anche non impiegati dentro la fabbrica, quelli che c’erano prima e i loro figli nati molto dopo, per molte generazioni. Per decenni, sulla scorta delle lotte operaie contro la nocività, sembrava che questo processo fosse relativo in particolare a chi stava sul ciclo produttivo, a chi doveva stare dentro la fabbrica. Era naturalmente già chiaro che ciò che accadeva dentro quei cancelli, non si tratteneva dall’uscire: i mesoteliomi da amianto o i tumori da Pvc, come il cancro da polveri di ferro o la “silicosi” da cemento, si estendevano rapidamente intanto alle famiglie degli operai già ammalati, e poi nei quartieri dormitorio abitati sempre dagli stessi operai come a Tamburi. Ma la misura di tutto ciò si poteva dare solo nel tempo. La valutazione della morte, in questi casi, è una contabilità progressiva e, purtroppo, più lenta della realtà. Le previsioni, tutte superate in eccesso, non sono mai riuscite a rompere quel muro criminale di connivenza, complicità e convenienza che ha permesso che tutto andasse avanti.

Oggi, che la contabilità della morte è fatta di una storiografia clinica impressionante, l’orrore è pubblico. Quelle merci prodotte non contengono dunque solo il lavoro necessario per produrle. Non contengono solo il know how, la tecnica e la tecnologia, il saper fare, l’energia impiegata per plasmarle come prodotto finito e quella spesa per mandarle a migliaia di chilometri di distanza disponibili all’acquisto. Quelle merci non hanno dentro solo la vita degli operai che le hanno lavorate, regalata in cambio di un salario misero che mai potrà ripagare ciò che è stato fornito. Le merci sequestrate a Taranto dalla magistratura, quelle oggetto dell’ennesimo decreto “salva Ilva” ( sarebbe più corretto dire “salva Riva”), come quel cemento estratto a Monselice e quell’energia che si vorrebbe oggi produrre dal trattamento nei forni di rifiuti speciali, hanno dentro i beni comuni ridotti a proprietà privata e deformati, distrutti, modificati per attribuire a quelle stesse merci il valore di scambio .

I beni comuni fondamentali per la vita di tutti, anche di coloro che non sono ancora nati, sono stati consegnati dunque, da un potere pubblico ad uno privato, che ne ha disposto a suo piacimento annullando il loro valore d’uso e incorporandoli a merci utilizzate in base unicamente al loro valore di scambio, e quindi alla possibilità da parte del capitalista di trasformarle in denaro.

Sia nel caso dell’Ilva che in quello dei cementifici di Monselice, si può dunque parlare di un capitalista privato e basta? Oppure dovremmo concentrarci su quel potere pubblico che ha concesso la disponibilità delle vite di tutti i cittadini, attraverso la consegna dei beni comuni fondamentali all’imprenditore di turno, decidendo dunque che si poteva morire pur di produrre acciaio, cemento, energia?

Il botta e risposta con la magistratura, sia a Taranto che a Monselice, lo regge solo timidamente, o limitatamente, il capitalista privato: l’arma è di nuovo quella forza lavoro che lui si è comprato sul “mercato”. Per garantire la produzione quella forza lavoro gli è stata fondamentale; per continuare a farlo lo è altrettanto ma questa volta impiegandola all’inverso.

I Riva a Taranto e Zillo a Monselice, minacciano licenziamenti e attraverso questo, mobilitano la “loro” forza lavoro, che da sfruttata in fabbrica ora è sfruttata nelle piazze agitate ad arte dall’azienda con lo spettro della disoccupazione. Ma è una risposta questa che porterebbe a poco se non fosse affiancata da un intervento pubblico, di Stato, energico e diretto. Come nel caso dell’affidamento dei beni comuni al privato, è il potere pubblico che risponde alla magistratura, cambiando le leggi. I decreti di Taranto dunque, delineano meglio questa commistione tra Stato e privato, facendone scaturire la vera natura: un Capitalismo di Stato che utilizza per l’accumulazione originaria prima, e per la realizzazione di profitti poi, i beni comuni fondamentali per tutti. Questa è una delle ragioni per le quali i beni comuni non possono essere affidati allo stato: esso se ne servirebbe in maniera indiscriminata per sottrarli alla loro funzione, al loro valore d’uso, e per trasformarli in sinergia con i privati, in qualcosa di non più disponibile alla vita. Questo palesarsi del Capitalismo di stato contro i beni comuni, richiama la costituzione: quell’articolo 1 dove appare subito la parola “lavoro”, attribuendo ad esso la caratteristica di pietra fondante della Repubblica, cioè di ciò che è pubblico, che significhi in realtà proprio questo? Che ciò che è pubblico non può essere comune? Che ciò che è comune può altresì essere a disposizione del pubblico e del privato fino a distruggerlo, cioè ad annullarlo nella sua indisponibilità, riproducibilità, conservazione, valorizzazione?

Da Monselice a Taranto quello che si vede in campo è una cricca di criminali importanti, perché come si sa chi ha accumulato tante ricchezze è importante al di là di come lo abbia fatto, che sono gli imprenditori, insieme a poteri pubblici, da alcuni sindaci fino ad arrivare al Governo, nell’opera di preservare le prerogative di questa joint-venture capitalistica devastante che conserva i tratti peggiori della logica dell’impresa privata e del capitalismo di stato. Usano gli operai come forza lavoro da mobilitare e ci riescono paradossalmente attraverso la minaccia di non servirsene più.

Dall’altra ci sono ormai intere città che si ribellano a questa rapina della possibilità di vivere, che sarebbe sbagliato però ricondurre ad una sorta di combriccola della legalità o della costituzione che supporta qualche magistrato non corrotto. Qui si tratta di comune contro Stato, di ridefinizione di un rapporto conflittuale, e lo è sempre di più, che segna probabilmente l’inizio di una nuova grande narrazione del nostro tempo antagonistica al sistema capitalistico.