La sanità piemontese in era pandemica

4 / 1 / 2022

Un racconto di Marco Gatto di una vicenda personale accaduta poco meno di un mese fa a Torino, quindi in una fase ancora non investita dal caos delle ultime settimane, che rappresenta una cartina di tornasole sullo stato attuale dei servizi sanitari essenziali nel nostro Paese.

Mercoledì 8 dicembre. Mi sveglio nel cuore della notte, sto molto male: voglia di vomitare, dolori al costato, ventre completamente bloccato, non riesco nemmeno a urinare, febbre. Dopo 3 ore di calvario, telefono alla guardia medica, 45 minuti di attesa e una gentile dottoressa mi dice di andare in farmacia a comprare una medicina (una polvere che dovrebbe ammorbidire il blocco intestinale). È un giorno di festa, guardo su internet le farmacie di turno: una in centro non è troppo distante da casa mia. Parto sotto la neve, compro il medicamento e me ne torno al caldo. Lo prendo immediatamente, non mi sblocca lo stomaco, ma, almeno, riesco con difficoltà a fare pipì.                                                                                     

Dopo ore la situazione non migliora, richiamo la guardia medica. L’attesa è breve: un dottore mi consiglia di recarmi al più vicino pronto soccorso. Sono ormai le 17. Mi preparo, esco e mi dirigo verso il Gradenigo, ospedale privato del gruppo Humanitas, il cui pronto soccorso ha rischiato di chiudere in quanto ritenuto un inutile doppione di quello dell’ospedale Martini. Devo fare prima il triage in un container: c’è una persona davanti a me, bisogna aspettare fuori, al freddo sotto la neve, perché dentro, nel container, nonostante mascherine e distanziamento, magari c’è il covid. Al mio turno, mi chiedono la tessera sanitaria e mi domandano dei sintomi, dati anagrafici e se sono vaccinato; in cambio mi danno un braccialetto con scritto nome e cognome e un foglio con il codice di attesa: verde 60 minuti. Teoricamente dovrei essere “evaso” in una ora e mezza. Domando se ha senso aspettare o se sia meglio andare il giorno dopo dal mio medico “della mutua”; mi rispondono di aspettare. Grazie alle validissime norme per il contenimento del covid, la sala di attesa è riservata ai parenti e amici. Noi pazienti aspettiamo fuori dall’ingresso delle barelle, dove, ai lati, ci sono due file di sedie. In discesa!! Ad aspettare saremo 4 o 5 persone.                     

Passano due ore, nulla si muove, vengono chiamate un paio di persone che spariscono all’interno, mentre arriva qualche ambulanza, a cui viene data precedenza. Mi rendo conto che sul mio braccialetto, sono riusciti a scrivere il nome di un’altra persona. Lo faccio notare alla prima infermiera che riesco ad incrociare e quella, visibilmente infastidita, mi dice di andare nuovamente all’accettazione. Torno fuori, due persone davanti a me, una ventina di minuti al freddo e infine, al triage, mi danno un nuovo braccialetto e un nuovo foglio con il codice (verde 60 minuti). Passano altre due ore di nulla, sono ormai le 21.30, sto male, ho la febbre, non ne posso più. Passa una infermiera, la intercetto spiegandole (credo gentilmente) la situazione e chiedendole se hanno idea di quando potrò passare. Lei è molto infastidita, mi fa notare che non ha ancora fatto una pausa sigaretta e che la situazione è difficile. Non può dirmi nulla. Alle 22.30 ne ho abbastanza, me ne torno a casa, contando, invece che le pecore, tutti i santi del calendario. A casa mi misuro la febbre: 39 esterna.                                                                                                                                        

Il giorno seguente vado dal dottore, mi dice di continuare a prendere la stessa medicina e mi prescrive ecografia e colonscopia. Telefono al numero unico Cup del Piemonte: con l’ecografia mi va bene, 5 settimane di attesa; con la colonscopia un po’ meno: il primo posto disponibile è dopo oltre 4 mesi. Mi informo, tramite internet, per una colonscopia in forma privata: prezzi che vanno dai 250 ai 500 euro, con disponibilità praticamente immediata.                                                                                                                                      

Cosa aggiungere? Tutto sarà certamente reso più complicato dalla epidemia, ma la sanità piemontese era già parecchio in crisi. Una volta, prima dell’introduzione dei codici di accesso, i pronto soccorso torinesi sembravano una stazione ferroviaria: pazienti che si affollavano senza alcuna urgenza. Questa volta, nelle 5 ore di permanenza, saranno arrivate meno di venti persone, probabilmente meno di quindici. E a me non sembra avere visto arrivare casi disperati. Certo è una impressione personale, non ho contato gli accessi, né ispezionato le barelle. Questa situazione è il frutto di decenni di sottofinanziamento, chiusure di ospedali (il Maria Adelaide, a poche centinaia di metri da casa mia, è stato chiuso, nonostante sia in ottimo stato), numero chiuso all’università, favoreggiamento del regime privato.                                    

Manituana, laboratorio culturale autogestito, insieme ad ex dottori ed infermieri, ha organizzato una serie di lodevoli iniziative volte alla riapertura del Maria Adelaide, cosa poco considerata da comune e regione, che preferiscono farne un bel dormitorio per studenti o roba simile.                                         

Il fenomenale ministro della salute(?) Speranza (nomen omen?) che, quando era deputato PD ha avallato milioni di tagli alla sanità, è mai stato in un pronto soccorso? Ha mai prenotato un esame? Blaterare che bisogna vaccinarsi e mettersi le mascherine è facile, sono capaci tutti, anche mio nipote di 11 anni. Certo che il nostro ministro che, a inizio pandemia, ha detto che l’Italia ha il miglior servizio sanitario pubblico al mondo e che quindi avrebbe affrontato l’epidemia senza colpo soffrire, non pensa minimamente di investire in prevenzione o di aprire ospedali e centri salute. Quelli rimangono anche a fine pandemia, sono un costo, molto meglio investire in vaccini che durano, se va bene, 3 o 4 mesi e pazienza se la gente non riesce a curarsi degnamente. Probabilmente, per la nostra classe politica, è meglio sottoscrivere una bella assicurazione sanitaria privata. Che sarà mai? Perché mai provare ad investire qualcosa  nella ricerca di trattamenti precoci o di medicine, quando ci sono i salvifici vaccini? Non sono un medico, non ne so nulla, ma mi sembra che, nel caso dell’influenza, il vaccino cambi tutti gli anni, ma le cure rimangono sempre le stesse, modulate diversamente, magari. Il nostro presidente del consiglio Mario Draghi, l’uomo della divina provvidenza (bancaria), ha mai provato a mettersi in una coda in una ASL? O lui ha l’assicurazione?

Noi “compagni” (con tutte le virgolette che volete) abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per impedire questa deriva? Ci siamo bruciati in piazza come i bonzi vietnamiti? O eravamo troppo impegnati nella costruzione del Contro Impero? O, forse, anche noi ci siamo convinti che “così vanno le cose, così devono andare” (grazie CSI)? Ci abbiamo almeno provato? La seconda di copertina della mia copia di “Impero” (Hardt, Negri) recita testuale: “La sovranità è passata a una nuova entità, l’Impero, che non accetta limiti né confini,….., vuole controllare tutti gli aspetti del corpo e della mente, superare la storia…”. Forse noi, troppo impegnati a denigrare i no vax (anche comprensibilmente, ma è quello il problema?), non lo abbiamo capito e abbiamo accettato, spero almeno preoccupati, il green pass, il più formidabile strumento per controllare, discriminare e dividere la gente (la “moltitudine”).

Quello che ci resta è un futuro tra l’ecologismo ingenuo alla Greta (persona per molti versi rispettabilissima) e le mobilitazioni giovanili contro le limitazioni alla “movida”, al grido di “Vogliamo solo bere”. Può essere triste ed irrispettoso ma, a parer mio, le ultime mobilitazioni torinesi di qualche rilevanza sono state queste due, a parte il fuoco (per fortuna) fatuo dei forconi e i sabati dei No Green Pass.

Nel frattempo, io vado allo stadio a sperare che il Toro vinca qualche partita o che arrivi un novello San Giorgio.  Senza lancia, ci mancherebbe…