La riforma delle riforme

Università, crisi e possibilità di conflitto

25 / 1 / 2010

L’indifferenza mediatica e politica costruita in questi ultimi mesi attorno alla questione dell’università e della precarietà nasconde, e forse ad una attenta lettura evidenzia, la partita politica che si sta giocando in questa complessa fase della politica italiana. Una fase contraddistinta da una parte da una crisi istituzionale e da uno scontro interno alla maggioranza senza pari, dall’altra dal riesplodere delle contraddizioni sociali generati da quella falsa uscita dalla crisi, un'exit strategy truccata e mai completamente praticata. 

La riforma Gelmini sull’università rappresenta il punto di equilibrio, necessariamente precario, intorno al quale si sperimenta nella realtà la volontà di riforme bipartisan e di nuovo accordo tra la classe politica, di governo e di opposizione. Il discorso costruito attorno ad essa ci parla dunque di molto altro: assume su di sé sì la questione, che rimane centrale, della riorganizzazione del sistema dell’istruzione e del welfare in questo paese ma enuncia anche degli elementi complessivi della fase politica dei mesi a venire. La riforma dell’università, tema sul quale il governo in grave difficoltà ha traballato per oltre un anno a causa della forza  del movimento dell’Onda, espressione maggioritaria nel paese e radicale, intelligente, irrapresentabile e diffusa del rifiuto di pagare la crisi, diventa così paradossalmente il terreno sul quale mettere alla prova la nuova fase di rapporto tra governo e opposizione. Al di là di posizioni minoritarie o piccole lobby interne agli atenei, l’indegna dirigenza del Pd pare avere già scelto: qualche piccola modifica, qualche contentino, poi si va avanti assieme.

L’ipocrisia della classe politica italiana, dai partiti di governo fino al “neodemocratico” Fini e all’opportunista, incapace quanto traballante Partito Democratico potrebbe lasciarci allibiti se non considerassimo fino in fondo la questione che preoccupa, muove e definisce i rapporti tra le parti politiche. Il tema centrale sembra essere la necessità da parte del governo del paese (e intendo con questa espressione definire la complessità delle parti politiche) di intraprendere una transizione politico-istituzionale che faccia però a meno o meglio che tenda ad escludere il conflitto sociale, che organizzi il riassetto politico ed economico dall’alto, senza interferenze, senza complicazioni. La crisi non è sanata, anzi; mentre si riaffaccia lo spettro di un’altra ricaduta, la disoccupazione aumenta e con essa l’insoddisfazione del paese, la preoccupazione dei cassintegrati e dei licenziati, la rabbia e la frustrazione dei precari. Pur in assenza di significative risposte di massa, in un autunno meno caldo di quanto era facile aspettarsi, i dati statistici e le sensazioni diffuse parlano chiaro. Ma al Governo, quello che comprende tutti, tutti vanno d’accordo, in fondo il problema è comune al comando capitalistico: governare, in un modo o nell’altro, l’eccedenza produttiva. Non c’è spazio per tutti, sembrano voler dire.

Controllare, espellere dal mercato del lavoro, ricattare: in forme e intensità differenti sono questi i must di chi governa rispetto ai migranti, ai precari, ai lavoratori. Poco importa che si tratti del razzismo di Rosarno funzionale all’espulsione violenta dell’eccesso di forza lavoro schiavile migrante, dei tagli e della nuova fase dell’inclusione differenziale che intreccia l’esclusione e inibisce la mobilità nelle università e nella ricerca, dei licenziamenti e della militarizzazione dello spazio pubblico, del controllo e dell’assenza generalizzata di garanzie di reddito e di welfare.

E’ per questo dunque che la sfida iniziata con l’assemblea nazionale di ricercatori e studenti di fine novembre alla Sapienza è una sfida aperta: dopo essere stati capaci di costruire una grande manifestazione di massa, radicale nei contenuti e nella capacità di rompere divieti in piazza e bavaglio mediatico lo scorso 11 dicembre, abbiamo adesso tutti davanti una sfida ancora più grande, che dalle scuole e dalle università intreccia le contraddizioni sociali e produttive del paese.

L’offensiva della Gelmini e di Brunetta avanza, tra provocazioni, demagogiche dichiarazioni razziste e nuovi proposti di meritocrazia selettiva. Brunetta rilancia, come suo solito con un “ basta bamboccioni, tutti via da casa a 18 anni!”. Magari! Ci saranno nuove forme di welfare finalmente, affitti accessibili, servizi garantiti a tutti? Purtroppo essa non è altro che una provocazione nei confronti di migliaia di precari e di giovani desiderosi di una vita indipendente, ma che al tempo stesso rifugga dal ricatto della precarietà, degli affitti insostenibili, dei lavoretti “umili e manuali (e sottopagati)” di Sacconi. Quelli che vogliono reddito, casa, welfare. I bamboccioni dell’Italia arretrata, familistica, figlia del lavorismo e del liberismo dei Sacconi, dei Brunetta, dei Damiano, dei democristiani di oggi e di ieri. Mea culpa dei genitori, dice Brunetta; colpa di quella generazione di governanti, vecchia oltre ogni limite, a cui, al di là dell'età anagrafica, il ministro incapace di rifarsi il letto appartiene.

Ma la Gelmini non è da meno: in attesa della discussione alle Camere sulla riforma, la ministra di Viale Trastevere, dopo essersi spesa per difendere una qualsivoglia purezza bianca delle classi italiche, annuncia che ha intenzione di destinare, dal prossimo anno, non più il 7 ma addirittura il 25 per cento del Ffo su basi meritocratiche.

Comincia ad essere chiaro a tutti il disastro del nuovissimo ordinamento e il risultato dell’intreccio di questa direttiva con le linee guida della riforma: impossibilità di scelta rispetto al proprio percorso formativo, annullamento della mobilità, impoverimento culturale e materiale e dequalificazione inseriti nel quadro più ampio dell’assenza di welfare, ovvero ricattabilità ed esclusione per un numero sempre maggiore di giovani precari dal mercato dei diritti e del lavoro. Benvenuti nel 2010!

La sfida dell’autoriforma, dei processi di autogoverno e autogestione delle università, dell’organizzazione dei precari nella metropoli assume oggi una rinnovata centralità.

La riappropriazione di sapere, la pratica dell’autoformazione, il conflitto diffuso capace di intessere nuove relazioni, di qualificare la nostra vita comune e sempre in divenire, di rovesciare i paradigmi del comando anche su un piano molecolare, parziale e quotidiano è la via tracciata lungo la quale inventare nuove pratiche, consolidare e mettere a verifica i percorsi di vita e di conflitto a dieci anni dalla nascita (e a pochi mesi dal suo ormai da tutti conclamato fallimento) del Bologna process; anniversario che sarà celebrato nella prossima riunione di marzo a Vienna dai ministri dell'istruzione europei. Ma migliaia sono stati e, speriamo, saranno i giovani a ribellarsi e rifiutare quel modello, contestarlo e praticare forme di esodo e riappropriazione all'altezza della sfida.

Assieme a questo è però necessario rilanciare, con la consapevolezza della necessità di una rottura di quel tetro e miserabile mondo, quel deserto chiamato futuro che vorrebbero costruirci attorno, la possibilità di una generalizzazione del conflitto, dell’aquisizione di nuovi diritti sostanziali, di nuove pratiche del comune. Una nuova ondata liberatoria e costituente, costruita pazientemente, auspicata, capace di reinventare e qualificare in positivo le nostre vite, rideterminare i rapporti sociali, riappropriarsi della ricchezza, rendere vano ogni tentativo di imposizione di riforme che non contempli la decisione comune. Dipende da noi, adesso.